domenica 26 dicembre 2010

Buon Natale! \ AMERICAN LIFE (USA, 2010) di Sam Mendes

'Away we go' recita il titolo originale, ben più eloquente di quello affibbiato dalla nostra distribuzione, che scimmiotta il recente passato del regista Sam Mendes... L'America descritta in questo film infatti non ha più niente di 'Beauty' ma, anzi, assomiglia a qualsiasi altro paese al mondo, con gli stessi problemi e le stesse speranze di una giovane coppia che cerca, convinta di poterlo trovare davvero, una specie di 'luogo ideale' dove far nascere il proprio figlio.
Bart e Verona sono entrambi trentaquattrenni, precari, con poche certezze e molti sogni in testa. E vivono la loro precarietà con totale disincanto e consapevolezza, tipiche di chi in questa condizione, appunto, ci si trova da sempre.

Essi vagano in lungo e in largo per tutto il Nordamerica, passando da Phoenix per Tucson, da Madison fino al Colorado e fino al Canada alla ricerca della 'comunità' perfetta dove stabilirsi e piantare radici: attraverso questo viaggio s'imbatteranno in personaggi improbabili e surreali, come una cugina di Bart totalmente sciroccata e 'figlia dei fiori' (con un enorme letto matrimoniale dove dormono tutti i membri della famiglia, bimbi compresi), il di lui fratello (ragazzo-padre, abbandonato dalla moglie e con una figlia da accudire), una ex-collega di lavoro ninfomane e sboccata, che insulta i figli e 'ci prova' spudoratamente...

American Life sembra essere, per così dire, la 'versione natalizia' di Revolutionary Road: il tono è lieve, sarcastico, da commedia leggera, cammuffato da ennesimo road-movie... ma le prerogative sono le stesse: la perdita di valori in una società che sembra non avere più niente di umano, e dove l'unica possibilità di salvezza pare essere proprio quella del 'chiamarsi fuori', di tagliare i ponti col mondo esterno, trovando (finalmente) il proprio luogo dell'anima nella grande casa d'infanzia, rifugio uterino e 'incontaminato'.
Conclusione forse, banale e scontata. Ma il film ci arriva dopo un'oretta e mezza veloce e frizzante, dove si ride e si riflette, senza deprimersi. E, per un film 'natalizo', direi che è già tanto.

VOTO: * * *

Buon Natale! \ DEPARTURES (Giappone, 2008) di Yojiro Takita

Può sembrare un paradosso: vedere nel giorno di Natale un film che parla di morte. Eppure Departures, il film giapponese che nel 2008 ha conquistato l'Oscar come Miglior Film Straniero è uno dei film più 'natalizi' che abbia mai visto, nel senso buono del termine. E' una pellicola poetica, lieve, disarmante nella sua delicatezza e nella facilità con la quale riesce a penetrare nei sentimenti di chi la guarda, affrontando e sdrammatizzando con toni ora comici ora toccanti (ma mai drammatici o ricattatori) un argomento difficile come, appunto, quello del... trapasso.

Sì, perchè le 'partenze' del titolo non sono altro che quelle... verso l'aldilà! Nello stesso equivoco cade ingenuamente anche Daigo, giovane musicista disoccupato che torna al paesello natìo per ricostruirsi una vita e cercare un nuovo impiego. Il protagonista risponde ad un ambiguo annuncio di lavoro, credendo di essere stato assunto da un'agenzia di viaggi, mentre invece capirà ben presto che quell' 'agenzia' si occupa in particolare solo... dell' 'ultimo' viaggio! Daigo si ritrova così a fare il 'tanato-esteta', vale a dire colui che nell'antichissima tradizione giapponese ha il compito di rivestire, curare e ridare dignità al corpo dei defunti prima di essere cremati.

All'inizio la 'novità' è ovviamente sconvolgente, ma la paga è buona e la fatica non è molta. E così Daigo accetta il lavoro, scoprendo giorno dopo giorno di avere un particolare talento... lui, ragazzo timido e molto sensibile, con scarsa fiducia in se stesso (ha rinunciato alla carriera musicale perchè convinto della sua mediocrità) scoprirà attraverso il rapporto con i familiari dei defunti e la sacralità di un'arte vecchia quanto il mondo, la chiave di volta per la sua esistenza. Attraverso una danza rituale (ma mai macabra) che toglie i vestiti e ricompone la salma restituendole un aspetto umano, Daigo si sente finalmente utile e non insignificante, maturando convinzione nei suoi mezzi e ricavando da ogni 'esperienza' una significativa lezione di vita.

In Departures c'è tanta poesia e tanta bellezza. Si respira l'aria di una terra lontana e immaginifica, iper-tecnologica eppure attaccatissima alle proprie tradizioni, ai propri simboli e ai propri luoghi. Che possono essere un buon tè caldo, i peschi in fiore, un bagno pubblico frequentato dagli anziani del paese, un bar abbandonato pieno di ricordi...
E c'è anche tanta felicità, a dispetto del tema 'scabroso': quella di un ragazzo che riesce a realizzarsi e trovare la propria pace interiore, malgrado i pregiudizi degli altri. E ad infondere nello spettatore un senso di appagamento e conforto.
Scusate se è poco.

VOTO: * * * *

sabato 25 dicembre 2010

Buon Natale! \ A CASA PER LE VACANZE (USA, 1995) di Jodie Foster


La festa è quella del Ringraziamento, ma per noi cambia poco... i riti sono gli stessi e pure le situazioni. Ogni anno con l'approssimarsi del Natale mi viene spontaneo rivedere questo film spassosissimo e malinconico, opera seconda da regista di Jodie Foster. Una commedia dolceamara, imperniata sul tema della famiglia, sempre caro alla regista e con ovvi riferimenti alla propria situazione personale: la Foster, come si sa, non ha mai avuto una famiglia 'normale', e il messaggio del film è chiaro: la famiglia, per quanto strampalata, oppresiva, soffocante, improbabile che sia, è sempre la famiglia, e i legami di sangue sono più forti di ogni altra cosa. Malgrado, davvero, tutto quello che può succedere nel Pranzo del Thanksgiving!

Il film è infatti la cronaca di una 'giornata' particolare: quella di Claudia, ragazza-madre trentenne che torna a casa dai suoi genitori per il giorno del Ringraziamento. Le cose non le vanno necessariamente benissimo: è raffreddata e malaticcia, ha appena perso il lavoro, la figlia adolescente è rimasta a casa da sola col chiaro intento di perdere la verginità in quel weekend, la aspetta una riunione di famiglia che somiglia davvero a un incubo: ritroverà la madre conformista e iper-protettiva, il padre malinconico e bonaccione, una zia arteriosclerotica e fuori di testa, il fratello gay e 'destabilizzante', la sorella e il cognato (con tanto di nipote) convinti di essere l'unica coppia 'normale' in un 'universo' del genere... aggiungete poi un vicino triste e sfigato, da sempre innamorato (e mai ricambiato) di lei, una compagna di scuola oca e antipaticissima che è riuscita a sposare l'uomo giusto', il tacchino d'ordinanza che non vuol saperne di farsi affettare e, per contrappasso, i 'lunghi coltelli' che si affileranno man mano che procede la 'reunion'...

In pratica, c'è di tutto e di più per impazzire: ma Claudia (una strepitosa Holly Hunter, evidente alter-ego della regista) sa bene che non può farne a meno. Perchè come dice la stessa Foster 'stare in famiglia è come stare in ascensore con gente con cui non si ha niente da spartire. Ti fa sentire a disagio ma ci devi stare, perchè in quel momento non hai nessuno fuorchè loro'.
Il film deve molto alle commedie di Woody Allen (le analogie con Interiors sono evidenti), e ha un andamento di pari passo con la tradizione dei 'pranzi d'occasione': scoppiettante, divertentissimo, acido nella prima parte, si fa sempre più delicato e malinconico man mano che avanzano le portate in tavola. E il finale, con gli animi finalmente sereni dopo la 'bufera', con padre e figlia da soli che riguardano i filmini dell'infanzia, strappa più di qualche lacrima.

Insomma: il film davvero 'giusto' da vedere a Natale, impreziosito da un manipolo di attori 'stagionati' e straordinari: oltre alla Hunter troviamo Ann Bancroft, Geraldine Chaplin, Charles Durning, Robert Downey jr. (forse nella sua migliore interpretazione). E' un vero peccato che una pellicola così carina sia praticamente introvabile in Italia: uscita all'epoca in vhs non è mai stata riversata in dvd e non esiste una versione in commercio. La si trova solo on-line d'importazione (in lingua originale senza sottotitoli) oppure bisogna aspettare qualche raro passaggio televisivo.
In tal caso non lasciatevelo scappare!

lunedì 20 dicembre 2010

THE TOURIST (USA, 2010) di Florian Henkel Von Donnesmarck


Talmente kitsch da risultare (quasi) divertente. The Tourist è tutto qui, e lo diciamo con una certa rassegnazione e senza sorprese, consci ormai di come funzionano le cose a Hollywood.
Indubbiamente la delusione è enorme: Florian Henkel Von Donnesmarck due anni fa aveva incantato il mondo con un gioiello di film come Le vite degli altri, facendo commuovere, indignare e sorprendere milioni di spettatori, letteralmente rapiti da un'opera prima (!) così drammatica, rigorosa ma anche assolutamente avvincente.
Poi, quando uscì la notizia che il talentuoso regista tedesco, nel frattempo 'sbarcato' oltreoceano grazie all'Oscar conquistato, avrebbe diretto come secondo film un thriller-romantico ambientato a Venezia e con la coppia Depp-Jolie come protagonisti, molti dubbi si erano addensati sulla sua reputazione...dubbi che, per una volta, hanno avuto la loro disarmante conferma.

Insomma, cosa non si fa per i soldi!
L'opera seconda di Donnesmarck è una pellicola ultra-convenzionale e ultra-hollywoodiana nell'accezione peggiore del termine: è un non-film fatto di figurine (i tanti stra-pagati protagonisti eccellenti che firmano il cast), location turistiche (una Venezia banalmente da cartolina) e il classico vuoto pneumatico di idee in fase di sceneggiatura che, capirete bene, in un thriller è più devestante di un terremoto. The Tourist nelle intenzioni vorrebbe (forse) essere un affettuoso omaggio al cinema hitchcockiano, e in questo bisogna dare atto al regista della sua onestà, addirittura troppa direi! I riferimenti a Intrigo internazionale sono, infatti, talmente evidenti e grossolani che è impossibile non scambiarlo per una 'citazione' : il classico caso dell'uomo-qualunque (in questo caso Depp) che viene coinvolto in una cosa più grande di lui... il problema è che la trama è talmente risibile e scontata che il 'telefonatissimo' colpo di scena finale si intuisce dopo cinque minuti, in pratica dal primo scambio di battute tra i due protagonisti. E da quel momento fino ai titoli di coda la vicenda si trascina stancamente ma, tutto sommato, facendo divertire lo spettatore 'grazie' (si fa per dire) ad una messinscena così pacchiana che non può non strappare sorrisi...

A questo, dobbiamo dire, contribuisce molto la protagonista principale. Angelina Jolie è talmente improbabile nel suo ruolo di 'pink-lady' (ebbene sì... ) da risultare involontariamente comica: vestita sempre come un confetto, con la cinepresa che indugia ora sul suo notorio 'lato B', ora sui suoi altrettanto celeberrimi labbroni gonfiati a due atmosfere (con tanto di rossetto rosso fuoco!), è praticamente la caricatura di se stessa. Assolutamente impossibile da prendere sul serio, esattamente come il suo partner artistico, un Johnny Depp al minimo sindacale, strizzato in goffe giacchine bianche e sempre con quell'espressione 'un po' così...' che può senz'altro andar bene per le grottesche storie di Tim Burton, ma che in un film del genere lo rendono inevitabilmente ridicolo. Stendiamo poi un velo pietoso sulla componente 'italica' del cast: saremmo davvero curiosi di sapere chi è stato a 'consigliare' a Donnesmarck, che so... non un Toni Servillo o un Luigi Lo Cascio, ma gente del calibro di Raul Bova, Christian DeSica, Nino Frassica e del povero Neri Marcorè (forse scambiato causa un banale refuso con Neri Parenti...).

Un cast improbabile per un film improbabile. Ma che, dobbiamo dirlo con sincerità, è tutto sommato godibile ed ha il grande pregio (forse l'unico) di durare poco più di un'ora e mezza, così da lasciarsi anche guardare. Naturalmente senza pretese e solo per chi va al cinema una volta l'anno.
Giusto, giustissimo dunque per il pubblico natalizio.

VOTO: * *

mercoledì 15 dicembre 2010

La 'battaglia' di Natale: istruzioni per la sopravvivenza (sob!)

Lo avrete notato: pochi post in questo mese di dicembre. Per forza: a dicembre, si sa, il cinema (quello vero) va in letargo, e a noi presunti cinefili non resta che sopportare e aspettare la Befana... che si porterà via le feste ma, perlomeno, ci farà tornare a respirare l'aria del grande schermo. Non è un paradosso: è vero (ovviamente!) che in Italia le due-tre settimane pre-natalizie sono quelle in cui si concentrano i maggiori incassi dell'anno, ed è vero che gli esercenti aspettano come il pane questo periodo, magari con un occhio alle previsioni del tempo: una nevicata un po' più 'seria' del previsto o qualche giorno di bel tempo in più possono drasticamente allontanare gli spettatori dalle sale, con conseguenze disastrose per le casse di sale e multisale.
Insomma: Natale è spesso la panacea degli 'addetti ai lavori' , e tant'è... ma, sempre a noi presunti cinefili, cosa ci aspetta in questi giorni?

Beh, le stesse pellicole di sempre: cinepanettoni, cartoni animati, fantasy, film ad un tasso spropositato di melassa da far rischiare il diabete... questo è il Natale cinematografico italiano: titoli di infima qualità, iper-commerciali, spesso scadenti, fatti apposta per quel particolare 'target' di pubblico che si reca in sala una volta l'anno, e certo non pretende titoli 'impegnati'.
Un panorama sconfortante, che non ha eguali al mondo, e che costringe i veri appassionati ad aspettare un mese o due per vedere quei film che negli altri paesi escono adesso e che magari sono in lizza per Oscar o Golden Globe.

Ed ecco che allora, tra un Natale in Sudafrica, A Natale mi sposo, Tron e l'ultima fatica (ehm...) di Silvio Muccino, va a finire che La banda dei Babbi Natale dello stanco trio Aldo, Giovanni e Giacomo finisce con l'essere il film più 'guardabile'... o se preferite, meno indegno. A questi si aggiunge poi un 'tripudio' di cartoni animati che, spinti anche dalla nuova tecnologia (o forse moda?) del 3D, quest'anno si sono moltiplicati in maniera esponenziale: ed ecco allora che Megamind, Rapunzel, Narnia, Le avventure di Sammy, si contenderanno le preferenze (e gli incassi) dei più piccini, avviati già da piccoli sulla strada del rincoglionimento totale...
Che cosa resta allora per 'sopravvivere' in queste settimane?

Poco, pochissimo. Dò qualche chance a The Tourist, l'unico film ultra-commerciale che potrebbe avere una parvenza di qualità, nel panorama desolante prima descritto. Certo, da una pellicola tanto strombazzata, modaiola, iper-hollywoodiana, fatta apposta per i grandi incassi non c'è da aspettarsi la luna, ma il regista è quel Florian Henkel Von Donnesmarck già autore del bellissimo e struggente Le vite degli altri, realizzato in patria un biennio fa. E' molto triste pensare che un cineasta così promettente e talentuoso si sia 'svenduto' allo star-system già al secondo film, ma se non altro ci possiamo aspettare un prodotto dignitoso e non volgare. Sarebbe già qualcosa.

Si dice un gran bene anche di American Life, che segna il ritorno sul grande schermo di Sam Mendes: una pellicola minimalista e tragicomica, molto indipendente, che potrebbe essere una piacevole sorpresa. E un minimo di credibilità vogliamo darla anche a La bellezza del somaro di Sergio Castellitto, storia intima e sentimentale di una famiglia 'destabilizzata' dal giovane fidanzato della figlia... se non altro per non affondare sempre il nostro cinema. E, per gli amanti del genere, esce anche L'esplosivo piano di Bazil del francese Jean-Pierre Jeunet, che dopo l'imprevisto (e molto sopravvalutato) exploit de Il favoloso mondo di Amèlie cerca disperatamente di mantenersi a quei livelli e sfidare di nuovo il botteghino. Impresa non facile perchè sarà dura ritagliarsi uno spazio tra i 'colossi' di cui sopra.

Che volete, di questi tempi bisogna accontentarsi...
Buon Natale a tutti.

sabato 4 dicembre 2010

La classifica di CIAK: i 25 migliori film di inizio millennio. Qualche riflessione...


Lo ammetto, sono uno di quelli che comprano Ciak. Da sempre. Senza storcere il naso e senza cadere nel facile snobismo del 'cinefilo-doc' che rifugge come la peste tale rivista. Ma tant'è, non si può vivere solo di 'Cahiers du Cinema'! E non bisogna commettere l'errore di pretendere da Ciak quello che non è: ovvero, Ciak è una rivista di informazione cinematografica e NON di critica. Inutile quindi scagliarsi dozzinalmente contro lo scarso spazio dedicato alle recensioni e agli approfondimenti: se volete quelli, cercate altrove. Il mensile diretto da Piera Detassis funziona come un buon trailer, e si rivolge principalmente a un pubblico giovane e adolescenziale, che forse non leggerà Cineforum o SegnoCinema ma che, magari, vede molti più film di qualche 'parruccone' di cui sopra...

Ebbene, proprio Ciak nel numero di dicembre appena uscito dedica ampio spazio alla classifica dei 25 film più belli degli 'anni zero', cioè quelli dal 2000 al 2010, votati dai propri lettori.
E prima di passare ai commenti, vediamo dunque questa classifica. Eccola:

1. Kill Bill (2003) di Q. Tarantino
2. Inception (2010) di C. Nolan
3. Il Gladiatore (2000) di R. Scott
4. Million dollar baby (2004) di C. Eastwood
5. Il Signore degli Anelli (2001) di P. Jackson
6. Il Cavaliere Oscuro (2008) di C. Nolan
7. Avatar (2009) di J. Cameron
8. Moulin Rouge (2001) di B. Luhrmann
9. The Departed (2006) di M. Scorsese
10. Up (2008) di P. Docker
11. Into the Wild (2007) di S. Penn
12. I segreti di Brockeback Mountain (2005) di A. Lee
13. Donnie Darko (2001) di R. Kelly
14. La maledizione della prima luna (2003) di G. Verbinski
15. Il pianista (2002) di R. Polanski
16. Big Fish (2003) di Tim Burton
17. Mystic River (2003) di C. Eastwood
18. Wall-E (2008) di A. Stanton
19. Le vite degli altri (2006) di F. Henkel Von Donnesmark
20. Non è un paese per vecchi (2007) di J. e E. Coen
21. Gran Torino (2008) di C. Eastwood
22. Match Point (2005) di Woody Allen
23. Gomorra (2008) di M. Garrone
24. Bastardi senza gloria (2009) di Q. Tarantino
25. Se mi lasci ti cancello (2004) di M. Gondry

Come si vede la prima cosa che balza subito agli occhi, per quanto ovvia, è che sono tutti titoli più o meno 'commerciali'. Normale, trattandosi della classifica della rivista più nazional-popolare del nostro paese. La sola eccezione è rappresentata dal 19.posto de Le vite degli altri, il grandioso e commevente affresco sulla guerra fredda firmato del tedesco Von Donnesmark, unico vero film 'd'essai' della lista (e tra parentesi anche il mio preferito, ma questo non conta). E appare chiaro anche quale sia l'età media dei partecipanti al sondaggio, ovvero medio-bassa. Non è un caso infatti che nei primi 25 ci siano molti titoli decisamente avventurosi e fantastici (generi prediletti dai ragazzi) come Il Signore degli Anelli, La maledizione della prima luna, Big Fish, Il Cavaliere Oscuro, Inception, Avatar. E anche ben due cartoni (Up e Wall-E), dato questo davvero sorprendente se si pensa che molti nemmeno considerano l'animazione come genere cinematografico a se stante.

E se il primo posto di Kill Bill (votato a stragrande maggioranza come miglior film), insieme al 24. di Bastardi senza gloria, confermano Quentin Tarantino come regista di culto di questo inizio millennio, a sorpresa si scopre che il cineasta più amato (con ben tre titoli in lista, nessuno ha saputo far meglio) è proprio il grande vecchio Clint Eastwood: il suo cinema asciutto, rigoroso, scarnificato, disilluso, scevro di qualsiasi pietismo o ruffianeria, innegabilmente onesto, è lo specchio del mondo in cui viviamo. Qualche rivista lo ha addirittura eletto a propria 'guida morale' (vedi FilmTV), e certamente la sua faccia rugosa, austera, scolpita ma anche rassicurante e malinconica, è davvero quella di un uomo del nostro tempo. Clint, fortissimamente Clint: mi associo a questo risultato e a questo modo di fare cinema. E gli auguro (e MI auguro) che il suo prossimo film, Hereafter, dedicato a un tema tanto spinoso quanto assoluto (la vita dopo la morte) possa essere il primo capolavoro della prossima decade. Da noi uscirà il 5 gennaio 2011.

Adesso però vi faccio la domanda-trabocchetto: Quali e quanti sono i film 'meritevoli' rimasti fuori da questa lista che meritano un posto nei 25? Magari quelli più 'di nicchia', meno distribuiti, meno inseriti nello star-system? I miei amici cinefili di sinistra, ultra-snob, con la kefiah al collo e 'Il Manifesto' sottobraccio (scherzo! ma li conosco davvero!) prima si metteranno a ridere, poi andranno con la mente a cercare tutti quei titoli 'de spessore' (come dicono a Roma) che in questo primo decennio hanno strappato loro un timido applauso... solo che, oibò! Già me li vedo scervellarsi a tirare fuori 'sti titoli: vuoi vedere che non è poi così facile.

Certo, manca nella lista un film come Le conseguenze dell'amore. Pellicola straordinaria, un manuale di recitazione e uno spietato affresco di un'epoca. Insieme a Gomorra (unico italiano della top-25) poteva davvero starci. Così come poteva starci lo splendido Marie-Antoinette, meravigliosa allegoria pop firmata Sofia Coppola. E anche l' 'obamiano' La 25.a ora di Spike Lee, o un altro film dei Coen, L'uomo che non c'era. I più temerari potrebbero poi spingersi fino al glaciale ma sontuoso In the mood for love di Wong-Kar-Wai, mentre ai cultori dell'animazione potrebbe sembrare un insulto l'assenza del grande Hayao Miyazaki (soprattutto con La città incantata, capolavoro del genere e non solo).
E poi? Gratta gratta... si vede che non c'è poi molto. Insomma, i film del decennio sono questi. Se non 25 potranno essere 4-5 in più ma è difficile uscire da questi. Certo, ovviamente ognuno la vede a modo suo. Anche per me in questa lista ci sono parecchi film decisamente sopravvalutati (a partire proprio da Kill Bill, ma anche The Departed, La maledizione della prima luna, Inception), qualcuno addirittura davvero brutto (Il gladiatore, Avatar), ma grossomodo non si esce da questa rosa.

Questo cosa vuol dire? Beh, innanzitutto che i giovani di oggi sono tutt'altro che stupidi. Certo, preferiscono le emozioni forti e le situazioni romantiche e 'assolute', a tutto tondo (ne sono esemplari perfetti due titoli già cult come Donnie Darko e Into the Wild) e disdegnano il nostro cinema (da sempre carente del famoso 'prodotto medio': o si fanno commedie sguaiate e volgari oppure drammoni iper-verbosi 'tre stanze e una cucina) ma le loro preferenze rispecchiano quelle della critica.

Seconda cosa, questa lista è la dimostrazione evidente che 'commerciale' non è sinonimo di bassa qualità. Sembra che oggi la parola 'commerciale' sia quasi offensiva, che girare film che incassano tanti soldi sia un demerito e non un pregio. E' chiaro che non è così, e che non è giusto generalizzare. Non tutti i film commerciali sono cine-panettoni e non tutti i film d'essai sono capolavori. D'altronde, ci sono film che nascono 'di nicchia' e che poi col passaparola della gente diventano veri e propri successi: è il caso del già citato Donnie Darko, ma anche di Big Fish o Se mi lasci ti cancello.

Mi vengono sempre in mente le parole di Peter Weir in un'intervista di qualche anno fa: 'I critici proprio non li capisco: se giro film a basso budget come Picnic ad Hanging Rock allora sono 'uno di loro', se invece faccio Master and Commander allora sono 'allineato'... eppure io lavoro sempre allo stesso modo!' Già...

Appuntamento al prossimo millennio!

venerdì 3 dicembre 2010

L'ultima zingarata

Chi mi conosce sa che non amo i 'coccodrilli'. Non mi piacciono i necrologi e difatti non ne troverete mai qui sopra: odio gli articoli preconfezionati e apologici delle grandi personalità che passano a miglior vita. Non è cinismo: semplicemente non servono, perchè chi ha avuto la fortuna di fare cinema lascia come testamento la propria opera, che vale più di mille rassegne stampa.
Questa volta però ho deciso di fare un'eccezione, e non tanto per la statura artistica di un grande maestro del cinema come Mario Monicelli, altrimenti chissà quante 'eccezioni' dovrei fare: nello stesso giorno, ad esempio, sono morti anche Leslie Nielsen e Irwin Kershner. Di sicuro meno importanti del 'Grande Vecchio' (cinematograficamente parlando, s'intende) ma egualmente capaci di regalarci tante emozioni in celluloide.

No, quello che mi ha colpito è stato il modo in cui è morto Monicelli: gettandosi giù da un balcone dell'ospedale, senza essere visto da nessuno e senza lasciare alcun messaggio a motivazione del suo gesto estremo. Non lo nego, mi ha turbato molto. Fa un certo effetto sapere che una persona si suicida a 95 anni, anche se non fosse ricca e famosa come il 'padre' della commedia all'italiana. Molti considerano il suicidio un segno di debolezza, io credo che a quell'età sia un atto di grande coraggio e di grande lucidità. Debole, semmai, è chi si toglie la vita a vent'anni, con una vita intera ancora davanti e con tante possibilità sempre aperte: si è deboli perchè non si ha la voglia di combattere, di reagire. Non è una critica, sia chiaro. Solo una constatazione: ognuno ha il diritto di disporre come vuole della sua vita, nessuno è giudice per commentare certe azioni.

Se Monicelli fosse morto di malattia, o di vecchiaia, o investito da una macchina probabilmente non avrei scritto nulla qui sopra. E in ogni caso non ci si può 'stupire' della morte di un quasi centenario. Ma saperlo morto così... beh, mi ha fatto una certa impressione e molta tristezza. Ma anche un grande rispetto verso una persona che ha voluto essere se stessa fino alla fine. Se n'è andato per sua scelta, prima che una malattia subdola e crudelle avesse ragione della sua fibra stanca e malandata. E' stata la sua ultima 'zingarata', la degna chiusura di una vita dedicata al cinema, e che il cinema (quello italiano soprattutto) rimpiangerà.

Toscanaccio burbero, irrequieto, 'scomodo' ma tremendamente geniale, Mario Monicelli ha spesso anticipato i tempi con le sue opere: divertenti, sardoniche, grottesche ma innegabilmente amare. Come se fin dagli anni '50 presagisse il vicolo cieco in cui si sarebbe infilata la cultura e la società italiana in generale da lì ai decenni futuri: tutti i suoi film sono pervasi da un'aura tragica, pessimista se non addirittura feroce: Amici Miei mi ha fatto sganasciare dalle risate, ma se lo vai ad analizzare ti accorgi senza fatica che è uno dei film più cupi e tristi del millennio che ci ha lasciato.

E' stato bello vedere l'altra sera in tv gli studenti urlare a squarciagola slogan e cori in ricordo di Monicelli. Lui, da sempre contestatore e bastiancontrario, da lassù avrà sicuramente apprezzato.
Ma, com'è nel suo stile, senza darlo troppo a vedere.

domenica 28 novembre 2010

gli invisibili / ONDINE (Irlanda, 2010) di Neil Jordan

C'era una volta, in una terra tanto magica quanto 'maledetta', un pescatore solitario di nome Syracuse, detto 'Circus' (il clown, il matto del villaggio) che un bel giorno tira su dalle sue reti una ragazza bellissima e misteriosa, che dice di chiamarsi Ondine. La sua giovane figlia Annie è convinta che sia una 'selkie', cioè una creatura del folklore irlandese, simile a una sirena, gettatasi in mare per sfuggire alla malvagità delle persone. Syracuse nutre più di un dubbio, ma la ragazza si rifiuta di andare in ospedale e non vuole vedere nessuno oltre al suo salvatore: decide allora di portarla dentro la sua misera casupola e tenerla con sè, e da quel giorno le battute di pesca cominciano inaspettatamente a diventare sempre più fortunate...

L'ultimo film di Neil Jordan è un nostalgico e affettuoso ritorno alle origini, un dolce omaggio alla sua terra che mescola abilmente romanticismo e fantasia. Una favola moderna ambientata in una città di mare irlandese, con paesaggi mozzafiato e fotografia d'altri tempi firmata dal fido Christopher Doyle, che ti 'costringono' ad amare uno dei paesi più belli del mondo, ricco di suggestioni e grandi tradizioni. Ondine si ispira infatti alle leggende celtiche, e se certamente può apparire ingenuo e disincatato ad uno spettatore 'straniero' , non possiamo comunque non apprezzare lo sforzo fatto dal regista per 'attualizzare' e rendere credibile una storia 'fantastica' come questa.

Alla fine, però, l'unico 'mistero' che resta davvero è come sia possibile che una pellicola come questa non riesca a trovare nel nostro paese uno straccio di distribuzione (è uscita direttamente in dvd): non bastano infatti un regista affermato, un attore famoso (Colin Farrell), una splendida protagonista (Alicja Bachleda, ne risentiremo parlare), le musiche accattivanti ed eteree dei Sigur Ros e una sceneggiatura dolce e romantica, perfetta per questo periodo dell'anno... Ondine avrebbe potuto essere il film di Natale ideale per grandi e piccini: non è stupido, non è volgare, non è violento ed è adatto a tutte le età: già... forse è troppo pericoloso per i nostri cinepanettoni!

In Irlanda hanno Neil Jordan e Farrell, noi Boldi, DeSica e Neri Parenti.
A ciascuno il suo.

VOTO: * * *


sabato 20 novembre 2010

FACEBOOK & me...

Mark Zuckerberg, almeno secondo il film che David Fincher gli ha 'dedicato', è una persona potente, ricca, terribilmente sola. Si può essere soli con '500 milioni di amici virtuali'? The Social Network sembra dirci di sì... Ho scritto nella recensione che trovate sotto che questo è un film 'epocale', il vero capolavoro di inizio millennio. Una pellicola generazionale dunque, eppure innegabilmente classica nella struttura, che ci riporta al vecchio cinema d'inchiesta hollywoodiano. E Zuckerberg ha, innegabilmente, i connotati del Charles Foster Kane di Quarto Potere: vive in un castello dorato e dipinto di azzurro (il colore di Facebook), è temuto, rispettato, forse odiato, sicuramente prigioniero di se stesso e di quello che si è costruito intorno.
Proprio per la sua proverbiale 'asocialità', forse, Zuckerberg ha intuito la vera rivoluzione del web 2.0: ciò che la gente desidera è semplicemente 'connettersi', vale a dire entrare in contatto l'uno con l'altro, non tanto per conoscersi bensì per 'spiarsi', per stare in mezzo agli altri, anche senza conoscersi e senza nemmeno il desiderio di farlo.
Sembrerà strano, eppure questo film così calato nel presente, così rappresentativo della società attuale, mi ha fatto pensare ad un racconto che amo tantissimo, scritto oltre un secolo fa...

Si parla di un uomo che "passeggiando per la città, scruta i numerosi passanti che si trova di fronte. Li descrive e li cataloga uno per uno, sa dire tutto di loro e, in particolare, riesce perfettamente a dedurre la loro posizione sociale. La descrizione della folla va avanti, fino a quando il narratore non scorge un uomo che desta il suo interesse perché non riesce a "capirlo". Questo individuo è minuto, di bassa statura e d'aspetto debole. Il protagonista decide, preso dalla curiosità, di seguirlo per catturare qualche informazione. I due vagano per tutta la città tornando svariate volte al punto dal quale sono partiti; passano quasi quarantott'ore, ma il misterioso uomo sembra non accorgersi del suo "stalker", e pare non aver voglia di tornare a casa: tutto quello che fa è cercare di stare sempre in mezzo alla folla" (da Wikipedia).

E' un celebre racconto di Edgar Allan Poe, 'L'uomo della folla'. E Facebook è esattamente 'la folla' stessa: un non-luogo dove tutti si incontrano anche senza avere nulla da dire, accomunati dallo spirito essenzialmente voyeristico che, attraverso le pagine dei profili personali dei singoli utenti, ci introduce in un mondo fatto di immagini e dettagli altrui. Sia per la curiosità morbosa di sapere 'chi c'è', sia per la sempre latente paura di restare da soli.

Anch'io ho un mio profilo Facebook. Ovviamente.
Ho cercato di resistere finchè ho potuto, provando a convincermi che non avevo nessuno da cercare, che non sapevo cosa farmene (non che adesso lo abbia capito...), che era una 'moda' che non mi avrebbe minimamente contagiato.
E invece eccomi qui, ogni sera, a gettare un rapido sguardo su quella paginetta bordata di azzurro.
Certo, non lo uso per incontrare persone, nè mi illudo di conoscere gente nuova. Lo uso principalmente come 'strumento' di divulgazione, in special modo per diffondere le pagine che state leggendo in questo momento. Ma tant'è. Ci sono e ci resterò probabilmente a lungo.
Zuckerberg aveva ragione, e forse aveva letto Poe: davanti a un pc, come in mezzo alla folla, siamo tutti più sicuri di noi stessi, meno inibiti, meno spaventati.
E, sicuramente, un po' più soli.

THE SOCIAL NETWORK (USA, 2010) di David Fincher


The Social Network parte subito: non si fa in tempo a spegnere le luci in sala che il film ha smania di inziare, si sentono i primi dialoghi quando ancora vediamo sullo schermo il logo della Columbia Pictures. Dialoghi serrati, ritmo frenetico, montaggio vorticoso. L'ultimo film di David Fincher è lo specchio più fedele del mondo in cui viviamo, dove tutto va veloce senza darti la possibilità di ragionare, e dove il capitalismo 2.0 non ti lascia altra strada se non quella di inseguire a perdifiato le mode del momento, pena l'esclusione dalla vita sociale. E non poteva essere che così un film che racconta in prima persona quello che è il fenomeno dei fenomeni, l'invenzione più influente di questo inizio di secolo.


Ma attenzione: The Social Network non è SOLO un film su Facebook. E' qualcosa di molto più grande, più importante: è un lucido e spietato ritratto della società contemporanea, analizzata prendendo a pretesto una storia dove sono presenti tutti i (non)valori che la caratterizzano: i soldi in primis, ma anche l'invidia, l'arrivismo, la superficialità dei rapporti, l'egoismo e l'individualismo esasperato di chi è disposto a rinunciare a tutto pur di raggiungere i propri obiettivi, senza guardare in faccia a nessuno. E, soprattutto, l'insensatezza di un mondo che permette ad un ragazzino complessato, brutto e antipatico (ma innegabilmente geniale) di diventare miliardario vendendo... il nulla.

Proprio così, il nulla. Il nulla più assoluto. Fincher ci racconta che Facebook è nato per una ripicca adolescenziale, un 'due di picche' dato da una studentessa molto carina al ragazzino 'nerd' di cui sopra. Non sappiamo se sia andata veramente così, ma non ha importanza. Quello che conta sono le conseguenze di questa invenzione: Facebook ha conquistato in poco tempo mezzo miliardo di utenti approfittando del vuoto pneumatico di valori di questa società. Ci si registra, si stringono decine, spesso centinaia di 'amicizie' virtuali con persone che nemmeno si conoscono illudendoci di poter scacciare la solitudine o instaurare nuovi rapporti. E invece proprio Facebook è di per sè una gigantesca illusione, quella che ti fa credere non solo di poter 'socializzare' attraverso la tastiera di un computer, ma anche che sia più facile farlo, col rischio (purtroppo ben reale) di attribuire alle relazioni 'virtuali' la stessa importanza di quelle reali. Esattamente come succede al suo 'creatore', che nella scena finale del film (la più disperata e malinconica) cerca di convincersi che basterà un 'click' di mouse per riconquistare la persona amata...


Tuttavia, The Social Network non è un pamphlet contro Facebook, non sarebbe una cosa seria. E' invece un film che pone domande, che si interroga su chi siano i 'buoni' e i 'cattivi' nell'era del digitale. Mark Zuckerberg, il 'miliardario per caso' protagonista della storia ispira, a seconda dei momenti, tenerezza, rabbia e compassione. E' nello stesso tempo arrogante e ingenuo, antipatico e disgraziato, ricchissimo eppure solo. Rappresenta fedelemente l'immagine di una società civile disorientata, che cerca in tutti i modi disperatamente di farsi sentire, di uscire dal guscio, di stringere contatti con più persone possibile e, paradossalmente, che tende a isolarsi ancora di più a causa della superficialità di questi rapporti.

David Fincher firma con The Social Network il suo film più bello, il vero capolavoro di inizio millennio. Una pellicola durissima, solida, splendidamente 'classica', secondo lo schema dei grandi film americani d'inchiesta, che fa trasparire tutto il pessimismo e la cupa visione del mondo di un regista sempre coerente con le sue idee: ma se in Seven, Fight Club, e perfino in Benjamin Button (film apparentemente 'buonista' ma in relatà ben più complesso di quello che sembra) esisteva sempre una porta aperta verso la speranza, o quantomeno un invito alla 'resistenza', The Social Network è un film di una tristezza infinita, sul disperato bisogno di accettazione che ognuno di noi ha nel nostro intimo, e che non trova risposte in un mondo dominato dall'apparenza.

domenica 14 novembre 2010

ANIMAL KINGDOM (Australia, 2010) di David Michod

Se Animal Kingdom fosse un documentario sarebbe portentoso: l'opera prima dell'australiano David Michod, vincitrice del Sundance Sestival 2010, è infatti assolutamente straordinaria per capacità espressiva e potenza visiva. E' un'agghiacciante e spietata fotografia della 'peggio gioventù' di Melbourne, una criminalità iper-violenta fatta di bande armate, brutali assassini, scorribande notturne, indicibili atrocità che mettono in luce il lato più nero e 'proibito' della terra dei canguri: l'avreste mai immaginato? Io decisamente no. E questo la dice lunga sulla 'percezione' che abbiamo noi europei di questo continente immenso, lontanissimo ed evidentemente sconosciuto.

Il regno animale del titolo è quello in cui viene a trovarsi Joshua (detto 'J'), un adolescente timido e complessato come tanti che una sera si ritrova a guardare la tv accanto al cadavere della madre, morta per overdose. Sembra il tragico epilogo di una storia qualunque, e invece per il problematico ragazzino è appena l'inizio di una discesa agli inferi che si rivelerà inarrestabile: sarà infatti 'adottato' dalla nonna, la quale anziana vegliarda (ma non troppo!) è a capo di una famiglia di gangsters che semina il panico per le strade della metropoli. Comincia così il periodo di 'iniziazione' di J alla malavita, fatto di pericolose quanto drammatiche azioni criminali, che si alternano ai rari momenti di intimità dove il ragazzo è inizialmente vittima (e poi carnefice) delle morbose attenzioni dell'energica nonnina...
Il regista è bravo nel raccontare visivamente, con freddezza (appunto) documentaristica, le vicende sballate e cruente di questa famiglia sui-generis, anche grazie alla propria esperienza diretta che, prima di dedicarsi al cinema, lo vedeva impegnato come reporter e giornalista freelance.

Quello che però lascia un po' perplessi è la troppa 'perfezione' della messinscena, nonchè la meticolosa, distaccata e infallibile preparazione di ogni sequenza, di ogni inquadratura, che finisce col rendere piuttosto artefatto l'universo in cui si cerca di far entrare lo spettatore... insomma, sembra quasi che la trama serva al regista come pretesto per sciorinare un 'manuale' di stile indubbiamente efficace: il che, per carità, è più che legittimo, ma che stona decisamente in un racconto di finzione. Animal Kingdom vorrebbe sconvolgere, indignare, dare cazzottoni negli stomaci di chi lo guarda, ma la sua perfezione stilistica va decisamente a scapito dell'emotività, e all'arrivo dei titoli di coda sembra di avere assistito, più che a un racconto 'maledetto', ad un freddo trattato di criminologia.

VOTO: * * *

venerdì 12 novembre 2010

NOI CREDEVAMO... di vivere in un paese migliore.

A Venezia aleggiava un sospetto terribile: che Noi Credevamo, grandioso e cupo affresco sul Risorgimento (per le ragioni che capirete vedendo il film) firmato Mario Martone, venisse distribuito direttamente in televisione senza godere di alcun passaggio cinematografico... e molti già gridavano allo scandalo. Invece, poche settimane fa, ecco quella che pareva davvero una buona notizia: la Rai (che produce il film attraverso la controllata 01 distribution) annunciava trionfalmente che la pellicola sarebbe uscita nelle sale italiane il 12 novembre prossimo. Alleluja!

Mai fidarsi troppo però... della nostra tv di stato e dei poteri forti del nostro paese, intendo. E infatti, scorrendo la programmazione cinematografica, ecco materializzarsi la beffa: è vero, Noi Credevamo (a parere di chi scrive, di gran lunga il film più bello dell'ultima Mostra del Cinema) esce oggi nei cinema, ma a quale prezzo!

Il film che doveva celebrare in pompa magna i 150 anni dell'Unità d'Italia, costato alla Rai circa 7 milioni di euro, viene distribuito in appena 30-sale-30 in tutto il territorio nazionale!! E, quel che è peggio, vergognosamente sforbiciato di quasi mezz'ora di proiezione per contenere la durata entro le tre ore, in modo da consentire agli esercenti di programmare uno spettacolo giornaliero in più!

Certo, inutile indignarsi o stracciarsi le vesti.
Ormai tutti sappiamo che il nostro paese è questo. Un paese dove la cultura è quasi un fastidio, un lusso che non ci possiamo permettere. E dove un Ministro della Repubblica può permettersi di affermare candidamente che 'la cultura non fa mangiare'... E' il ben noto atteggiamento di una classe dirigente becera e ignorante (e politicamente ben schierata, inutile dire con chi) che da sedici anni a questa parte persegue sistematicamente tutto ciò che ha a che fare con la creatività e l'ingegno. Il disegno è chiaro: annientare sistematicamente la Cultura per lobotomizzare un popolo già poco colto di suo, e quindi ben 'malleabile'...

Non so davvero se consigliarvi di andare a vedere Noi Credevamo. La versione vista a Venezia era un capolavoro: insieme a Il mestiere delle armi di Olmi, forse il film italiano più importante dell'ultimo quarto di secolo. Quella che esce oggi nelle trenta-sale-trenta che hanno avuto il coraggio di programmarlo non si sa... a questo punto, meglio davvero aspettare il dvd.

La recensione:
http://solaris-film.blogspot.com/2010/09/venezia-67-noi-credevamo-italia-2010-di.html

domenica 7 novembre 2010

UNA VITA TRANQUILLA (Italia, 2010) di Claudio Cupellini


Ancora Toni, sempre Toni, fortissimamente Toni.
Che Toni Servillo sia il più bravo attore italiano in circolazione, ormai lo sanno anche i sassi. E si sa che in Italia, vista la cronica carenza di grandi interpreti che affligge il nostro cinema, quando c'è un 'personaggio' che funziona viene spremuto fino all'ultimo come un limone. Tradotto: Servillo è grande, ma deve stare attento a non 'svendersi', a non inflazionarsi, pena la condanna a restare schiavo di un ruolo che potrebbe segnarlo per tutta la vita.
Il ruolo, ovviamente, è sempre quello di Titta DeGirolamo. Il latitante esiliato all'estero per espiare colpe antiche, nell'illusoria speranza di tagliare i ponti con il passato.

Una vita tranquilla, secondo lungometraggio di Claudio Cupellini, (ri)parte proprio da questo spunto, giocandosi così in partenza una buona fetta di originalità. Servillo è Rosario, ristoratore napoletano emigrato (così pare) nella fredda e umida periferia tedesca per cercare fortuna. Ha un ristorante avviato, una bella moglie teutonica, un bambino in età scolare e un'esistenza apparentemene serena. Ma già in una delle prime scene si capisce che qualcosa non quadra in questo confortante idillio: si vede Rosario nel giardino di casa che pianta lunghi chiodi negli alberi allo scopo di farli ammalare. In Germania abbattere gli alberi è quasi sacrilego e le autorità acconsentono al loro taglio solo se, appunto, sono malati. E questo è l'unico modo per ampliare la propria casa...

Attenzione: Rosario non è il classico 'palazzinaro' italico, nè tantomeno un ignorante irrispettoso della natura. E', semplicemente, un camorrista. Uno che è fuggito di nascosto in Germania per salvare la pelle, cercando faticosamente di ricostruirsi un'identità e una vita nuova. E figuriamoci se uno così si fa degli scrupoli ambientalisti!
Un giorno però accade qualcosa che va a minare il quadretto: nel ristorante si presentano due ragazzi napoletani, capitati fin lì 'in viaggio d'affari' e decisi a non andarsene prima di aver completato la loro 'missione'. Uno di questi è Diego, il figlio segreto di Rosario, abbandonato parecchi anni prima durante la fuga; l'altro è un suo complice, che tra l'altro conosce bene il padrone di casa... i due, ovviamente, sono venuti per uccidere: nella fattispecie, un ricco imprenditore locale che sta per concludere una commessa da venti milioni di euro per incenerire i rifiuti campani.
Rosario è, chiaramente, sconvolto ma non sorpreso. In un certo senso se lo aspettava. Sapeva che il passato (leggi la camorra), prima o poi ti viene a chiedere il conto, e tanto più è antico tanto più è salato. E stavolta il prezzo da pagare è davvero alto...

Una vita tranquilla è, principalmente, un film sul rapporto tra padri e figli. Sul passato che ritorna, e che le distanze non possono annullare. Sul conflitto d'interesse di un figlio perduto, che sta 'dalla parte sbagliata', e che vede il suo posto spodestato da un ragazzino biondo che va a scuola e parla tedesco... La materia, come si vede, è interessante e delicata. E sarebbe stata una buona occasione per girare una pellicola intimista e introspettiva, che andasse a scandagliare nelle teste e nelle esistenze di due personaggi agli antipodi per età, sentimenti e modo di vivere.
Il regista invece sceglie la strada più facile, quella del thriller, e riempe il film di sparatorie, assassinii, inseguimenti in auto, rapimenti. Ed è qui che delude: la trama gialla non è sorretta a modo da una sceneggiatura che fa acqua in più punti, e molte cose finiscono col non tornare e mettendo in secondo piano quello che è, come detto, l'assunto principale del film.

A salvare il film è manco a dirlo Toni Servillo, che qui è ancora una volta straordinario: la sua interpretazione di un mafioso latitante che si vede crollare addosso il mondo che si era costruito è davvero magistrale. Molto più della caricatura macchiettistica del Gorbaciof di Incerti. Qui l'attore napoletano lavora per sottrazione, sostituendo smorfie e tic con una recitazione dolente e composta, ferocemente 'normale'.
Niente da dire, anche se ci piacerebbe vederlo magari meno spesso ma in ruoli diversi e non stereotipati. Uno di questi è il suo impegno in Noi credevamo di Martone, dove Servillo interpreta Giuseppe Mazzini, in un ruolo temporalmente risicato ma non certo marginale. Forse il migliore tra tutti quelli interpretati in quest'anno di super-lavoro. Esce venerdì nelle nostre sale, e vi consiglio vivamente di non perderlo.

VOTO: * * *

UOMINI DI DIO (Francia, 2010) di Xavier Beauvois

Algeria, 1996: una colonia di monaci cristiani vive in pace e in perfetta sintonia con la popolazione musulmana, chiaramente in stragrande maggioranza. I religiosi vivono del loro lavoro, partecipano perfettamente integrati alla vita sociale del luogo, offrono gratuitamente assistenza, conforto e alloggio a chiunque ne abbia bisogno, di qualsiasi etnia o religione siano. Ma l'Algeria, si sa, è una polveriera, una 'Santa Barbara' pronta ad esplodere per il minimo pretesto. Un giorno un gruppo di lavoratori stranieri viene massacrato da una cellula di terroristi e ai poveracci, disperati, non resta che chiedere aiuto al monastero guidato da Padre Christian, innescando una pericolosa quanto involontaria rappresaglia. L'esercito si offre di proteggere i coraggiosi monaci, ma Padre Christian rifiuta di farsi coinvolgere in schermaglie politiche e va avanti per la propria strada, che da allora (è il giorno di Natale) si farà sempre più sanguinosa...

Uomini di Dio, contrariamente a quello che si può credere dal titolo, è tutt'altro che un film religioso. O almeno non è soltanto questo: è un film che parla di integrazione, di tolleranza, di rispetto delle idee e di opinioni altrui in un mondo in cui è difficilissimo confrontarsi. Per questo sui titoli di coda ci sentiamo tutti coinvolti e commossi dall'epilogo (non credo di 'spoilerare' dicendovi che sarà inevitabilmente tragico). E' una bella e drammatica storia, che parla alla gente, a tutti noi, e lo fa assolutamente senza manierismo o ipocrisie cinefile. Non ci sono scene madri o sequenze ad effetto, ma tutta la vicenda si dipana in modo sobrio e quasi documentaristico: la regia riempe il ritmo lento (ma non noioso) della pellicola con i canti, i silenzi, le tradizioni, lo scorrere del tempo in un luogo sacro e apparentemente inviolabile. Una piccola enclave cristiana in terra musulmana, dove per secoli le due etnie avevano convissuto pacificamente.

Il film di Beauvois racconta scrupolasamente, in modo equidistante, la storia di quei giorni di sangue. Senza prendere posizione e senza edulcorare i sentimenti di chi guarda. Ne viene fuori un'opera onesta, nobile, toccante e coraggiosa. Che cerca di avvicinare e comprendere, o solo semplicemente di parlare. Rappresenterà la Francia agli Oscar 2011, con concrete (e meritate) possibilità di vittoria.
VOTO: * * * *

sabato 30 ottobre 2010

Arriva POST MORTEM, di Pablo Larrain.

Esce finalmente (e inaspettatamente) nelle sale Post Mortem, il bel film di Pablo Larrain che molti a Venezia davano per sicuro Leone d'Oro. Poi è andata come sappiamo, ma il valore della pellicola non viene assolutamente scalfito.
Avevamo già recensito il film durante il periodo della Mostra, ma giova ricordarlo e, soprattutto, consigliare a tutti di vederlo. Ecco il link con la nostra recensione:
http://solaris-film.blogspot.com/2010/09/venezia-67-post-mortem-cile-2010-di.html

WALL STREET - IL DENARO NON DORME MAI (USA, 2010) di Oliver Stone

Nel 'nuovo' Wall Street in realtà tutto sa di vecchio. E' vecchio il protagonista, Gordon Gekko, ex-mastino di borsa ormai espulso dal sistema. Sono vecchi i suoi nemici, che sembrano caricature della più caricaturistica rappresentazione dell'avidità e del potere. E' vecchio, soprattutto, il modo di fare cinema di Oliver Stone, una volta regista 'duro e puro', scomodo, politicamente scorretto, ma ormai (dispiace dirlo) definitivamente bollito: e questo film ne certifica brutalmente il suo pre-pensionamento.
Il primo film, quello del 1987, non era certamente un capolavoro ma almeno un merito ce l'aveva: fotografare coraggiosamente il rampantismo e il cinismo dell'epoca, demolendo l'utopia (o quello che ne restava) del Sogno Americano. Stone invece, in questo stanco remake, cerca di ampliare il respiro e imbastire un pamphlet sulla crisi economica, sullo strapotere delle banche, sulle disparità sociali e le loro conseguenze. Il problema è che tutto resta in superficie, generalizzando e banalizzando ogni cosa, trasformando la pellicola in un insulso e retorico polpettone familiar-dinastico, per giunta intriso di uno stucchevole buonismo.

Due ore e passa di noia totale, infarcite di lussuose location, bei vestiti, party altolocati e personaggi tagliati con l'accetta, condite da una colonna sonora debordante e inutilmente pomposa. Michael Douglas non è migliorato rispetto a ventitrè anni fa, e se allora raccattò con la sua interpretazione uno degli Oscar più immeritati della storia, stavolta si può solo provare compassione per lui e per il suo difficile presente: la sua faccia stanca, emaciata e sofferente fa purtroppo da triste parallelo con quello che gli sta accadendo nel mondo reale, e di questo ovviamente gli facciamo i migliori auguri.
Meglio invece gli altri due giovani protagonisti, pur senza strafare: Shia LeBeouf se la cava nel ruolo del giovane broker rampante e disilluso, mentre Carey Mulligan fa intravedere sprazzi di buona scuola (ma se volete apprezzarla in tutta la sua bravura guardatela in An education).
Ma è davvero troppo poco per un film che era già 'fuori tempo massimo' ancora prima di uscire, e dove tutto gira su se stesso.
Nè interessante nè brutto, comunque. Semplicemente inutile.
VOTO: * *

domenica 17 ottobre 2010

GORBACIOF (Italia, 2010) di Stefano Incerti


Toni Servillo è un attore straordinario, e questa non è una novità. La sua faccia, il suo 'ghigno', la sua capacita mimica e trasformistica non reggono il confronto con nessuno. E' un animale da palcoscenico e, pur non avendolo mai visto (purtroppo) recitare in teatro, non mi stupisco certamente delle sue doti drammaturgiche.
Tutti i grandi caratteristi come lui, però, hanno un punto debole: il rischio di rimanere schiavi di un personaggio, di un modo di essere. E bene fa Servillo ad alternare la sua professione tra cinema e teatro, così da non 'inflazionare' la sua immagine.

Prendiamo ad esempio questo Gorbaciof, opera settima del regista Stefano Incerti: Servillo interpreta il ruolo del protagonista che dà il titolo al film, così chiamato per via della vistosa voglia che porta sulla fronte, simile a quella dell'ex-leader sovietico. Gorbaciof è un personaggio schivo, abitudinario, terribilmente solo, che di mestiere fa il cassiere del carcere di Poggioreale. Nella vita ha solo una passione, quella per il gioco d'azzardo, e per procurarsi i soldi adatti all'uopo 'svaligia' quotidianamente la cassaforte del penitenziario, salvo poi rimpinguarla il giorno dopo, dopo la partita a poker notturna.

Gorbaciof è un tipo metodico: non rischia e non gioca mai oltre le proprie possibilità, così da non avere grane. Ma un giorno capita un 'imprevisto': s'invaghisce di una bella ragazza cinese, figlia del padrone del ristorante che funge da bisca. E quando costui contrae un grosso debito di gioco, il 'nostro' compie un errore madornale: per aiutare il padre della ragazza, e tentare di fare colpo su di lei, si mette a rubare... finendo ovviamente in un mare di guai.

Vi dice niente questa storia? Beh, è fin troppo ovvio: Incerti riscrive pedissequamente il personaggio di Titta DeGirolamo ne Le conseguenze dell'amore, cambiandone solo il nome e l'ambientazione, trasportandola dalle raffinate e asettiche atmosfere lagunari svizzere alle viscere di una Napoli sconosciuta e multietnica.

Il risultato però è deludente: Incerti punta tutto su Servillo, esasperandone (troppo) le caratteristiche del personaggio e finendo per ridurlo a una caricatura, enfatizzando inutilmente una recitazione fin troppo sopra le righe, fatta solo di tic, mugugni e (poche) parolacce in partenopeo stretto. Per carità, non è certo la prima volta che si costruisce un film completamente sulle spalle di un attore, ma questo one-man-show appare banale, scontato e decisamente ridicolo in certe scene (vedi quella finale che scimmiotta pateticamente Pulp Fiction). Peccato.

VOTO: * *

(s)CULT / JOAN LUI - MA UN GIORNO NEL PAESE ARRIVO IO DI LUNEDI' (Italia, 1985) di Adriano Celentano

La tentazione è stata troppo forte: con mia incredibile sospresa l'altra sera vedo in promozione su un noto sito di vendite on-line, alla modica cifra di 11,90 euro, il dvd di uno dei film più 'trash' di tutti i tempi! In pratica, il film che mise fine alla carriera cinematografica di Celentano. Un autentico (s)cult-movie che ogni cinefilo che si rispetti dovrebbe possedere!!
Ovviamente sto scerzando, però credo che ognuno di noi abbia commesso, almeno una volta nella vita, qualche piccolo 'peccato inconfessabile' (parliamo sempre di cinema, of course). Qualche titolo, cioè, che magari vi 'vergognate' ad ammettere di amare, ma che non potete fare a meno di vedere quando passa in tv...

Ecco, devo dire che a me Joan Lui ha sempre destato grande curiosità: lo vidi per la prima (e finora unica volta) nel 1986, al cinema, insieme a mio babbo che era un 'celentaniano' di ferro e mi ci volle portare a tutti i costi. Avevo tredici anni e non è che ne capii molto... e da allora non l'ho più rivisto. Nè in televisione, nè in vhs. Mai. Solo qualche spezzone su youtube e una registrazione fattami da una mia carissima amica direttamente dalla tv.
Per questo l'ho subito comprato. E appena il corriere me lo ha recapitato l'ho infilato di scatto nel lettore dvd: cavolo, volente o nolente stavo guardando quello che è stato il primo vero musical italiano della storia... e scusate se è poco!


Naturalmente è impossibile prendere sul serio un film come questo: un autentico 'delirio' d'onnipotenza (nel senso letterale del termine!) a cui in seguito Celentano ci avrebbe abituato, ma che all'epoca diventò una specie di caso nazionale: la Chiesa e la critica cattolica, nonchè la politica (che come al solito presero tutto terribilmente sul serio) si scagliarono violentemente contro di esso, accusandolo di essere blasfemo e immorale. La restante parte dei recensori lo definirono, nella migliore delle ipotesi, 'sconclusionato, barbaro e inguardabile'. Al resto ci pensò Cecchi Gori, il distributore, che intuendone il fiasco totale riversò nelle sale una copia tagliata e 'ammorbidita' in certe scene che fece infuriare l'Adriano Nazionale, tanto da fargli intentare una causa per danni miliardaria (poi ritirata).

Joan Lui è un misto tra Jesus Christ Superstar e Tommy, riveduto e (s)corretto alla maniera del Molleggiato: è la storia di un Messia moderno, canterino e completamente vestito di bianco, che scende sulla Terra, corrotta e iper-violenta, per portare ordine e pace... vorrebbe essere un pamphlet 'evangelico' contro l'arroganza e la prevaricazione, ma finisce col risultare un interminabile, demagogico e retorico videoclip fabbricato 'su misura' per le manie predicatorie del suo regista.

Eppure, udite udite, visto oggi con occhi distaccati e un po' divertiti, Joan Lui appare un'opera quantomeno curiosa. Irrisolta, ma per certi versi interessante. Soprattutto per le coreografie, talmente improbabili e kitsch da risultare (quasi) intriganti: come detto, questo film può considerarsi a buon diritto il primo autentico musical girato nel nostro paese. Quello che salta all'occhio è l'enorme discrepanza tra gli intenti e le aspettative del regista e i risultati ottenuti, decisamente sconfortanti... tuttavia, prese a se stante, bisogna riconoscere a Celentano un certo 'stile' e un certa personalità nel dirigere le scene ballate.

Allo stesso modo, non si può non riconoscere al regista l'assoluta sincerità e onestà, nonchè il coraggio (misto a incoscienza), per aver girato un film come questo. Si potrà dire tutto su Joan Lui, tutto il peggio possibile, ma non si può negare il coraggio del suo Messia (!) per aver tentato, la bellezza di venticinque anni fa, qualcosa di davvero originale.

domenica 10 ottobre 2010

Venezia 67 / THE TOWN (USA, 2010) di Ben Affleck

Se siete in cerca di cinema 'classico', di genere, con tutti i crismi e gli stereotipi del caso, allora The Town è quello che fa per voi (e non c'è niente di male, per carità). Se siete in cerca di altro... allora potete tranquillamente lasciare perdere. Senza cattiveria.
Sì, perchè la seconda opera di Ben Affleck in veste di regista è decisamente un passo indietro rispetto al folgorante (e sorprendente) esordio di Gone baby Gone.

Tratto dal romanzo 'Prince of Thieves' di Chuck Hogan, The Town è un convenzionalissimo gangster movie che si rifà ai polizieschi classici stile anni '70, con un cast ottimo (su tutti Jeremy Renner e Rebecca Hall) e una trama abbastanza scontata: siamo a Charlestown, sobborgo di Boston, e l'affascinante e inafferrabile bandito Doug McRay, insieme al fratello Jam, seminano il terrore nel quartiere ripulendo le banche al soldo del 'solito' boss locale di origine irlandese che si fa chiamare enigmaticamente 'il fioraio'. Nel corso dell'ennesima rapina, però, le cose non vanno nel senso sperato e i due (a volto coperto) prendono in ostaggio una giovane donna, Claire, che 'ovviamente' finirà per innamorarsi di Doug, che nel fratempo ha iniziato a frequentare... con tutte le conseguenze del caso.

Amore, violenza, spari, azione, romanticismo. In The Town c'è di tutto e di più, compresi i soliti clichè del genere: l'amico dalla pistola facile, la storia d'amore impossibile, la necessità di scegliere e fare i conti col proprio passato. Il tutto girato con una regia onesta e solida, ma che non lascia alcun spazio all'inventiva e all'immaginazione: il prodotto è dignitoso, valido, con buone sequenze d'azione e un bel ritmo. Ma è inutile cercare qualcosa di nuovo, di originale.

Tutto sa di già visto, di scontato, un pò come i vecchi film di Bud Spencer e Terence Hill.
In poche parole, solo per appassionati nostalgici.
VOTO: * *

domenica 3 ottobre 2010

BENVENUTI AL SUD (Italia, 2010) di Luca Miniero

Appena qualche giorno fa, recensendo Mangia Prega Ama, ci eravamo soffermati sull'annosa questione degli stereotipi: noi italiani siamo sempre permalosetti quando gli altri ci raffigurano nei modi che sappiamo, salvo poi farci grasse risate con una commediola che deve tutto il suo successo proprio ai famosi "luoghi comuni", nella fattispecie quelli che caratterizzano Nord e Sud, gonfi di pregiudizi fin dalla notte dei tempi. O almeno da ben prima dell'Unità d'Italia!
Benvenuti al Sud, per chi non lo sapesse, è il remake nostrano di una fortunatissima pellicola francese del 2007, Bienvenue chez les Ch'tis (da noi tradotta come Giù al Nord), in cui si predevano appunto in giro i pregiudizi di un impiegato del sud che viene 'costretto' a lavorare nel freddo e inospitale settentrione transalpino. Qui la vicenda si ribalta: il milanesissimo Claudio Bisio, funzionario delle Poste Italiane, subisce un trasferimento punitivo nel minuscolo paesino di Castellabate, nel cuore del Cilento, dove è costretto a recarvisi con la morte nel cuore: tutto quello che sa del Sud è che lì c'è deliquenza, gran caldo e si parla una lingua incomprensibile...

Ora, remake o non remake, bisogna dire che in questo film di 'francese' c'è ben poco. Anzi, viene quasi il sospetto (mica tanto campato per aria!) che il regista transalpino Deny Boon, girando la sua commedia, abbia generosamente tratto spunto dagli sketch di Totò e Peppino per scrivere il proprio film... la comicità di Benvenuti al Sud infatti è italianissima al 100% , e sui tanto radicati 'luoghi comuni' la pellicola di Luca Miniero offre una progressione di gag e situazioni assolutamente esilaranti: il protagonista 'piomba' al Sud imboccando un'intasatissima Salerno-Reggio Calabria, con il giubbotto antiproiettile addosso e il dizionario italiano-napoletano in valigia. Arrivato a destinazione, sotto una pioggia battente e in posto apparentemente spettrale, scoprirà a poco a poco vizi e virtù dei 'terroni', imparando ben presto che da quelle parti dire no è maledettamente difficile: a chi ti offre il caffè, a chi si prodiga per arredarti la casa, a chi ti accoglie a braccia aperte secondo la ben nota ospitalità meridionale... ma accorgendosi anche che spesso (anzi, quasi sempre) le cose non vanno assolutamente come uno s'immagina. E che la 'permanenza' forzata sarà meno drammatica del previsto.

La ricetta di Benvenuti al Sud è semplicissima: ridere sui vizi italici, operazione che ha sempre funzionato nel nostro cinema e di cui Alberto Sordi era maestro. Claudio Bisio non è Sordi, e nemmeno Totò, ma con 'quella faccia un po' così' fa ridere solo a guardarlo e la sua comicità mite, sensibile e non volgare fa apprezzare una commedia banalotta ma efficace. Bisio è bravo, è il mattatore del film e risponde per le rime a chi sostiene che è capace di far ridere solo negli sketch televisivi. Ottimi anche i comprimari: Alessandro Siani, pur scimmiottando un po' troppo Troisi, è una valida spalla, cosiccome lo sono Nando Paone e Giacomo Rizzo (ve lo ricordate ne L'amico di Famiglia di Sorrentino?). Valentina Lodovini è decisamente improbabile come 'terrona', ma è così bella che le si perdona davvero tutto...
VOTO: * * *

sabato 2 ottobre 2010

Oscar: l'Italia "scommette" su Virzì

E così, con ben poca suspance in verità, il nodo è stato sciolto: sarà La prima cosa bella di Paolo Virzì il film che rappresenterà l'Italia agli Oscar 2011. Una scelta ovvia, scontata, e che speriamo possa rinverdire i fasti di un palmarès italico che è ormai fermo al 1999, quando fu Roberto Benigni con La Vita è Bella a portarsi a casa per l'ultima volta l'ambita statuetta. Non sarà facile, la concorrenza quest'anno è agguerrita e ben qualificata: favorito su tutti il bel film francese Gli Uomini di Dio di Xavier Beauvois, ma altri brutti clienti potrebbero essere il messicano Biutiful di Gonzalez Inarritu (con Javier Bardem), il thailandese Lo zio Bonmee che si ricorda le vite precedenti (entrambi premiati a Cannes), il bosniaco Cirkus Columbia di Denis Tanovic, lo spagnolo Tambien la lluvia di Iciar Bollain, il danese In a better world di Suzanne Bier. Più, ovviamente, le inevitabili sorprese.

Scelta giusta e scontata, dicevamo. Ma questo non ci impedisce di fare alcune considerazioni in merito ai criteri di selezione e, più in generale, di riflettere sull'annosa questione dello stato di salute del cinema italiano.
Cominciamo col dire che, a mio personalissimo parere, La prima cosa bella non solo NON è stato il film più bello della scorsa stagione, ma non è nemmeno il film più bello dello stesso Virzì. E' una pellicola ruffiana, buonista, un po' stucchevole, decisamente sconsigliata ai diabetici. Nulla a che vedere con le precedenti opere del regista livornese, da Ovosodo a Caterina va in città, ironiche, graffianti e, soprattutto non omologate. Eppure ha un punto di forza che la rende adattissima al mercato internazionale: la storia è semplice, lineare, universale. E' una storia che può funzionare bene in tutto il mondo, a qualunque latitudine, e risultare così comprensibile e chiara da non aver (quasi) bisogno nemmeno dei sottotitoli. E', insomma, un film VENDIBILE all'estero: roba che nella produzione italiana di oggi sembra quasi una parolaccia.

Questo, infatti, almeno secondo me è il grande problema del cinema italiano: non riuscire più a raccontare storie che possano essere viste e capite da chiunque le guardi, a prescindere dalla lingua e dalla razza... Siamo diventati (salvo poche eccezioni) provincialotti e ottusi, gelosi (giustamente!) della nostra tradizione ma incapaci di esportarla, ci vantiamo di avere una cinematografia sempre viva e di qualità, eppure i nostri film nella stragrande maggioranza dei casi non vanno oltre la dogana di Chiasso...
Ecco perchè opere come Noi Credevamo, il film più bello visto quest'anno a Venezia, non spuntano nemmeno un premio (cosa può capire un giurato straniero del nostro Risorgimento?). Ecco perchè film come Gomorra e Il Divo, capolavori e massimi esponenti di un cinema nazionale geniale e elitario, raccolgono messe di premi ma nemmeno sbarcano oltreoceano.

Ed ecco perchè i lungimiranti selezionatori nazionali hanno preferito La prima cosa bella a titoli ben più importanti ma strettamente 'territoriali' come, ad esempio, L'Uomo che verrà di Diritti o La Nostra Vita di Luchetti. A dire la verità un altro bel film (anzi, un grandissimo film!) di respiro internazionale quest'anno c'era: Le Quattro Volte di Michelangelo Frammartino. Ma sappiamo bene che titoli come questo è già un miracolo se riescono ad arrivare nei cinema, figuriamoci ottenere una distribuzione disgnitosa!
Siamo prigionieri delle nostre quattro mura, e gelosi di un mondo che ci va sempre più stretto.
Speriamo che Virzì possa farci cambiare strada, ma onestamente ci credo poco.

INCEPTION (USA, 2010) di Christopher Nolan

La metamorfosi (preoccupante) di un regista. Questo mi è rimasto di Inception subito dopo averlo visto, e non è una bella sensazione. Christopher Nolan si è ammalato di bulimia, malattia assai contagiosa a Hollywood e difficile da guarire, se non imparando a convivere con essa (ci stanno provando da tempo James Cameron e Peter Jackson, tanto per fare degli esempi). E' un brutto virus, alimentato prevalentemente dai soldi e dal successo, che ti riempe la pancia e il portafoglio, e che se non viene curato a dovere finisce per svuotarti il cervello... Nel caso del talentuoso regista inglese siamo ancora nella fase d'incubazione, ma i sintomi sono preoccupanti.

E' inutile girarci intorno: da Inception mi aspettavo molto, molto di più. Perchè da uno come Nolan è lecito aspettarsi grandi cose. Se questo film l'avesse diretto un Ron Howard o un Tony Scott qualsiasi avrei quasi gridato al miracolo, ma da Christopher Nolan era ovvio aspettarsi ben altro rispetto ad un immenso videogioco costosissimo e iper-tecnolocico come questo.
Nolan sa di essere bravo e 'cool' (parola che oggi va molto di moda), e probabilmente il successo, il denaro e una certa critica accondiscendente hanno "instillato" nel suo cervello (proprio come il protagonista del film!) un certo delirio di onnipotenza, portandolo a strafare.
Sì, perchè Incepion è fondamentalmente un film esagerato, megalomane, basato su una sceneggiatura incredibilmente complicata, contorta e strutturata su ben cinque livelli di lettura, come strombazzato da tutti i flani in fase di promozione. Questi famosi cinque livelli dovrebbero essere il punto di forza della pellicola, la dimostrazione della genialità e dell'inventiva del suo 'creatore'.

Ma quando lo spettatore, nelle due ore e mezza di durata del film, si interroga SOLO e SOLTANTO sulla trama, stando attendo SOLO a capire in quale livello si trova e cercando di ricordarsi i collegamenti con gli altri quattro... beh, è chiaro che c'è qualcosa che non va. Ed è chiaro che il presunto 'punto di forza' si trasforma nel principale limite del film.
Inception è un gigantesco gioco di ruolo, un 'master mind' cinefilo dove alla fine tutto coincide e tutto torna il suo posto (forse), ma arido come il deserto e freddo come il ghiaccio. Un difficile videogame dove il gioco ha il sopravvento sulle emozioni, e che dopo che ci hai giocato spegni l'interruttore e amen. Non ti resta niente. Non ricordi un personaggio che ti faccia appassionare, commuovere, trepidare... gli interpreti sono funzionali esclusivamente alla trama, e per quanto siano tutti bravissimi (DiCaprio in testa, ma non è una novità) nessuno di loro ti coinvolge davvero. Sono solo oggetti, pedine interscambiabili e manovrabili col joystick, senza nè anima nè corpo. Esemplare è la figura della giovane Ariadne, la 'geometra dei sogni': questa ragazzina giovanissima e intelligentissima compare dal nulla e si integra perfettamente nella banda creata da Cobb, come se quelle persone le conoscesse da una vita. Eppure di lei non si sa niente, nè chi sia, nè da dove viene, nè cosa faccia, nè perchè si trovi lì. Si sa solo che in quel momento 'serve', e quando il film finisce arrivederci e grazie...

In Inception non c'è traccia di emozioni, e nemmeno di originalità: per quanto stilisticamente perfetto e avvincente, finisce col sembrare solo una versione 'riveduta, corretta e gonfiata' di Matrix, con evidenti 'rimandi' più o meno voluti ad altre opere miliari della fantascienza. A me è parsa evidente l'assonanza con Solaris: Cobb ad un certo punto ritrova la moglie nel 'limbo' e non vuole più abbandonarla, a costo di rischiare la vita. Sa benissimo che lei può vivere soltanto lì, nel suo subconscio, e sa bene che questo può causare danni irreversibili al proprio cervello. Dovrà fare una scelta, esattamente come il Kris Kelvin di Tarkovskij... ma è l'unico barlume di 'umanita' in una pellicola davvero troppo cerebrale per essere amata.
VOTO: * * *

domenica 26 settembre 2010

MANGIA PREGA AMA (USA, 2010) di Ryan Murphy

Ci sono dei film che spesso amiamo o detestiamo a seconda del tempo, inteso come momento di vita. Film che magari ci piacevano e che che sono "invecchiati" male o che, viceversa, non ci avevano entusiasmato alla prima visione ma che rivalutiamo dopo averli rivisti. Ecco, Mangia Prega Ama è un film che se lo avessi visto una decina di anni fa avrei detestato profondamente. Dieci anni fa, non ancora trentenne, energico, speranzoso e con i capelli in testa, avrei dileggiato e preso ferocemente per i fondelli questa pellicola "insulsa e involontariamente malin-comica" su una tardona che ha smarrito il desiderio e crede di ritrovarlo andando in giro per mezzo mondo...

Invece, avendolo visto oggi alle soglie dei fatidici 'anta', Mangia Prega Ama è un film che ti fa per forza riflettere, anche se non vuoi e in cuor tuo fai finta di non pensarci. Perchè, volente o nolente, sei arrivato a quell'età in cui è fisiologico cominciare a fare un bilancio della tua vita, su quello che è andato bene o meno, su quello che avresti voluto (o potuto) fare e che è andato diversamente, su quanto, davvero, ti senti felice e realizzato. I quarant'anni sono un'età in cui, forse, ti fai troppe domande e ti arrabatti nel tentativo di rispondere, ben consapevole che le risposte, tante (troppe?) volte potrebbero farti male.

La Julia Roberts del film è una quarantenne che si pone queste domande, ed è ovvio che mentre sorridiamo delle sue peripezie ci viene naturale fare un parallelo con le nostre vite, rendendoci conto che siamo giunti ad un punto del nostro percorso dove è sempre più difficile fare delle scelte: perchè a quarant'anni non si è più tanto giovani e incoscienti per mollare tutto e ricominciare (non siamo dalle parti di Into the Wild, e il paragone NON è blasfemo) e, soprattutto, ci portiamo dietro quel fardello di ferite e di esperienze che inevitabilmente hanno segnato la nostra anima e che alimentano le paure (tutte, non solo quella di amare ma anche, più banalmente, di compiere tutte quelle azioni che siano minimamente 'trasgressive'...).
Per questo Mangia Prega Ama non è un film stupido. Potrà non piacere, potrà risultare falso, macchiettistico, noioso, troppo lungo (due ore e mezza sono una durata spropositata per una commedia) ma di sicuro è un film che ti entra dentro e che ti fa pensare e ripensare. Questa recensione (se così vogliamo chiamarla, me ne scusino i critici 'veri') mi è venuta di getto e qualcosa vorrà pur dire.

E voglio dire qualcosa anche sui famigerati 'stereotipi' di cui è piena questa pellicola. Non capisco perchè tanta gente si 'indigni' nel vedere il modo in cui gli americani ci rappresentano. Possibile che siamo diventati così permalosi? E, soprattutto, siamo sicuri NOI di essere sopra le parti, senza pregiudizi? Gli stereotipi ce li abbiamo tutti, e scagli la prima pietra chi sostiene il contrario! Non abbiamo forse sempre dipinto, ad esempio, gli svizzeri come orologiai e cioccolatari? O i russi come ubriaconi e attaccabrighe? O gli stessi americani come ignoranti e obesi? La Roma del film è una città da cartolina, dove i suoi abitanti sono amanti della bella vita, della buona cucina, caciaroni, romantici e perditempo. Sinceramente, è davvero un ritratto così lontano dalla verità? E, ancor più sinceramente, l'immagine che le vicende (politiche e non) di questi giorni stanno dando del nostro paese è davvero migliore di come ci vedono gli altri?

VOTO: * * *

sabato 18 settembre 2010

Venezia 67 / TIRANDO LE SOMME


E' finita così, dunque. Con Tarantino che premia la sua ex-fidanzata e il suo ex-produttore... se proprio vogliamo buttarla sul gossip. Come sempre i verdetti della Mostra suscitano polemiche, risentimenti e battute. Fin qui tutto normale. La cosa meno normale è che un Ministro della (in)cultura "minacci", in pieno delirio fascista, che il prossimo anno "metterà il naso" nella scelta dei giurati in quanto "i risultati di quest'anno risentono della formazione elitaria, relativista e snobistica del suo Presidente". Parole che non varrebbero nemmeno la pena di essere commentate... il problema, però, è che siamo in Italia e anche una 'fregnaccia' come questa rischia di essere presa terribilmente sul serio. Chi ha orecchie intenda, altrimenti il prossimo anno saremo qui, di questi tempi, a festeggiare la Coppa Volpi di Noemi Letizia e Luca Barbareschi!
L'ira del Camerlengo di Arcore era dovuta, ovviamente, al fatto che nessun film italiano in gara avesse ricevuto lo straccio di un premio. E qui (guardate cosa mi tocca dire!) devo ammettere a malincuore che sono d'accordo con Bondi... per carità, lasciamo stare proclami e minacce, la giuria ha emesso i suoi verdetti ed essi vanno accettati. Però nulla mi farà cambiare idea sul fatto che Noi Credevamo fosse il 'vero' Leone d'Oro di questa edizione: il film di Martone è uno straordinario, immenso, appassionante, epico affresco su una pagina storica fondamentale del nostro Paese. In quasi quattro ore il regista napoletano riscrive a suo modo il nostro Risorgimento, che forse non fu proprio così 'glorioso' come abbiamo studiato a scuola, e che forse
ancora oggi fa sentire le proprie conseguenze. Il perchè non abbia vinto è facilmente spiegabile: il film racconta vicende e fatti molto particolari della Storia Italiana, che risultano assai incomprensibili agli occhi di una Giuria Internazionale: è sempre lo stesso (annoso) problema del cinema italiano, che ha sempre grosse difficoltà a produrre opere di respiro 'universale' e non circoscritte alle nostre quattro mura...

Sarà per questo che la vittoria di Somewhere tutto sommato non è fuori da ogni logica: pur non essendo il film più bello della Mostra, quella di Sofia Coppola è una storia che indubbiamente 'funziona' in tutte le latitudini, ed è costruita in modo garbato e impeccabile. Niente da dire, insomma, sulla confezione. Sul fatto poi che la più talentuosa figlia d'arte di Hollywood faccia sempre lo stesso film... il dibattito è aperto! Ma il Leone d'oro non è assolutamente uno scandalo.
Certo il sottoscritto aveva altre preferenze: mi dispiace non vedere assegnato nessun premio al bellissimo Post Mortem di Pablo Larrain, mentre lo splendido e cerebrale Road to Nowhere del 'mitico' Monte Hellman ha senz'altro scontato la dichiarata stima e riconoscenza di Quentin Tarantino nei confronti del suo 'mentore'. Hellman comunque si è rifatto col premio "al complesso della sua opera" e può essere soddisfatto, mentre tutti ci auguriamo che il film possa arrivare presto nelle nostre sale perchè merita davvero.

Non stupiscono invece i riconoscimenti a Balada triste de trompeta di Alex De La Iglesia: ve lo avevo già detto in sede di recensione che questo era il film più 'tarantiniano' di tutti, oltre che di pregevole fattura, e non era difficile prevedere che avrebbe entusiasmato il buon Quentin.
Meritate anche le due Coppe Volpi per le migliori interpretazioni: sul Vincent Gallo attore (a differenza di quello regista) non c'erano dubbi e la sua performance in Essential Killing non poteva passare inosservata. Più controverso invece il premio femminile, andato alla greca Ariane Labed protagonista del discusso Attenberg: il film non è un granchè, e molti davano per sicura vincitrice la Yahima Torres di Venus Noire: opera dura, terribile e violenta di Abdel Kechiche. A conti fatti, però, la vittoria ci sta.

La cosa più importante però, alla fine, è constatare l'ottimo livello complessivo dei film in concorso. Raramente in passato avevamo assistito ad un livello qualitativo così alto come quest'anno: sono tante, infatti, anche le opere non premiate ma di assoluta qualità. Cito, solo per fare degli esempi, il cinese Il fossato di Wang Bing, il francese Potiche, il russo Silent Souls... per non dimenticare anche gli altri tre film italiani in competizione: il carinissimo La Passione di Mazzacurati, La Pecora Nera di Celestini (ottima opera prima) e il discusso ma a mio avviso dignitosissimo La Solitudine dei Numeri Primi di Saverio Costanzo: era il film più rischioso del concorso e il regista romano ha vinto la scommessa. Bravo.
E bravo di conseguenza anche a Marco Muller, "direttorissimo" della Mostra che una volta di più è riuscito, con pochi mezzi e molta, molta competenza, ad allestire una rassegna vitale, dinamica e interessante. Muller è a fine mandato e dice di essere stanco ma felice. Noi ci auguriamo che possa restare ancora a lungo al timone della sua 'creatura', che in questi otto anni ha decisamente compiuto un salto di qualità, posizionandosi sullo stesso livello di altri festival (Cannes e Toronto) molto più ricchi e potenti. Il lavoro di Muller è stato prezioso, e merita la prosecuzione.
Con buona pace di Bondi.

IL PALMARES DI VENEZIA 67:

http://www.labiennale.org/it/cinema/news/premi-venezia-67.html

mercoledì 15 settembre 2010

Venezia 67 / ROAD TO NOWHERE (USA, 2010) di Monte Hellman

Le malelingue si sprecavano, e del resto anche il vecchio Hellman lo aveva candidamente dichiarato: se Quentin Tarantino avesse fatto vincere trionfare al Lido Road to Nowhere sarebbe accaduto il finimondo. Figuriamoci: il presidente di giuria che premia il suo ex-produttore e talent-scout! Ed è un peccato, perchè se escludiamo il capolavoro di Martone (film immenso ma, come temevamo, assolutamente incomprensibile a una giuria internazionale), la pellicola del vecchio Hellman aveva tutti i requisiti per portarsi a casa il Leone d'Oro: confezione impeccabile, sceneggiatura di ferro (forse anche troppo!), ottimi attori, buon ritmo.
Hellman gira un noir avvincente e cerebrale che prende spunto da un fatto di cronaca nera realmente accaduto: una troupe cinematografica sta girando un film sul misterioso 'caso' di due amanti che escogitano una truffa ai danni di un'assicurazione, uccidono un poliziotto e si dileguano, come dice il titolo, nel nulla... durante le riprese, lavorando sulla sceneggiatura, vengono fuori nuovi inquietanti interrogativi sull'accaduto, tanto che a un certo punto è davvero difficile per i protagonisti distinguere la realtà dalla finzione. E naturalmente anche per lo spettatore. Aggiungete poi che il regista si innamorerà perdutamente della bella protagonista (una magnifica Shannyn Sossamon, perfetta nel ruolo di 'femme fatale') che assomiglia in maniera inquietante alla vera truffatrice... e il cerchio si chiude.

Road to Nowhere è un'opera difficile da digerire ('da rivedere almeno due volte', dice il regista stesso), ma innegabilmente affascinante nonostante il canovaccio non proprio originalissimo: il meta-film, infatti, cioè l'escamotage del 'cinema nel cinema' non l'ha certo inventato Hellman... ma vedere passare sullo schermo quelle immagini seducenti e maliziose (vogliamo dirlo? prettamente 'lynciane') e constatare lo scorrere, impeccabile e inesorabile, di una trama complicatissima, genera sensazioni assolutamente positive, da incorniciare.

Forse non proprio per tutti, o forse proprio per questo, decisamente da non perdere.

VOTO: * * * *