domenica 31 luglio 2011

CORPO CELESTE (ITALIA, 2011) di Alice Rohrwacher

Se non sapessimo che questo film è un'opera prima e che è diretto da una 'sorella d'arte' nemmeno trentenne, saremmo pronti a giurare che Corpo Celeste è stato girato da un Ermanno Olmi in stato di grazia. E invece il 'grande vecchio' del cinema italiano si appresta a sbarcare al Lido con un nuovo lavoro (vedi sotto), e questa pellicola è davvero un folgorante debutto di una nuova regista: tale Alice Rohrwacher che, potete scommetterci, da adesso non sarà più etichettata soltanto come 'la sorella di Alba' ma brillerà giustamente di luce propria.

Sì, perchè Corpo Celeste è senza dubbio la più bella opera prima italiana che ci sia capitato di vedere negli ultimi anni, e l'accostamento alla cinematografia di Olmi è ovviamente un complimento: il film infatti sorprende per la maturità, il rigore e la delicatezza con le quali viene raccontata una storia che parla di emigrazione e integrazione, di religione e laicità, di un 'profondo sud' terribilmente disastrato e ancorato al passato, con toni nient'affatto da cartolina.

In Corpo Celeste si parla di Marta (una straordinaria Yle Vianello), ragazzina tredicenne che dopo aver vissuto per dieci anni in Svizzera torna con la madre e la sorella maggiore nella natìa Calabria per ricevere la Cresima. Il film descrive con l'inquietudine e lo spaesamento tipici della pubertà l'autentico choc che la piccola è costretta a subire a causa del trasferimento in una terra così lontana e, ahimè, così retrograda rispetto a quella dove è cresciuta. Attraverso lo sguardo disincantato (e spietato) della pre-adolescenza, le immagini ci mostrano l'allucinante realtà ignorante e 'trash' di una terra (e della sua gente) ancora ancorata a rituali antichi e obsoleti, dove la figura del 'prete' è sempre ritenuta centrale e determinante per tutta la comunità: e poco importa se il parroco locale (Salvatore Cantalupo, anche lui bravissimo) è in realtà un essere meschino, che ambisce solo al trasferimento in un altra città e si occupa soprattutto di far vincere le elezioni al candidato locale, gestendo il voto di scambio.

Va subito detto che la Chiesa e le istituzioni ecclesiastiche qui non fanno proprio una bella figura. Ma sarebbe davvero sbagliato e superficiale etichettare Corpo Celeste come un film 'anticlericale'. Perchè non lo è: ad essere messo sotto accusa nella è soprattutto il 'sistema Sud', un insieme di tradizioni, usi, costumi, modi di essere e ragionare che, inevitabilmente, girano tutti attorno alla parrocchia e al mondo cattolico: solo che si tratta di un mondo terribilmente antico, totalmente scollegato dalla realtà e assolutamente incapace di recepire lo scollamento tra i fedeli e la religione. Nelle stanze dove si insegna il catechismo, o meglio, dove si dovrebbe insegnarlo, vige solo il festival del cattivo gusto: la dottrina di Cristo impartita come un quiz televisivo, canzoncine religiose 'moderne' fatte imparare a suon di karaoke, e soprattutto la dis-umanità di una comunità dove l'oratorio è l'unico luogo per socializzare e farsi nuovi amici.

Ma quando la piccola Marta, per cause che non vi stiamo a dire, viene trascinata dal parroco in un paese abbandonato per 'rubare' un crocifisso, l'incontro con il suo unico abitante, un prete matto e 'resistente', le farà finalmente aprire gli occhi e restituire dignità e speranza a quel Sacramento che si appresta a ricevere.

VOTO: * * * *

domenica 24 luglio 2011

TANTI AUGURI, MESSER ERMANNO !

La prima volta che vidi L'albero degli zoccoli avrò fatto la prima o la seconda media. Fu un trauma: far vedere a un ragazzino toscano di 13-14 anni un film di tre ore parlato in bergamasco stretto, sottotitolato, perdipiù di mattina presto, non contribuisce a promuovere l'arte cinematografica... fortuna che già mi ero già fatto gli anticorpi! E infatti quando dopo svariati lustri ho rivisto quel film sul grande schermo, non ho potuto far altro che constatare e ammirare l'incredibile potenza di quelle immagini: una potenza che nasce da un cinema umile, semplice, diretto, popolare ma certo non per questo meno nobile, come ci insegna il suo regista.

A causa di questo 'trauma infantile', mi sono avvicinato molto tardi al cinema di Ermanno Olmi. Esattamente dieci anni fa, quando mi convinsi ad andare a vedere Il mestiere delle armi. E anche quello fu un trauma, ma stavolta ben più salutare: di solito ci metto un po' per rendermi conto della grandezza di un film, ci devo riflettere, magari necessito perfino di una seconda visione. Invece quella volta fui colpito al cuore e al cervello da quel capolavoro assoluto, un film che andrebbe fatto vedere a tutti gli abitanti del mondo, obbligatorio come le vaccinazioni. Un film che parla di un episodio piccolo, oscuro, ma che cambiò irreversibilmente il destino dell'umanità: quando Joanni de' Medici fu colpito alla gamba dalla prima arma da fuoco della storia, morendo dopo giorni di indicibili sofferenze, il mondo capì che le guerre non avevano più nulla di eroico, e che il valore della vita era tragicamente diminuito. Era quello l'inizio dell'età moderna.
Il mestiere delle armi (2000)

Ecco, nel dvd de Il mestiere delle armi c'è un'intervista a Ermanno Olmi. Dura all'incirca dieci minuti, forse meno. Ed è senza alcun dubbio la più bella lezione di storia che abbia mai ascoltato:


"Le guerre non nascono, come si potrebbe pensare, dal solo interesse economico. Non è sufficiente. Quello che scatena le guerre è la presunzione da parte di alcuni essere umani di essere migliori di altri. Di voler insegnare agli altri come si sta al mondo".


Quanta saggezza e quanta infinita sofferenza in queste parole! E soprattutto quanta umanità! Non avrei mai immaginato che io, da sempre sinistrorso e molto diffidente nei confronti delle religioni e della fede, avessi potuto eleggere quasi come mia 'guida morale' un uomo così profondamente cattolico e  devoto.

L'albero degli zoccoli (1978)
Eppure, chi meglio di Olmi in tutti questi anni  ha predicato l'importanza di vivere nel rispetto degli altri, nell'umiltà, nella consapevolezza che la salvezza del mondo dipende dalla bontà delle azioni quotidiane, nei piccoli gesti che regalano sorrisi: non è forse questa una grande lezione di vita?
Con La leggenda del santo bevitore ci ha convinto a non perdere mai la speranza, aiutandoci a voler bene alla vita.  In Cantando dietro i paraventi ci ha spiegato l'importanza del perdono, come un gesto di riconoscenza e non di debolezza (è molto più facile odiare che perdonare). Ne Il posto ci ha parlato della dignità del lavoro e del valore dell'amicizia, in Lunga vita alla Signora ha rivendicato per ciascuno di noi il diritto all'infanzia e a una giovinezza serena.

E, infine, con Centochiodi ha firmato quello che doveva essere il suo testamento spirituale e artistico, specchio di un uomo puro, integro, coerente con se stesso e deluso (e disilluso) dal mondo. Quel Messia moderno che getta nel fiume i simboli dell'agiatezza e dell'insensibilità dell'uomo moderno è il ritratto fedele dell'aridità della società contemporanea, totalmente basata sull'apparenza e sul denaro.  E anche (anzi, soprattutto!) una ferma presa di posizione verso il Cristianesimo di oggi, retto da una Chiesa ormai totalmente scollegata e distante dai fedeli, ripiegata su rituali antichi e tagliata fuori dalla Storia ("Tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico...").
Centochiodi (2007)

Un giudizio duro, senza appello, ancora più netto proprio per il fatto che viene pronunciato da una persona  nata, cresciuta e invecchiata con ideali cattolici e liberali. Ma, proprio per questo, ammirevole per onestà intellettuale e grande statura morale. Dopo Centochiodi Olmi affermò convinto che non avrebbe girato più film di finzione, ma solo documentari. Ma a noi piace immaginarlo lassù, nel suo 'buen ritiro' di Asiago (dove vive da molti anni) ad osservare arrabbiato e triste la società che abbiamo costruito. E decidere che è decisamente troppo presto per andare in pensione ("Siamo un paese che ha perduto l'anima, che ha barattato i sogni col benessere. Abbiamo perduto il senso della realtà perchè non la frequentiamo più.").

Ermanno Olmi, che oggi compie 80 anni, sarà a Venezia con un nuovo film: Il villaggio di cartone. Parlerà di immigrazione e tolleranza, di speranza e amicizia, di una nuova redenzione.
Tanti auguri, messer Ermanno.

sabato 16 luglio 2011

SE VOLETE ASSISTERE DA ACCREDITATI ALLA MOSTRA DI VENEZIA... LEGGETE QUI !


Cari amici,
Perdonatemi se per una volta uso questo blog esclusivamente come 'strumento di servizio', ma credo proprio che ne valga la pena... mi rivolgo ovviamente a tutti i miei lettori cinefili!

Se c'è infatti qualcuno tra voi cui interessa vivere almeno una volta nella vita un'esperienza 'unica', volevo mettervi al corrente che HO A DISPOSIZIONE 2 ACCREDITI 'CINEMA' PER ASSISTERE ALLA PROSSIMA MOSTRA DI VENEZIA (31 agosto - 10 settembre). 

Gli accrediti permettono di assistere a TUTTI i film in programma per TUTTA la durata della manifestazione. Il prezzo è di 60 euro cadauno, che può essere pagato anticipatamente tramite carta di credito oppure in contanti al Lido al momento del ritiro. Tengo a precisare che questo è il prezzo fisso stabilito dalla direzione del Festival (ergo, io non ci guadagno assolutamente nulla... li metto solo a disposizione e, in ogni caso, il versamento lo farete direttamente all'ente-Biennale di Venezia).

Si tratta di un'ottima occasione, primo perchè i prezzi per il pubblico pagante sono decisamente più alti (l'anno scorso partivano da 16 euro per la singola proiezione della sera al PalaBiennale, fino ai 40 euro in Sala Grande, sempre per un solo film), secondo perchè molte proiezioni sono riservate ai soli accreditati.

Torno a ribadire che non lo faccio assolutamente per tornaconto personale... solo che quest'anno la Segreteria della Biennale è stata particolarmente 'munifica' in fatto di accrediti, e in pratica me ne sono 'avanzati' due: e considerato quanto questi accrediti sono 'desiderati' dagli appassionati mi sembrava un vero peccato 'gettarli' nel cestino.

PERCIO' SE QUALCUNO DI VOI FOSSE DAVVERO INTERESSATO, O CONOSCESSE QUALCHE ALTRO SUO AMICO REALMENTE 'APPASSIONATO' DI CINEMA E DESIDEROSO DI PARTECIPARE, VI INVITO A CONTATTARMI NEL PIU' BREVE TEMPO POSSIBILE (LA RICHIESTA VA FATTA ENTRO IL 21 LUGLIO)  al mio indirizzo mail:


PROVVEDERO' IO POI A FORNIRVI (SEMPRE VIA MAIL) IL CODICE DI ACCESSO E IL LINK PER LA REGISTRAZIONE.
OVVIAMENTE RISPETTERO' L'ORDINE TEMPORALE DI CHI MI SCRIVE. ERGO, I PRIMI A 'PRENOTARSI' SARANNO COLORO CHE BENEFICERANNO DEGLI ACCREDITI.


E ora... tocca a voi!

amori cinefili / VALENTINA LODOVINI


E' nata a Umbertide (PG), ma non ditele che è umbra altrimenti si arrabbia ('a Umbertide ci sono stata due giorni in vita mia, in ospedale quando sono nata!'). Valentina Lodovini, classe 1978, ci tiene davvero a sottolineare la sua 'toscanità' (è cresciuta a Sansepolcro, presso Arezzo), anche per farsi scivolare addosso  l'antipatica etichetta di 'anti-Bellucci' che si trascina addosso fin da quando l'abbiamo notata sul grande schermo: esattamente ne La giusta distanza, film del 2007 diretto dal compianto Carlo Mazzacurati: una storia di ordinario razzismo e discriminazione ambientato nel basso polesine. La Lodovini intepretava una giovanissima insegnante appena arrivata in microscopico paesino di provincia, dove ovviamente con la sua avvenenza e spregiudicatezza metteva in subbuglio l'intera comunità...

E d'altronde basta guardarla per capire come quel ruolo non poteva non esserle congeniale: una bellezza 'accecante', clamorosa, tipicamente mediterranea, che esalta magnificamente un fisico non certo da mannequin (è un complimento!) ma con tutte le curve al punto giusto: e che curve! Proprio come la  Bellucci, insomma... ma evitate di dirglielo se vi capita di incontrarla per strada!
Anche perchè, a volere essere cattivi (e vogliamo esserlo, eh eh), il paragone con la Monica 'nazionale' può essere fatto solo dal punto di vista fisico in quanto, beh... la Lodovini oltre che bellissima è anche molto, molto  brava!
Un'attrice vera, capace di  alternare parti difficili e impegnate (da Fortapàsc di Marco Risi, a Il passato è una terra straniera di Daniele Vicari) a prestazioni più leggere e brillanti (vedi Generazione mille euro di Massimo Venier, o La donna della mia vita di Luca Lucini). D'altronde, e non è un caso, a 'scoprire' Valentina fu nientemeno che il più talentuoso regista italiano contemporaneo: parliamo di Paolo Sorrentino, che le affidò una piccola parte ne L'amico di famiglia (2005), trampolino di lancio per una rapidissima carriera.

Oggi Valentina Lodovini è una delle nostre attrici più stimate e richieste. Soprattutto da quando Luca Miniero l'ha voluta nel suo fortunatissimo Benvenuti al Sud, simpatica commediola nazional-popolare campione d'incassi a sorpresa nel 2010, che l'ha definitivamente consacrata al grande pubblico... ed era l'ora, viene voglia di dire, per una ragazza che ha conosciuto il suo momento di gloria a 32 anni, età in cui molte sue coetanee se vanno in pensione dopo un'effimera carriera da 'veline'. Lei invece va fiera della sua gavetta e della sua professionalità: 'non l'ho mai 'data' a nessuno, e d'altronde nessuno ha avuto il coraggio di chiedermela!', afferma disinvolta e divertita, da buona toscana (d'altronde lo diceva anche Malaparte: 'i toscani hanno il cielo negli occhi e l'inferno in bocca...')

Il futuro, naturalmente, è tutto dalla sua parte: sia al cinema, dove la rivedremo probabilmente a Venezia con Cose dell'altro mondo di Francesco Patierno, che in televisione, impegnata ad interpretare nientemeno che Anna Magnani nella sua biografia: 'Un ruolo che mi spaventa, all'inizio d'istinto ho pensato di rinuciare per rispetto', sostiene con inusitata umiltà e deferenza. Tante facce di una brava attrice, dal carattere sanguigno e difficile come sostiene di essere anche nella vita privata. Dalla quale non lascia trapelare volutamente alcunchè, salvo lasciar trasparire che è tumultuosa e passionale: e del resto come porebbe essere diversamente? 'Diciamo che sono fidanzata con il cinema, ed è un ottimo fidanzato: in fondo gli uomini vanno e vengono, i film rimangono'. Come non essere d'accordo!

domenica 10 luglio 2011

THE CONSPIRATOR (USA, 2011) di Robert Redford

Washington, 15 aprile 1865: il presidente americano Abramo Lincoln viene ucciso a sangue freddo mentre sta assistendo ad uno spettacolo teatrale. L'assassino si chiama John Booth, e anche lui fa l'attore, pure di successo. Il paese, appena uscito dalla sanguinosa Guerra di Secessione, da quel momento entra nel panico, scatenando la prima grande 'caccia all'uomo' della storia americana... alla fine Booth viene ucciso da un cecchino mentre cerca di nascondersi in un fienile, mentre alcuni suoi compagni riescono a darsi alla macchia.

L'ultimo film di Robert Redford comincia da qui, ma non per raccontarci la biografia di Lincoln, come si potrebbe supporre, bensì per far luce su una vicenda 'oscura' e quasi dimenticata dai libri di storia: quella di Mary Surratt, vale a dire la proprietaria della pensione dove Booth e gli altri 'cospiratori' si riunivano per definire i loro piani terroristici. La donna viene arrestata e incarcerata per favoreggiamento, oltre ad essere esposta al pubblico ludibrio in quanto responsabile di aver coperto i fautori dell'attentato. Perfino il difensore d'ufficio, il giovane avvocato Frederick Aiken, è totalmente convinto della sua colpevolezza, tanto da considerare come un'offesa verso la sua persona e la sua carriera il dover prendere le difese di chi si è macchiato di un simile reato.

Succede, però, che interrogando la donna Aiken si convince via via sempre di più che l'imputata era davvero inconsapevole e incolpevole di quello che accadeva dentro il suo albergo, e che il responsabile vero e principale collaboratore di Booth è in realtà il figlio di lei, che adesso è latitante e si nasconde chissaddove. Ogni tentativo di scagionare la sua assistita si rivela però vano: lo Stato, nella persona del Ministro della Giustizia Edwin Stanton, in realtà ha già scritto la sentenza (ovviamente di colpevolezza),  e usa la Surratt come 'ostaggio' per far costituire il figlio. E per far condannare la donna non esita a far promulgare una serie di leggi totalmente antidemocratiche e illiberali al fine di giungere allo scopo.

Robert Redford, coerente con le sue ormai celeberrime idee 'liberal-democratiche', mette in scena un film dallo stampo splendidamente 'classico', stile cinema d'inchiesta anni '70, forse un po' ingenuo e stereotipato in certe situazioni, ma onesto e 'sanguigno' nella fattura. Ed è fin troppo evidente leggere in questa pellicola una chiara e netta presa di posizione verso il sistema giudiziario americano, paragonandolo a quello attuale. Gli interrogativi che pone Redford sono noti: è giusto, in nome della sicurezza nazionale, sacrificare in parte i propri diritti e la propria libertà? E' giusto che per scongiurare una ribellione la giustizia venga piegata alla 'ragion di stato'? E' normale che chi detiene il Potere si faccia leggi a proprio uso e consumo, senza che nessuno eserciti alcun controllo?

'In guerra, le leggi si fermano' afferma Stanton nella battuta più celebre del film. Già, ma può un attentato essere considerato 'guerra'? E chi lo stabilisce? Ovviamente sempre i potenti, i vincitori, che fanno e disfanno le leggi a proprio piacimento. E ogni riferimento all'attentato delle Torri Gemelle non è certamente casuale, specie a pochi mesi dal decennale della più sanguinosa tragedia americana della storia. Redford vuole metterci in guardia e farci notare, amaramente, che a quasi 150 anni dall'uccisione di Lincoln le cose non sono affatto cambiate, e che in nome della lotta al terrorismo gli Stati uniti, oggi come allora,  non esitano a rinnegare la Carta Costituzionale, e di conseguenza la democrazia.

Il film, come detto, è bello e coinvolgente. Un legal-movie di respiro antico, interpretato da attori stupendi: da Robin Wright, mai così brava, a James McAvoy, Tom Wilkinson, Evan Rachel Wood, e un soprendente Kevin Kline, davvero a suo agio nei panni, per lui insoliti, di 'cattivo'. Bello anche il finale, che non sveliamo, ma dove una didascalia ci avverte che l'avvocato Aiken, dopo la conclusione del caso-Surratt, abbandonerà la toga per diventare giornalista: esattamente il primo cronista del neonato 'Washington Post'... come dire, gli 'Uomini del Presidente' sono avvertiti.

VOTO: * * * *

mercoledì 6 luglio 2011

CIAK SI GIOCA !

'Rounders', di John Dahl
In queste calde serate estive è normale abbandonarsi alla visione riposante di qualche pellicola non troppo   'impegnativa', magari sorseggiando una bella bibita ghiacciata... e allora, rivedendo con grande piacere un film non troppo conosciuto (ma divertentissimo) come Rounders di John Dahl, ecco che mi sovvengono molti altri titoli dedicati a un gioco di carte che, forse, è vecchio quanto il cinema: ma il poker è davvero 'solo' un gioco? O forse è una 'guerra moderna', una spietata metafora della società di oggi? Domanda retorica, perchè gli innumerevoli film ad esso 'dedicati' la dicono davvero lunga...

1. ROUNDERS - IL GIOCATORE (di John Dahl, 1998)
Ben prima di Ocean's eleven, un film che 'sviscera' il vero fascino del poker, con un cast da capogiro (Matt Damon, John Malkovich, Ed Norton) e una regia virtuosa e adeguata al tavolo verde. Gran ritmo e gran divertimento. Da riscoprire.

2. LA STANGATA (di George R. Hill, 1974)
Memorabile la partita a poker, col 'pollo' che viene 'spennato' da una coppia di giganti: Paul Newman e Robert Redford.  Battuta leggendaria: 'Non potevo mica dire che bara meglio di me...'

3. REGALO DI NATALE  (di Pupi Avati, 1996)
Altro presunto 'pollo', altra immensa interpretazione, stavolta tutta italiana: Carlo Delle Piane si supera nel ruolo della sua vita, ma anche Abatantuono & co. non sono da meno. Amarissimo ritratto della provincia italiana, oggetto perfino di un remake nel 2003 ('La rivincita di Natale', non proprio indimenticabile).

'Lo scopone scientifico' di L. Comencini
4. CINCINNATI KID (di Norman Jewison, 1965)
In una sempre magica New Orleans, la sfida a carte più famosa della storia del cinema: Steve McQueen contro Edward Robinson, scontro fra titani...

5. LO SCOPONE SCIENTIFICO (di Luigi Comencini, 1972)
Altra pellicola vista decine di volte, niente di originale ma... a vedere Bette Davis, Alberto Sordi e Silvana Mangano davanti al tavolo verde vengono le lacrime agli occhi. Dalla gioia!

6.  CASINO' ROYALE (di Martin Campbell, 2006)
Di solito non amo i film di 007, ma questo titolo è importante perchè si assiste alla prima partita del texas hold'em, la nuova 'frontiera' del poker: più veloce, più moderno, più 'televisivo'. Inaugurerà una moda.

'Maverick', di R. Donner


7. MAVERICK (di Richard Donner, 1994)
La 'prima volta' di Jodie Foster in una commedia: per un fan come me, un titolo imperdibile... Donner le concede abilmente la ribalta, Mel Gibson la asseconda: non sarà un capolavoro, ma non mi stanco mai di rivederlo!