sabato 30 ottobre 2010

Arriva POST MORTEM, di Pablo Larrain.

Esce finalmente (e inaspettatamente) nelle sale Post Mortem, il bel film di Pablo Larrain che molti a Venezia davano per sicuro Leone d'Oro. Poi è andata come sappiamo, ma il valore della pellicola non viene assolutamente scalfito.
Avevamo già recensito il film durante il periodo della Mostra, ma giova ricordarlo e, soprattutto, consigliare a tutti di vederlo. Ecco il link con la nostra recensione:
http://solaris-film.blogspot.com/2010/09/venezia-67-post-mortem-cile-2010-di.html

WALL STREET - IL DENARO NON DORME MAI (USA, 2010) di Oliver Stone

Nel 'nuovo' Wall Street in realtà tutto sa di vecchio. E' vecchio il protagonista, Gordon Gekko, ex-mastino di borsa ormai espulso dal sistema. Sono vecchi i suoi nemici, che sembrano caricature della più caricaturistica rappresentazione dell'avidità e del potere. E' vecchio, soprattutto, il modo di fare cinema di Oliver Stone, una volta regista 'duro e puro', scomodo, politicamente scorretto, ma ormai (dispiace dirlo) definitivamente bollito: e questo film ne certifica brutalmente il suo pre-pensionamento.
Il primo film, quello del 1987, non era certamente un capolavoro ma almeno un merito ce l'aveva: fotografare coraggiosamente il rampantismo e il cinismo dell'epoca, demolendo l'utopia (o quello che ne restava) del Sogno Americano. Stone invece, in questo stanco remake, cerca di ampliare il respiro e imbastire un pamphlet sulla crisi economica, sullo strapotere delle banche, sulle disparità sociali e le loro conseguenze. Il problema è che tutto resta in superficie, generalizzando e banalizzando ogni cosa, trasformando la pellicola in un insulso e retorico polpettone familiar-dinastico, per giunta intriso di uno stucchevole buonismo.

Due ore e passa di noia totale, infarcite di lussuose location, bei vestiti, party altolocati e personaggi tagliati con l'accetta, condite da una colonna sonora debordante e inutilmente pomposa. Michael Douglas non è migliorato rispetto a ventitrè anni fa, e se allora raccattò con la sua interpretazione uno degli Oscar più immeritati della storia, stavolta si può solo provare compassione per lui e per il suo difficile presente: la sua faccia stanca, emaciata e sofferente fa purtroppo da triste parallelo con quello che gli sta accadendo nel mondo reale, e di questo ovviamente gli facciamo i migliori auguri.
Meglio invece gli altri due giovani protagonisti, pur senza strafare: Shia LeBeouf se la cava nel ruolo del giovane broker rampante e disilluso, mentre Carey Mulligan fa intravedere sprazzi di buona scuola (ma se volete apprezzarla in tutta la sua bravura guardatela in An education).
Ma è davvero troppo poco per un film che era già 'fuori tempo massimo' ancora prima di uscire, e dove tutto gira su se stesso.
Nè interessante nè brutto, comunque. Semplicemente inutile.
VOTO: * *

domenica 17 ottobre 2010

GORBACIOF (Italia, 2010) di Stefano Incerti


Toni Servillo è un attore straordinario, e questa non è una novità. La sua faccia, il suo 'ghigno', la sua capacita mimica e trasformistica non reggono il confronto con nessuno. E' un animale da palcoscenico e, pur non avendolo mai visto (purtroppo) recitare in teatro, non mi stupisco certamente delle sue doti drammaturgiche.
Tutti i grandi caratteristi come lui, però, hanno un punto debole: il rischio di rimanere schiavi di un personaggio, di un modo di essere. E bene fa Servillo ad alternare la sua professione tra cinema e teatro, così da non 'inflazionare' la sua immagine.

Prendiamo ad esempio questo Gorbaciof, opera settima del regista Stefano Incerti: Servillo interpreta il ruolo del protagonista che dà il titolo al film, così chiamato per via della vistosa voglia che porta sulla fronte, simile a quella dell'ex-leader sovietico. Gorbaciof è un personaggio schivo, abitudinario, terribilmente solo, che di mestiere fa il cassiere del carcere di Poggioreale. Nella vita ha solo una passione, quella per il gioco d'azzardo, e per procurarsi i soldi adatti all'uopo 'svaligia' quotidianamente la cassaforte del penitenziario, salvo poi rimpinguarla il giorno dopo, dopo la partita a poker notturna.

Gorbaciof è un tipo metodico: non rischia e non gioca mai oltre le proprie possibilità, così da non avere grane. Ma un giorno capita un 'imprevisto': s'invaghisce di una bella ragazza cinese, figlia del padrone del ristorante che funge da bisca. E quando costui contrae un grosso debito di gioco, il 'nostro' compie un errore madornale: per aiutare il padre della ragazza, e tentare di fare colpo su di lei, si mette a rubare... finendo ovviamente in un mare di guai.

Vi dice niente questa storia? Beh, è fin troppo ovvio: Incerti riscrive pedissequamente il personaggio di Titta DeGirolamo ne Le conseguenze dell'amore, cambiandone solo il nome e l'ambientazione, trasportandola dalle raffinate e asettiche atmosfere lagunari svizzere alle viscere di una Napoli sconosciuta e multietnica.

Il risultato però è deludente: Incerti punta tutto su Servillo, esasperandone (troppo) le caratteristiche del personaggio e finendo per ridurlo a una caricatura, enfatizzando inutilmente una recitazione fin troppo sopra le righe, fatta solo di tic, mugugni e (poche) parolacce in partenopeo stretto. Per carità, non è certo la prima volta che si costruisce un film completamente sulle spalle di un attore, ma questo one-man-show appare banale, scontato e decisamente ridicolo in certe scene (vedi quella finale che scimmiotta pateticamente Pulp Fiction). Peccato.

VOTO: * *

(s)CULT / JOAN LUI - MA UN GIORNO NEL PAESE ARRIVO IO DI LUNEDI' (Italia, 1985) di Adriano Celentano

La tentazione è stata troppo forte: con mia incredibile sospresa l'altra sera vedo in promozione su un noto sito di vendite on-line, alla modica cifra di 11,90 euro, il dvd di uno dei film più 'trash' di tutti i tempi! In pratica, il film che mise fine alla carriera cinematografica di Celentano. Un autentico (s)cult-movie che ogni cinefilo che si rispetti dovrebbe possedere!!
Ovviamente sto scerzando, però credo che ognuno di noi abbia commesso, almeno una volta nella vita, qualche piccolo 'peccato inconfessabile' (parliamo sempre di cinema, of course). Qualche titolo, cioè, che magari vi 'vergognate' ad ammettere di amare, ma che non potete fare a meno di vedere quando passa in tv...

Ecco, devo dire che a me Joan Lui ha sempre destato grande curiosità: lo vidi per la prima (e finora unica volta) nel 1986, al cinema, insieme a mio babbo che era un 'celentaniano' di ferro e mi ci volle portare a tutti i costi. Avevo tredici anni e non è che ne capii molto... e da allora non l'ho più rivisto. Nè in televisione, nè in vhs. Mai. Solo qualche spezzone su youtube e una registrazione fattami da una mia carissima amica direttamente dalla tv.
Per questo l'ho subito comprato. E appena il corriere me lo ha recapitato l'ho infilato di scatto nel lettore dvd: cavolo, volente o nolente stavo guardando quello che è stato il primo vero musical italiano della storia... e scusate se è poco!


Naturalmente è impossibile prendere sul serio un film come questo: un autentico 'delirio' d'onnipotenza (nel senso letterale del termine!) a cui in seguito Celentano ci avrebbe abituato, ma che all'epoca diventò una specie di caso nazionale: la Chiesa e la critica cattolica, nonchè la politica (che come al solito presero tutto terribilmente sul serio) si scagliarono violentemente contro di esso, accusandolo di essere blasfemo e immorale. La restante parte dei recensori lo definirono, nella migliore delle ipotesi, 'sconclusionato, barbaro e inguardabile'. Al resto ci pensò Cecchi Gori, il distributore, che intuendone il fiasco totale riversò nelle sale una copia tagliata e 'ammorbidita' in certe scene che fece infuriare l'Adriano Nazionale, tanto da fargli intentare una causa per danni miliardaria (poi ritirata).

Joan Lui è un misto tra Jesus Christ Superstar e Tommy, riveduto e (s)corretto alla maniera del Molleggiato: è la storia di un Messia moderno, canterino e completamente vestito di bianco, che scende sulla Terra, corrotta e iper-violenta, per portare ordine e pace... vorrebbe essere un pamphlet 'evangelico' contro l'arroganza e la prevaricazione, ma finisce col risultare un interminabile, demagogico e retorico videoclip fabbricato 'su misura' per le manie predicatorie del suo regista.

Eppure, udite udite, visto oggi con occhi distaccati e un po' divertiti, Joan Lui appare un'opera quantomeno curiosa. Irrisolta, ma per certi versi interessante. Soprattutto per le coreografie, talmente improbabili e kitsch da risultare (quasi) intriganti: come detto, questo film può considerarsi a buon diritto il primo autentico musical girato nel nostro paese. Quello che salta all'occhio è l'enorme discrepanza tra gli intenti e le aspettative del regista e i risultati ottenuti, decisamente sconfortanti... tuttavia, prese a se stante, bisogna riconoscere a Celentano un certo 'stile' e un certa personalità nel dirigere le scene ballate.

Allo stesso modo, non si può non riconoscere al regista l'assoluta sincerità e onestà, nonchè il coraggio (misto a incoscienza), per aver girato un film come questo. Si potrà dire tutto su Joan Lui, tutto il peggio possibile, ma non si può negare il coraggio del suo Messia (!) per aver tentato, la bellezza di venticinque anni fa, qualcosa di davvero originale.

domenica 10 ottobre 2010

Venezia 67 / THE TOWN (USA, 2010) di Ben Affleck

Se siete in cerca di cinema 'classico', di genere, con tutti i crismi e gli stereotipi del caso, allora The Town è quello che fa per voi (e non c'è niente di male, per carità). Se siete in cerca di altro... allora potete tranquillamente lasciare perdere. Senza cattiveria.
Sì, perchè la seconda opera di Ben Affleck in veste di regista è decisamente un passo indietro rispetto al folgorante (e sorprendente) esordio di Gone baby Gone.

Tratto dal romanzo 'Prince of Thieves' di Chuck Hogan, The Town è un convenzionalissimo gangster movie che si rifà ai polizieschi classici stile anni '70, con un cast ottimo (su tutti Jeremy Renner e Rebecca Hall) e una trama abbastanza scontata: siamo a Charlestown, sobborgo di Boston, e l'affascinante e inafferrabile bandito Doug McRay, insieme al fratello Jam, seminano il terrore nel quartiere ripulendo le banche al soldo del 'solito' boss locale di origine irlandese che si fa chiamare enigmaticamente 'il fioraio'. Nel corso dell'ennesima rapina, però, le cose non vanno nel senso sperato e i due (a volto coperto) prendono in ostaggio una giovane donna, Claire, che 'ovviamente' finirà per innamorarsi di Doug, che nel fratempo ha iniziato a frequentare... con tutte le conseguenze del caso.

Amore, violenza, spari, azione, romanticismo. In The Town c'è di tutto e di più, compresi i soliti clichè del genere: l'amico dalla pistola facile, la storia d'amore impossibile, la necessità di scegliere e fare i conti col proprio passato. Il tutto girato con una regia onesta e solida, ma che non lascia alcun spazio all'inventiva e all'immaginazione: il prodotto è dignitoso, valido, con buone sequenze d'azione e un bel ritmo. Ma è inutile cercare qualcosa di nuovo, di originale.

Tutto sa di già visto, di scontato, un pò come i vecchi film di Bud Spencer e Terence Hill.
In poche parole, solo per appassionati nostalgici.
VOTO: * *

domenica 3 ottobre 2010

BENVENUTI AL SUD (Italia, 2010) di Luca Miniero

Appena qualche giorno fa, recensendo Mangia Prega Ama, ci eravamo soffermati sull'annosa questione degli stereotipi: noi italiani siamo sempre permalosetti quando gli altri ci raffigurano nei modi che sappiamo, salvo poi farci grasse risate con una commediola che deve tutto il suo successo proprio ai famosi "luoghi comuni", nella fattispecie quelli che caratterizzano Nord e Sud, gonfi di pregiudizi fin dalla notte dei tempi. O almeno da ben prima dell'Unità d'Italia!
Benvenuti al Sud, per chi non lo sapesse, è il remake nostrano di una fortunatissima pellicola francese del 2007, Bienvenue chez les Ch'tis (da noi tradotta come Giù al Nord), in cui si predevano appunto in giro i pregiudizi di un impiegato del sud che viene 'costretto' a lavorare nel freddo e inospitale settentrione transalpino. Qui la vicenda si ribalta: il milanesissimo Claudio Bisio, funzionario delle Poste Italiane, subisce un trasferimento punitivo nel minuscolo paesino di Castellabate, nel cuore del Cilento, dove è costretto a recarvisi con la morte nel cuore: tutto quello che sa del Sud è che lì c'è deliquenza, gran caldo e si parla una lingua incomprensibile...

Ora, remake o non remake, bisogna dire che in questo film di 'francese' c'è ben poco. Anzi, viene quasi il sospetto (mica tanto campato per aria!) che il regista transalpino Deny Boon, girando la sua commedia, abbia generosamente tratto spunto dagli sketch di Totò e Peppino per scrivere il proprio film... la comicità di Benvenuti al Sud infatti è italianissima al 100% , e sui tanto radicati 'luoghi comuni' la pellicola di Luca Miniero offre una progressione di gag e situazioni assolutamente esilaranti: il protagonista 'piomba' al Sud imboccando un'intasatissima Salerno-Reggio Calabria, con il giubbotto antiproiettile addosso e il dizionario italiano-napoletano in valigia. Arrivato a destinazione, sotto una pioggia battente e in posto apparentemente spettrale, scoprirà a poco a poco vizi e virtù dei 'terroni', imparando ben presto che da quelle parti dire no è maledettamente difficile: a chi ti offre il caffè, a chi si prodiga per arredarti la casa, a chi ti accoglie a braccia aperte secondo la ben nota ospitalità meridionale... ma accorgendosi anche che spesso (anzi, quasi sempre) le cose non vanno assolutamente come uno s'immagina. E che la 'permanenza' forzata sarà meno drammatica del previsto.

La ricetta di Benvenuti al Sud è semplicissima: ridere sui vizi italici, operazione che ha sempre funzionato nel nostro cinema e di cui Alberto Sordi era maestro. Claudio Bisio non è Sordi, e nemmeno Totò, ma con 'quella faccia un po' così' fa ridere solo a guardarlo e la sua comicità mite, sensibile e non volgare fa apprezzare una commedia banalotta ma efficace. Bisio è bravo, è il mattatore del film e risponde per le rime a chi sostiene che è capace di far ridere solo negli sketch televisivi. Ottimi anche i comprimari: Alessandro Siani, pur scimmiottando un po' troppo Troisi, è una valida spalla, cosiccome lo sono Nando Paone e Giacomo Rizzo (ve lo ricordate ne L'amico di Famiglia di Sorrentino?). Valentina Lodovini è decisamente improbabile come 'terrona', ma è così bella che le si perdona davvero tutto...
VOTO: * * *

sabato 2 ottobre 2010

Oscar: l'Italia "scommette" su Virzì

E così, con ben poca suspance in verità, il nodo è stato sciolto: sarà La prima cosa bella di Paolo Virzì il film che rappresenterà l'Italia agli Oscar 2011. Una scelta ovvia, scontata, e che speriamo possa rinverdire i fasti di un palmarès italico che è ormai fermo al 1999, quando fu Roberto Benigni con La Vita è Bella a portarsi a casa per l'ultima volta l'ambita statuetta. Non sarà facile, la concorrenza quest'anno è agguerrita e ben qualificata: favorito su tutti il bel film francese Gli Uomini di Dio di Xavier Beauvois, ma altri brutti clienti potrebbero essere il messicano Biutiful di Gonzalez Inarritu (con Javier Bardem), il thailandese Lo zio Bonmee che si ricorda le vite precedenti (entrambi premiati a Cannes), il bosniaco Cirkus Columbia di Denis Tanovic, lo spagnolo Tambien la lluvia di Iciar Bollain, il danese In a better world di Suzanne Bier. Più, ovviamente, le inevitabili sorprese.

Scelta giusta e scontata, dicevamo. Ma questo non ci impedisce di fare alcune considerazioni in merito ai criteri di selezione e, più in generale, di riflettere sull'annosa questione dello stato di salute del cinema italiano.
Cominciamo col dire che, a mio personalissimo parere, La prima cosa bella non solo NON è stato il film più bello della scorsa stagione, ma non è nemmeno il film più bello dello stesso Virzì. E' una pellicola ruffiana, buonista, un po' stucchevole, decisamente sconsigliata ai diabetici. Nulla a che vedere con le precedenti opere del regista livornese, da Ovosodo a Caterina va in città, ironiche, graffianti e, soprattutto non omologate. Eppure ha un punto di forza che la rende adattissima al mercato internazionale: la storia è semplice, lineare, universale. E' una storia che può funzionare bene in tutto il mondo, a qualunque latitudine, e risultare così comprensibile e chiara da non aver (quasi) bisogno nemmeno dei sottotitoli. E', insomma, un film VENDIBILE all'estero: roba che nella produzione italiana di oggi sembra quasi una parolaccia.

Questo, infatti, almeno secondo me è il grande problema del cinema italiano: non riuscire più a raccontare storie che possano essere viste e capite da chiunque le guardi, a prescindere dalla lingua e dalla razza... Siamo diventati (salvo poche eccezioni) provincialotti e ottusi, gelosi (giustamente!) della nostra tradizione ma incapaci di esportarla, ci vantiamo di avere una cinematografia sempre viva e di qualità, eppure i nostri film nella stragrande maggioranza dei casi non vanno oltre la dogana di Chiasso...
Ecco perchè opere come Noi Credevamo, il film più bello visto quest'anno a Venezia, non spuntano nemmeno un premio (cosa può capire un giurato straniero del nostro Risorgimento?). Ecco perchè film come Gomorra e Il Divo, capolavori e massimi esponenti di un cinema nazionale geniale e elitario, raccolgono messe di premi ma nemmeno sbarcano oltreoceano.

Ed ecco perchè i lungimiranti selezionatori nazionali hanno preferito La prima cosa bella a titoli ben più importanti ma strettamente 'territoriali' come, ad esempio, L'Uomo che verrà di Diritti o La Nostra Vita di Luchetti. A dire la verità un altro bel film (anzi, un grandissimo film!) di respiro internazionale quest'anno c'era: Le Quattro Volte di Michelangelo Frammartino. Ma sappiamo bene che titoli come questo è già un miracolo se riescono ad arrivare nei cinema, figuriamoci ottenere una distribuzione disgnitosa!
Siamo prigionieri delle nostre quattro mura, e gelosi di un mondo che ci va sempre più stretto.
Speriamo che Virzì possa farci cambiare strada, ma onestamente ci credo poco.

INCEPTION (USA, 2010) di Christopher Nolan

La metamorfosi (preoccupante) di un regista. Questo mi è rimasto di Inception subito dopo averlo visto, e non è una bella sensazione. Christopher Nolan si è ammalato di bulimia, malattia assai contagiosa a Hollywood e difficile da guarire, se non imparando a convivere con essa (ci stanno provando da tempo James Cameron e Peter Jackson, tanto per fare degli esempi). E' un brutto virus, alimentato prevalentemente dai soldi e dal successo, che ti riempe la pancia e il portafoglio, e che se non viene curato a dovere finisce per svuotarti il cervello... Nel caso del talentuoso regista inglese siamo ancora nella fase d'incubazione, ma i sintomi sono preoccupanti.

E' inutile girarci intorno: da Inception mi aspettavo molto, molto di più. Perchè da uno come Nolan è lecito aspettarsi grandi cose. Se questo film l'avesse diretto un Ron Howard o un Tony Scott qualsiasi avrei quasi gridato al miracolo, ma da Christopher Nolan era ovvio aspettarsi ben altro rispetto ad un immenso videogioco costosissimo e iper-tecnolocico come questo.
Nolan sa di essere bravo e 'cool' (parola che oggi va molto di moda), e probabilmente il successo, il denaro e una certa critica accondiscendente hanno "instillato" nel suo cervello (proprio come il protagonista del film!) un certo delirio di onnipotenza, portandolo a strafare.
Sì, perchè Incepion è fondamentalmente un film esagerato, megalomane, basato su una sceneggiatura incredibilmente complicata, contorta e strutturata su ben cinque livelli di lettura, come strombazzato da tutti i flani in fase di promozione. Questi famosi cinque livelli dovrebbero essere il punto di forza della pellicola, la dimostrazione della genialità e dell'inventiva del suo 'creatore'.

Ma quando lo spettatore, nelle due ore e mezza di durata del film, si interroga SOLO e SOLTANTO sulla trama, stando attendo SOLO a capire in quale livello si trova e cercando di ricordarsi i collegamenti con gli altri quattro... beh, è chiaro che c'è qualcosa che non va. Ed è chiaro che il presunto 'punto di forza' si trasforma nel principale limite del film.
Inception è un gigantesco gioco di ruolo, un 'master mind' cinefilo dove alla fine tutto coincide e tutto torna il suo posto (forse), ma arido come il deserto e freddo come il ghiaccio. Un difficile videogame dove il gioco ha il sopravvento sulle emozioni, e che dopo che ci hai giocato spegni l'interruttore e amen. Non ti resta niente. Non ricordi un personaggio che ti faccia appassionare, commuovere, trepidare... gli interpreti sono funzionali esclusivamente alla trama, e per quanto siano tutti bravissimi (DiCaprio in testa, ma non è una novità) nessuno di loro ti coinvolge davvero. Sono solo oggetti, pedine interscambiabili e manovrabili col joystick, senza nè anima nè corpo. Esemplare è la figura della giovane Ariadne, la 'geometra dei sogni': questa ragazzina giovanissima e intelligentissima compare dal nulla e si integra perfettamente nella banda creata da Cobb, come se quelle persone le conoscesse da una vita. Eppure di lei non si sa niente, nè chi sia, nè da dove viene, nè cosa faccia, nè perchè si trovi lì. Si sa solo che in quel momento 'serve', e quando il film finisce arrivederci e grazie...

In Inception non c'è traccia di emozioni, e nemmeno di originalità: per quanto stilisticamente perfetto e avvincente, finisce col sembrare solo una versione 'riveduta, corretta e gonfiata' di Matrix, con evidenti 'rimandi' più o meno voluti ad altre opere miliari della fantascienza. A me è parsa evidente l'assonanza con Solaris: Cobb ad un certo punto ritrova la moglie nel 'limbo' e non vuole più abbandonarla, a costo di rischiare la vita. Sa benissimo che lei può vivere soltanto lì, nel suo subconscio, e sa bene che questo può causare danni irreversibili al proprio cervello. Dovrà fare una scelta, esattamente come il Kris Kelvin di Tarkovskij... ma è l'unico barlume di 'umanita' in una pellicola davvero troppo cerebrale per essere amata.
VOTO: * * *