domenica 13 marzo 2011

THE FIGHTER (USA, 2010) di David O. Russell


La boxe è da sempre lo sport più 'saccheggiato' dal grande schermo, specie dal cinema a stelle e strisce, e la ragione è evidente: il pugilato incarna le principali caratteristiche del Sogno Americano (sacrificio, tenacia, dedizione, successo), che vogliono l' 'uomo qualunque', preso dalla strada, spesso umile e indigente, capace di arrivare sul tetto del mondo. La storia dell' 'uno su mille ce la fa', insomma, meglio ancora se condita da una bella dose di patriottismo e, perchè no, di redenzione e conseguente risalita. Di film sulla boxe se ne sono fatti tanti (vedi post sopra), alcuni capolavori assoluti, altri discreti, molti non memorabili.

A quale categoria appartiene quindi The Fighter, ultima fatica di David O. Russell, regista newyorchese assurto agli onori della critica una decina di anni fa con il folgorante Three Kings, vigoroso action-movie sulla Guerra del Golfo, e poi rapidamente decaduto col disatroso fiasco di I love Huckebees?
Beh, diciamo subito che il film non è un capolavoro. The Fighter non è Toro Scatenato (e questo ce l'aspettavamo), ma sarebbe ingiusto liquidare la pellicola come 'l'ennesima storia di box made in USA'. Perchè Russell ce la mette tutta per non fare un film scontato (riuscendoci solo in parte), ma va apprezzato il tentativo di andare 'oltre' la semplice trama sportiva per raccontare una vicenda familiare, a tratti dura e spigolosa, che adotta il ring come parabola sociale. E di questo bisogna dargliene atto.

I protagonisti del film sono infatti due fratelli, ed è su di loro che si sofferma la macchina da presa. Due fratelli di origine irlandese, provenienti entrambi dai bassifondi (e fin qui siamo davvero 'sul classico')  ma dal carattere totalmente diverso: uno (Dick, un ottimo Christian Bale) è debole e malandato, vive sul ricordo di un attimo di gloria (un incontro perso onorevolmente contro l'invincibile Ray Sugar Reynold) e passa il tempo a riempirsi di crack. Nei rari momenti di lucidità si diletta ad allenare il fratello, Micky (Mark Wahlberg) che di grinta invece ne ha da vendere ma finirà anch'esso nei guai proprio per salvare Dick, a cui è tenacemente legato. A complicare la situazione si aggiunge la madre dei due (Melissa Leo), donna invadente, invasata e possessiva, capace di condizionare non poco i legami affettivi e familiari dei due.

La prima parte del film è bella, cupa e toccante. Quasi documentaristica per realismo e forza emotiva. Sembra di assistere a un film di Ken Loach,  con la macchina da presa capace di mettere a nudo, senza bisogno di dialoghi, una realtà fatta di povertà, ignoranza, squallore, degrado fisico e morale, ma portata avanti con grande dignità. E molto del merito lo si deve agli attori principali, davvero encomiabili nelle loro performance (Bale e la Leo hanno vinto l'Oscar - meritato - ma sarebbe ingiusto 'dimenticare' Wahlberg, una faccia mai troppo considerata a Hollywood, senza dubbio però uno degli interpreti più versatili e affidabili della nuova generazione).

Quando però la vicenda 'vira' sul versante strettamente sportivo, ecco che il film s'incarta... nel senso che non dice niente di nuovo e comincia a parare sul terreno noto e prevedibile, tipicamente americano, dell'eroe caduto in disgrazia che con grande abnegazione e fiducia in se stesso riesce a risalire la china e assurgere a imperitura gloria. Sa tanto di Rocky ma si lascia comunque vedere, mantenendo la retorica su livelli accettabili. Un film, insomma, che non lascerà il segno ma che saprà regalarci un piccolo attimo di gloria. Esattamente come il suo protagonista.
Meglio che niente.

VOTO: * * *

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