mercoledì 28 settembre 2011

TERRAFERMA VERSO L'OSCAR

Sarà Terraferma di Emanuele Crialese, Premio Speciale della Giuria all'ultima Mostra del Cinema di Venezia, a rappresentare l'Italia agli Oscar 2011 nella categoria del miglior film straniero. Lo ha stabilito questa mattina la Commissione Selezionatrice dell'ANICA e dunque, da oggi, il film inizia la lunga e difficile corsa verso il premio cinematografico più ambito.

 Non sarà facile, perchè ormai anche il cinema è 'globalizzato' e ogni anno ci sono (per fortuna!) tantissimi titoli importanti provenienti da tutto il mondo a contendersi la prestigiosa statuetta. Una volta la lotta per l'Oscar come 'miglior film in lingua originale' (questa la dizione 'ufficiale') era circoscritta tra noi, i francesi, gli spagnoli e gli svedesi (che avevano Bergman). Oggi invece le frontiere si sono davvero allargate e negli ultimi anni abbiamo visto premiare film di molte cinematografie ritenute erroneamente 'minori' ma certo vitalissime (Austria, Danimarca, Sudafrica, Olanda...). Meglio davvero così!
Emanuele Crialese

Ma, a prescindere da questo, la domanda (ovvia) è: Terraferma era davvero il miglior candidato possibile per rappresentare il nostro paese? Difficile dirlo, anche perchè le 'logiche' e i gusti hollywoodiani spesso sono molto, molto distanti dai nostri, e quindi è sempre un terno al lotto individuare i film che potrebbero funzionare bene oltreoceano e scaldare i cuori dei giurati dell'Academy. Tuttavia, lo dico qui adesso sperando ovviamente di sbagliarmi, a me la scelta di Terraferma non convince. E vi spiego perchè.

Il primo motivo è di natura squisitamente artistica. Terraferma non è certamente il miglior film italiano dell'anno, nel modo più assoluto. E non è nemmeno il miglior film di Crialese. Inutile girarci intorno: il premio 'veneziano' è stato attribuito soltanto per ragioni politiche (la Rai, presente in forze al Lido, doveva pur vincere qualcosa) ma gli applausi degli addetti ai lavori sono stati abbastanza fiacchi. E, per contro, nemmeno nelle sale il film ha fatto sfracelli ai botteghini, lasciando gli spettatori piuttosto freddi. Crialese è un buon regista ma fa sempre lo stesso film, e questa volta se n'è accorto anche il pubblico.

Poi ci sono anche questioni di opportunità. Ergo, siamo davvero certi che Terraferma, aldilà dell'aspetto qualitativo, ha le carte in regola per piacere agli americani? Mah... oltreoceano le storie di emigranti non hanno mai fatto particolare impressione all'Academy. Lo stesso Crialese quattro anni fa ci provò con Nuovomondo (anch'esso premiato a Venezia e, per inciso, molto più bello di Terraferma) ma non arrivò nemmeno alla nomination. Stesso discorso nel 1994 per Lamerica di Gianni Amelio. Agli Oscar funzionano le storie di respiro universale, che possono essere comprese a ogni latitudine, privilegiando l'aspetto poetico e melodrammatico. Ne abbiamo avuto esempio negli ultimi anni con, vado a memoria, il bellissimo Departures (giapponese), il thriller Il segreto dei suoi occhi (argentino), il commovente Le vite degli altri (tedesco), il fantasioso La tigre e il dragone (cinese)... difficile che una tematica strettamente nazionale sfondi a Hollywood. Vedremo.
'Habemus papam', di Nanni Moretti

Per questo, a mio modestissimo parere, Habemus Papam era il nostro candidato ideale: una storia semplicissima e originale, leggera ma non scontata, comprensibile a tutti e diretta da un cineasta che, inutile negarlo, ha un 'peso' politico e artistico molto maggiore di quello di Crialese. Anche questo conta purtroppo. Oppure si poteva tentare la strada impervia ma coraggiosa di puntare sulla qualità con Noi Credevamo (il miglior film italiano dell'ultimo decennio), oppure ancora tentare la strada del film di genere con Vallanzasca (che secondo me agli americani sarebbe piaciuto tantissimo).
'La vita è bella' di Roberto Benigni

Invece si è preferito ancora una volta affidarsi agli stereotipi tutti italici come 'mare, sole, vacanze e mandolini...', presumendo che Terraferma, avendoceli tutti, potesse essere il candidato buono. Anche se ormai è risaputo che neanche il più retrogrado dei giurati dell'Academy inquadra gli italiani in questo modo. Ma magari mi sbaglio, e a febbraio Crialese salirà trionfante i gradini del Kodak Teahtre per stringere quel premio che ci manca ormai dal 1999 (l'anno de La vita è bella).
Sarà difficile, ma ci speriamo.

domenica 25 settembre 2011

LA PELLE CHE ABITO (Spagna, 2011) di Pedro Almodòvar

Almodòvar sta invecchiando bene, e questo non può che rallegrarci: ha ormai superato da tempo la sessantina e va verso il ventesimo film, ma a differenza di altri suoi illustri colleghi sazi e inariditi, che 'vegetano' professionalmente facendo sempre lo stesso film, il regista spagnolo dimostra di aver ancora tanta voglia, spirito e dedizione verso la sua illustre 'professione'...

Ne è prova evidente il suo ultimo film, La pelle che abito, presentato con successo a Cannes e ora arrivato (finalmente) anche nelle nostre sale. Una pellicola sorprendente, che ci svela un Almodòvar inedito, rigoroso, compassato, asciutto, capace di contenere al minimo gli aspetti grotteschi e romantici tipici della sua filmografia per realizzare un'opera 'di genere', dura, sgradevole, con pochi fronzoli e di gran presa sullo spettatore.

Quasi come un emulo dell'ultimo Eastwood infatti, Almodòvar imbastisce una trama 'classicamente' noir, azzerando completamente la componente romantica tipica di tanti suoi successi per costruire invece una storia disturbante e ben poco passionale, incentrata sull' ossessione e la vendetta, dove nessuno dei personaggi è totalmente buono o cattivo e, soprattutto, non ha un briciolo di sensualità capace di scaldare i cuori di chi guarda. E' un Almodòvar disilluso, cinico, che getta uno sguardo doloroso e impietoso sul nostro tempo e sul nostro modo di essere, dove ognuno di noi, 'sottopelle', pensa di poter disporre a proprio piacimento (e sentendosi nel giusto!) della vita degli altri.

Volutamente, non vi dirò niente sulla trama del film perchè sarebbe un vero delitto svelare anche un solo, piccolo particolare. Vi basti sapere però che la vicenda è complicatissima e che il continuo gioco di flashback e di rimandi presenti in tutta la pellicola alla fine si chiude alla perfezione, confermando ancora una volta Almodòvar come uno dei più grandi sceneggiatori del pianeta, capace di rendere entusiasmante e quasi 'plausibile' un soggetto assolutamente stravagante e grottesco: unico retaggio, forse, dell' Almodòvar che conosciamo. Splendide anche le prestazioni degli interpreti, molti dei quali ormai attori-feticcio del regista (da Antonio Banderas a Marisa Paredès), con qualche convincentissima new-entry: e qui la menzione d'onore va alla bellissima Elena Anaya, la vera... donna che visse due volte (vedere per credere!).

VOTO: ****

domenica 18 settembre 2011

VENEZIA 68: VINCE SOKUROV, ONORE AL MERITO

Alexander Sokurov






Onore al merito. La più bella Mostra degli ultimi anni ha fortunatamente un degno vincitore, capace una volta tanto di mettere tutti d'accordo: sulla vittoria di Alexander Sokurov, infatti, non possono esserci dubbi. Il suo Faust è un film monumentale, che sfiora la perfezione, incredibilmente accurato dal punto di vista dei particolari, capace di ipnotizzare lo spettatore con tecniche filmiche e invenzioni visive assolutamente fuori del comune. Certo Sokurov non è un regista 'facile' e certi aspetti dei suoi film rischiano di sfuggire all' 'umana comprensione' (specie in questo caso, in quanto è il film è filologicamente ispirato all'opera di Goethe, e se non la si conosce a fondo è difficile seguirlo... per questo non l'ho recensito). Tanto di cappello comunque al cineasta russo, finalmente premiato dopo una lunghissima carriera.

Johnnie To
Molti comunque i titoli meritevoli in questo 68. concorso, a cominciare dal mio personalissimo Leone d'Oro, vale a dire Life without principle dell'hongkonghese Johnnie To, uno spietato e avvincente thriller sull'ingordigia umana, i cui protagonisti sono... una valigia piena di soldi e la situazione economica mondiale (vedere per credere!). Niente da dire anche su Carnage (un manuale di recitazione con quattro grandissimi attori, tutti meritevoli di premio. Ma forse è giusto che la Mostra premi nomi nuovi e non pluripremiati, come vedremo in seguito), e pure su Killer Joe (poliziesco strampalato dell'arzillo 76enne William Friedkin) e Dark Horse del sempre interessante Todd Solondz, il Kaurismaki americano.  Buono ma non eccezionale a mio avviso A dangerous method di Cronenberg: molto 'leccato' e convenzionale, insolitamente direi per questo regista. Standing ovation invece per George Clooney e le sue Idi di Marzo,  direi il miglior compromesso tra cinema di qualità e cinema commerciale, e la migliore risposta a chi dice che le due categorie sono 'inconciliabili'.

Michael Fassbender
E non male nemmeno Shame, annunciato film-scandalo, estremo, sgradevole, certamente imperfetto ma di certo non banale, con un bravissimo Michael Fassbender a cui è andata meritatamente la Coppa Volpi per il miglior attore.  Poche parole invece sui due film cinesi premiati, A simple life e People mountain, people sea: non avendoli visti posso dire poco, se non che la Cina sia da sempre un  vecchio pallino di Muller, capace ogni anno di scovare pellicole interessanti e originali nell'immenso paese del dragone.  Insomma, a conti fatti l'unica vera 'ciofeca' del Concorso è stata la 'fine del mondo' in chiave new-age firmata da Abel Ferrara: 4:44 last day on earth è una pellicola al limite del ridicolo, un pasticciaccio autoriale di pessimo gusto, passato giustamente inosservato da giuria, critica e pubblico.

Ermanno Olmi
Le dolenti note arrivano, come al solito, dalla pattuglia italiana: escluso il 'toscanaccio' Gipi, che ha portato al Lido un film stralunato e surreale (L'ultimo terrestre), grottesco ma profondo e genuino pur se imperfetto, il bilancio della selezione nostrana è poco confortante. Non deve ingannare infatti il Premio della Giuria assegnato a Terraferma di Emanuele Crialese, riconoscimento 'politico' e oggettivamente esagerato, voluto per 'ragion di Stato (a Venezia va così...). Crialese fa sempre lo stesso film, e pur essendo ovviamente contenti per lui non sarà certo una statuetta a convincerci del contrario...
Decisamente deludente anche Quando la notte di Francesca Comencini, film che fa quasi rabbia perchè non mantiene le attese! Ad una prima parte, infatti, davvero interessante e avvincente fa da contraltare un epilogo ingardabile, con una love-story tra Timi e la Pandolfi così posticcia da risultare imbarazzante, studiata evidenemente solo per fini commerciali. E certo non aiuta il nostro cinema constatare che, seppur fuori concorso, il miglior film italiano è stato realizzato dall' ottantenne Ermanno Olmi (folgorante il suo ritorno al Lido con Il villaggio di cartone).

Marco Muller
Alla fine però va detto che il vero vincitore della rassegna è stato indiscutibilmente... proprio Marco Muller! Che ancora una volta ha messo in piedi una Mostra interessante e variegata, di ottimo livello qualitativo, senza dubbio una delle migliori alle quali abbia mai assistito. Una 'leggenda metropolitana' sostiene che il cartellone di Venezia e quello di Cannes siano legati da un filo indissolubile, ossia che se  a Cannes c'è, come suol dirsi, 'un bel cast', la Mostra sia povera e viceversa. E invece quest'anno, malgrado la presenza sulla Croisette di gente come Malick, Almodovar, Von Trier, Kaurismaki, i Dardenne, nonchè i nostri Moretti e Sorrentino... e malgrado la concorrenza dura di rassegne vicine temporalmente come Toronto e Locarno (per non parlare della Festa di Roma), al Lido si sono visti film belli e destinati a lasciare il segno. Quest'anno il mandato di Muller è in scadenza, e tutti noi incrociamo le dita...

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sabato 17 settembre 2011

L'ULTIMO TERRESTRE (Italia, 2011) di Gian Alfonso Pacinotti (Gipi)

Per una volta gli alieni sbarcano in Italia, anche se sono identici a quelli di Spielberg. E, sorpresa!, non vogliono nè conquistarci nè sterminarci, semmai farci diventare un po' più buoni e un po' più 'normali'... Sì, perchè nel film d'esordio del fumettista toscano Gian Alfonso Pacinotti (in arte Gipi), gli italiani non fanno proprio una gran bella figura: sono egoisti, cinici, superficiali, puttanieri, incapaci di coltivare qualsiasi rapporto umano. Tutti, tranne uno: il protagonista del film, un' anima candida, semplice, un 'idiot-savant' dal cuore d'oro, che abita in un monolocale privo di qualsiasi arredo in uno squallido condominio di provincia, ai margini del mondo. E non ci vuole molto a capire che è lui il vero 'alieno' di questa storia, l'unico che non ha paura degli strani esseri piovuti dal cielo, che certo non possono essere più 'dannosi' delle persone che gli stanno intorno...

L'Ultimo Terrestre è un film bizzarro, un po' folle, stralunato e inclassificabile, proprio come il suo regista che nei meandri della Mostra del Cinema si aggirava (appunto) come un marziano.  E' una pellicola tenera e nello stesso tempo molto amara, con momenti di grande ilarità alternati a scene disturbanti e apocalittiche, dalle quali si può trarre una lettura chiara e nient'affatto rassicurante: le persone semplici, timide e sensibili non trovano posto in questo mondo dominato dal qualunquismo e dalla voglia di primeggiare a ogni costo. Chi non è capace di 'mostrarsi' e rifugge i canoni di una società misera e arrivista è considerato un 'diverso', un emarginato, una persona da mettere all'angolo e degnare al massimo di uno sguardo compassionevole.

Eppure c'è bisogno soprattutto di queste persone per salvare il salvabile, le uniche in grado di capire che solo ripartendo dall'umiltà e dal rispetto per gli altri si può costruire un mondo migliore. Ma forse solo un'entità superiore può condurci sulla retta via, basta perlomeno riuscire a vederla...  

VOTO: ***

sabato 10 settembre 2011

LIFE WHITHOUT PRINCIPLE (Hong Kong, 2011) di Johnnie To

Un ispettore di polizia onesto e ligio al dovere si trova improvvisamente a corto di denaro perchè la moglie ha speso una fortuna per la caparra di appartamento di lusso che non può permettersi. Un delinquentello di mezza tacca cerca di guadagnare, giocando in borsa, i soldi necessari al pagamento della cauzione del boss mafioso locale. Un'impiegata di banca, per mantenere il posto di lavoro, è costretta a vendere prodotti finanziari rischiosissimi a persone anziane e sprovvedute. Tre storie di ordinario squallore nella Hong Kong di oggi, dove ognuno dei tre personaggi ha uno smodato bisogno di soldi. A fare da collante, una valigia con cinque milioni di dollari di denaro sporco, che cambia continuamente padrone...

A quasi novant'anni di distanza dall'epico Greed, il capolavoro 'maledetto' firmato da Erich Von Stroheim, un regista asiatico torna a girare uno spaccato di grande efficacia e di spaventosa attualità sulla cupidigia umana, dirigendo uno straordinario thriller che ha come sfondo il mondo deviato e malato della finanza e della speculazione internazionale, che costringe non solo i delinquenti ma anche persone oneste e ordinarie, apparente irreprensibili, a rinunciare a qualsiasi principio morale (ecco il significato del titolo) pur di guadagnare più soldi possibile, a scapito della povera gente, solo per mantenere un posto nella scala sociale.
La valigia piena di contanti, vera protagonista del film, passa di mano in mano, lasciandosi dietro una scia di sangue e finendo nel posto più impensato possibile, cambiando il destino (nel bene e nel male) di tutti quelli che la intercettano. Alla fine, però, nessuno potrà ritenersi davvero 'pulito' e immune al cospetto del dio denaro.

Diavolo di un Marco Muller! Mentre tutti noi appassionati stavamo già a sfogliare la rosa dei candidati al Leone d'oro, ecco che proprio l'ultimo film in concorso, proiettato a notte fonda in una Sala Grande semivuota, si candida più che autorelvolmente al premio più ambito. Non sappiamo se l'americano Aronofski, presidente di giuria e regista 'onirico' e concettuale, terrà nella dovuta considerazione questo capolavoro... fosse per noi, non ci sarebbero davvero dubbi: Life without principle è il film che più ci ha colpito e emozionato, seppure mettendoci clamorosamente a disagio. Con buona pace di Oliver Stone, è il vero Wall Street del nostro tempo: Johnnie To ha costruito una pellicola magistrale, di impressionante drammaticità e dall'impeccabile contenuto tecnico e stilistico, che occhieggia furbescamente ai grandi classici del passato. Inevitabile, infatti, non pensare a Rapina a mano armata. Solo che qui, al posto delle pistole, ci sono le banche  ... il mondo cambia, non necessariamente in meglio.

VOTO: ***** 

KILLER JOE (USA, 2011) di William Friedkin

Se Killer Joe fosse stato in Concorso a Venezia lo scorso anno, con Tarantino presidente di giuria, credo che le sue quotazioni per il Leone d'Oro sarebbero state altissime. Quest'anno magari un po' meno, ma quello che conta è che il 76enne regista americano, decano del gangster-movie a stelle e strisce (ricordiamo che sono suoi capolavori del genere quali Il braccio violento della legge e Vivere e morire a Los Angeles) è ancora perfettamente lucido e in palla, e questo Killer Joe può essere considerato un allegro 'divertissement', impossibile da prendere sul serio ma esilarante per chi lo guarda: una vera goduria!

Friedkin infatti abbandona la drammaticità e la butta sul nonsense, dirigendo un poliziesco strampalato e volutamente 'caciarone', grottesco ma divertentissimo, con personaggi che ricordano molto, perlappunto, quelli 'tarantiniani'. Nel senso, per capirci, che non c'è uno che abbia tutte le rotelle al suo posto: a cominciare proprio da Killer Joe, un poliziotto 'sui generis' che per arrotondare lo stipendio si diletta nel tempo libero a fare il sicario... Costui (interpretato da un Matthew McConaughey 'stranamente' bravino) riceve un offerta da una famiglia di balordi per eliminare l'ex-moglie del patriarca e riscuotere il denaro dell'assicurazione sulla vita.
Naturalmente niente andrà come deve andare: Killer Joe esegue alla perfezione il suo compito, ma riscuotere il denaro sarà più difficile del previsto. E allora, come 'deposito cauzionale', il nostro è intenzionato a mettere le mani (in tutti i sensi) sulla figlia minore del mandatario, una biondina decerebrata ma indubbiamente carinissima...

Ma, aldilà dell'aspetto goliardico, il film è un'amara istantanea sull'America dei bassifondi, delle roulottes trasformate in case, della gente ignorante e senza speranza che ormai è parte cospicua della popolazione a stelle e strisce. Friedkin si è sicuramente divertito molto a girarlo, ma il suo sguardo feroce, sarcastico e inevitabilmente pessimista sul'americano medio è evidente e intatto.

VOTO: ***

giovedì 8 settembre 2011

QUANDO LA NOTTE (Italia,2011) di Cristina Comencini

Ci sono film che talvolta ti fanno proprio arrabbiare. Non tanto perchè sono brutti, ma per come potevano essere e come invece sono diventati. Specie se l'imbruttimento è dovuto a logiche commerciali che non vorremmo mai vedere, almeno a una Mostra del cinema. Ecco, Quando la notte, il nuovo lungometraggio di Cristina Comencini, in concorso a Venezia, fa parte di questa categoria. E lo dico con profondo rammarico perchè, proprio il sottoscritto che non ha mai amato troppo questa regista, all'inizio stava quasi per ricredersi, salvo poi...

Andiamo con ordine: Quando la notte è un film che comincia benissimo, si sviluppa benino, e naufraga clamorosamente nel finale. L'inizio è davvero dirompente: l'idea di base è ottima, e si capisce bene che è un tema che alla regista sta molto a cuore, tanto da risultare veramente bello, sconvolgente e 'sentito'.
Si parla della difficoltà di essere madre, della paura di mettere al mondo un figlio e di non ritenersi all'altezza del compito. Una giovane donna (Claudia Pandolfi) si reca in vacanza in un minuscolo paesino di montagna, in compagnia solo del suo bambino. Il marito è lontano, il posto isolato e bellissimo, forse fin troppo incantevole e tranquillo, di un silenzio assordante. La ragazza è caratterialmente fragile e insicura, pur se amorevole e materna. Ma il bimbo è nervoso, irrequieto, respira male e piange in continuazione, a ogni ora del giorno e della notte. La mamma cerca in tutti i modi di calmarlo, con scarsi risultati. E rischiando l'esaurimento nervoso.
Finchè una notte...

Se il racconto proseguisse su questo piano, il film poteva essere un magnifico psico-thriller. E invece ecco che nella seconda parte arriva quello che mai avremmo voluto vedere. La donna (non vi diciamo come e perchè)prende una cotta disperata per un guardiaboschi rude, 'selvaggio', timido e molto problematico (parte che si addice a Filippo Timi come a me quella di James Dean in 'Gioventù  Bruciata'... dispiace per  il 'povero' Timi, attore interessantissimo). Una storia d'amore posticcia, fasulla e assolutamente non credibile, che fa prendere al film una deriva melò da renderlo stucchevole e melenso. E non ci vuole molto a capire che è stata, con ogni probabilità, una scelta imposta dalla produzione per fini esclusivamente commerciali. 

Un vero peccato, perchè un soggetto del genere meritava più rispetto. E poteva venirne fuori una storia di quelle 'universali', che funzionano a tutte le latitudini e che mancano come il pane al cinema italiano. Tutto questo per un pugno di spettatori in più... in nome di una certa ottusità di vedute che, purtroppo, non è prerogativa solo del nostro cinema.

VOTO: **

4:44 LAST DAY ON EARTH (USA, 2011) di Abel Ferrara

'Un brutto film, se è anche d'autore, è mille volte più brutto". Non ricordo chi ha pronunciato in passato questa frase, ma chiunque sia stato aveva maledettamente ragione! E' vero: ci sono registi famosi che, una volta esaurita la fase creativa (per carità...è umano, può succedere, e non c'è niente di male) rifiutano di arrendersi all'evidenza e sfornano opere di una tale bruttezza che, se a dirigerle fosse stato un esordiente, lo avremmo rincorso per prenderlo a calci. E invece, di fronte a certe eminenze grigie (grigie solo per mancanza di idee, beninteso) si nota sempre una certa pietosa, stucchevole indulgenza: quasi fosse un peccato di lesa maestà parlarne male... un po' come quando dovete dire a un anziano che non è più in grado di fare certe cose ma, per affetto o remissione, non trovate il coraggio di farlo.

Veniamo al punto: lo avrete capito, 4:44 last day on earth, l'ultimo film di Abel Ferrara, è una ciofeca clamorosa. Il film più irritante e imbarazzante visto qui al Lido, 'catastrofico' in tutti i sensi e talmente carico di comicità involontaria da riabilitare, addirittura, il film di Garrel con la Bellucci (è tutto dire...). L'argomento è di quelli non proprio originalissimi: si parla della fine del mondo. Esattamente dell'ultima notte dell'umanità... secondo Ferrara, infatti, la Terra finirà di esistere esattamente alle 4:44 di un mercoledì notte, non un secondo di più, nè uno di meno. Come? Ovvio, a seguito della classica 'catastrofe ecologica' che causerà per quell'ora una terrificante esplosione che cancellerà il nostro pianeta dalla Galassia. Ovviamente non si sa nè come nè perchè, anche perchè fuori è tutto tranquillamente normale. Non c'è assolutamente niente fuori posto, il traffico di New York scorre regolare, case, animali e piante sono sempre lì, la gente si prepara ad affrontare  l'Apocalisse come se stesse per andare in ufficio...

E voi invece come vi sentireste se foste proprietari di un loft a Manhattan, condiviso con la vostra dolce e tenera mogliettina, ad aspettare la fine del mondo? (ovviamente la fanciulla è bellissima, ha velleità artistiche ed è, chiaramente, molto, molto più giovane di voi). Che cosa fareste? Come 'ingannereste' il tempo in attesa dell'ora fatale? Ovvio! Scopando come ricci, dipingendo quadri astratti, mangiando cibo cinese, guardando la tv, magari andando a salutare i vicini di casa che, per ringraziarvi della visita, vi regalano pure qualche bella pista di cocaina...

Vi pare impossibile? Non ci credete? Eppure è tutto terribilmente vero! In questo inimmaginabile pastrocchio Abel Ferrara vuole davvero spiegarci che il destino è ineluttabile (che scoperta!) e che dobbiamo accettarlo serenamente e con metodo zen (non a caso la coppia di protagonisti è buddista praticante). Meglio se abbracciati teneramente al proprio compagno stesi sul pavimento a copulare... certo che sarebbe davvero il sogno di tanti! Impossibile, insomma, prendere sul serio una roba del genere. E dispiace che a ridursi così in basso sia un regista 'di culto' ancora amatissimo da intere generazioni di cinefili.
Ma, caro Abel, se la pietà non si nega a nessuno, la pazienza sì. Qualcuno gli dica di smettere.

VOTO: *

IL VILLAGGIO DI CARTONE (Italia, 2011) di Ermanno Olmi

Dio benedica Ermanno Olmi. E, dato che tanto non ci sente e non ci legge, siano benedetti anche i suoi acciacchi e la sua vecchiaia (scherzo, ovviamente!). Molti anni fa, felicemente guarito da una grave malattia, il regista bergamasco scrisse e diresse La leggenda del santo bevitore, fu il suo modo di far capire che era tornato alla vita. Oggi, dopo aver annunciato da tempo il suo ritiro dalle scene, complice una banale caduta da letto che lo ha immobilizzato per due mesi e lo ha 'costretto', per non impazzire (dice lui) a scrivere una nuova sceneggiatura, il 'grande vecchio' del cinema italiano torna con un film nuovo di zecca. Un ennesimo piccolo miracolo, raro e prezioso.

Il villaggio di cartone inizia con un vecchio prete, malfermo e spaurito, che viene portato via a forza mentre sta cercando di officiare la Messa: la chiesa infatti è stata sconsacrata, e i facchini smontano e portano via tutte le suppellettili, compreso il grande crocifisso di legno che viene sganciato dal soffitto. L'edificio resta così desolatamente vuoto, buio e triste, occupato solo dal suo unico ospite. Ma lo sarà per poco... perchè durante la notte un gruppo di immigrati clandestini si rifugia all'interno della chiesa e vi si stabilisce, creando una piccola, precaria comunità. Ed ecco, dunque, compiersi il miracolo: quello spazio vuoto di colpo torna a riempirsi di vita, e quelle persone tornano a ridare un senso a quelle pareti, che ora assurgono di nuovo alla loro funzione originaria: l'ospitalità.

Anche l'anziano sacerdote, con le ultime forze che gli rimangono, riacquista una propria personale dignità e anche una nuova ragione di vita, a cui terrà fede fino alla fine, infischiandosene delle assurde e inumane leggi sull'immigrazione, indegne di un paese civile, e dell'ottusità con le quali vengono fatte rispettare (argomento questo trattato anche da Emanuele Crialese in Terraferma, segno evidente che quest'anno alla Mostra le tematiche sull'immigrazione e la tolleranza non erano certo casuali. Per fortuna, verrebbe da dire).

Il villaggio di cartone è una tenerissima favola moderna, narrata sotto forma di parabola cristiana, in un linguaggio volutamente semplice, quasi naif, con parole chiare e dirette allo scopo affinchè tutti capiscano. E' un film, appunto, sulla cristianità, intesa non tanto come appartenenza a una religione, ma nel senso più ampio del termine: vale a dire sul diritto all'accoglienza, alla pietà, al rispetto per chi è meno fortunato. Ed è anche, nemmeno troppo velatamente, un duro attacco alla Chiesa Cattolica e alla suo progressivo e inesorabile scollamento con la realtà, vale a dire con i fedeli, che non vi si riconoscono più. La Chiesa di oggi, dice Olmi, è come quell'edificio vuoto e abbandonato, senza nemmeno il crocifisso: solo tornando a parlare con la gente si riempirà di nuovo, e occorre farlo da subito. Come ha detto lo stesso regista in conferenza stampa, "Se non apriamo le nostre case, compresa la casa più intima, che è il nostro animo, siamo solo uomini di cartone".
Grazie, maestro.

VOTO: ****

mercoledì 7 settembre 2011

DARK HORSE (USA, 2011) di Todd Solondz

Con un po' di sana irriverenza, non è blasfemo considerare Todd Solondz il Kaurismaki americano. Da anni infatti ci regala ad ogni film storie di ordinaria diversità e emarginazione: i personaggi  dei suoi film sono uomini e donne ai confini della società, grotteschi, stralunati, talvolta odiosi, ma comunque degni un posto nel mondo. E invece il più delle volte questi uomini e donne appaiono 'invisibili' ai più, come oggetti misteriosi, alieni, ingiustamente dimenticati. Esattamente come Abe, il protagonista di Dark Horse, in concorso a Venezia e salutato con lunghi applausi da parte di pubblico e critica. Abe è un omone grande e grosso afflitto dalla sindrome di Peter Pan: è infantile, indolente, colleziona fumetti e giocattoli, vive ancora con i genitori (che lo considerano un ritardato  buono a nulla) , passa le proprie giornate nella sua cameretta da adolescente  èd è  apparentemente incapace di qualunque relazione sociale...  

Già,apparentemente. Perchè ogni persona ha un lato umano, anche il peggior inetto, delinquente o disadattato che sia. E troppe volte la nostra cultura dell'apparenza ce lo fa dimenticare. Abe è innamorato di Miranda, una bellissima ragazza incontrata per caso a un matrimonio: lei è malata, depressa, irrealizzata. Ogni suo progetto futuro è andato in fumo e non trova più alcuna ragione per sopravvivere. Ovviamente disprezza Abe, e non si premura neanche di nasconderglielo: ma la disperazione e la tragica mancanza di alternative la spingono ad accettare la sua proposta di matrimonio. Ma Solondz non racconta favole, si limita ad osservare le persone, o meglio un certo tipo di persone. E questa storia finirà come deve finire... al netto di qualche sorpresa.

Dark Horse è un film spiazzante, anche (soprattutto) per i fan del regista, che all'inizio stentano a riconoscere il suo tocco in quest'opera che, seppur tragicamente, dapprima strappa non poche risate per sarcasmo e humor nero. Salvo poi, a poco a poco, ritornare nei binari consoni e farci amaramente riflettere su quanto sia difficile (per tutti!) ritagliarsi uno spazio in mezzo alla 'normalità' . Magari non vincerà il Leone d'Oro, ma potete star certi che questo piccolo film vi scuoterà almeno un pochino, e forse una volta usciti dal cinema guarderete il mondo con occhi diversi.

VOTO: ****

WUTHERING HEIGHTS (GB, 2011) di Andrea Arnold

Quando si decide di portare sul grande schermo l'ennesima versione di un grande classico della letteratura, generalmente si hanno a disposizione due possibilità: o lo si re-interpreta ex-novo, rivoltandolo come un calzino, 'stravolgendolo' temporalmente e adattandolo al nuovo contesto (ne è un mirabile esempio, per dire, il Romeo e Giulietta di Baz Luhrmann), oppure ci si addentra nella strada più accidentata, cioè quella di rispettare il testo letterario e cercare di tirarne fuori una versione 'classica' che però non sia 'già vista' ancor prima di iniziare.

Esattamente come nel caso di quest'ultimo nuovo adattamento di Cime Tempestose: la regista inglese Andrea Arnold sceglie coraggiosamente la seconda ipotesi, cimentandosi in un'opera che fu già in passato pane per i loro denti anche per Luis Bunuel e William Wyler. E lo fa cercando effettivamente di dare un tocco personale al film: chi scrive ricorda di aver apprezzato la Arnold nel suo precedente lavoro, il duro Fish Tank (storia di un'adolescente indigente e  ribelle che sogna di sfondare nella danza), e bisogna dire che anche in questa rilettura del classico di Emily Bronte, il proprio stile 'impetuoso' e senza fronzoli viene indubbiamente fuori: le figure di Heathcliff e Catherine sono personaggi carnali, violenti, tumultuosi, quasi 'selvaggi': azzeccata la scelta far interpretare il personaggio di Heathcliff a un attore di colore, in modo da accentuare ancora di più le differenze e le disparità sociali dell'epoca e, indirettamente, anche del presente...

Detto questo, però, le qualità del film si fermano purtroppo qui. Tutto il resto delude, e neanche poco: intanto per la durata-fiume della pellicola: due ore e dieci minuti per rappresentare poco più di metà del libro (la storia si chiude dopo la morte di Hindley, con Heathcliff che eredita la tenuta), semplicemente interminabili causa lo scarso ritmo impresso alla narrazione, che troppo spesso indugia in inquadrature contemplative e meramente autoreferenziali. Quasi irritante infatti il taglio didascalico e manieristico del film, che non appassiona mai e che troppo spesso ti costringe a guardare l'orologio. Ma la cosa più grave, a nostro modestissimo parere, sono le scelte di casting totalmente sbagliate, in particolar modo nei due attori principali: oggettivamente davvero scarsi (parlo di Heathcliff e Catherine adulti), a livello di fiction televisiva. Quasi comica poi la 'trasformazione' di Catherine da adolescente a adulta: la vediamo da piccola mora, paffutella e indomita, un vero maschiaccio (come dev'essere) e la ritroviamo, pochi anni dopo, biondissima, sottomessa e magra come un grissino... ma davvero non c'era di meglio?

VOTO: **

martedì 6 settembre 2011

QUESTA STORIA QUA (Italia, 2011) di Alessandro Paris e Sibylle Righetti

Premessa doverosa: chi scrive non è un fan di Vasco Rossi, pur apprezzandolo e stimandolo come artista. E per questo mi sento molto tranquillo e per niente condizionato nell'affermare che Questa storia qua, il suo documentario-biografia realizzato dai giovanissimi registi Alessandro ParisSibylle Righetti, è stata per adesso la più bella emozione di questa prima metà della Mostra.

Vasco infatti è riuscito in un'impresa non facile: ha 'umanizzato' la platea di Venezia, 'costringendo' il pubblico degli addetti ai lavori, per una volta, a 'dimenticarsi' di essere a un festival del cinema e a partecipare attivamente ad un grande evento corale, una festa, un'esperienza difficilmente ripetibile e paragonabile a una rassegna come questa. In una Sala Darsena gremita, si sono infatti 'confrontati' due tipi molto diversi di spettatori: da una parte i fan di Vasco (molti dei quali arrivati in massa direttamente da Zocca), dall'altra la platea di cinefili, gli abituali frequentatori del Lido. Logico che questi ultimi abbiano registrato una certa iniziale diffidenza, per non dire 'insofferenza', verso una fetta di pubblico non canonico e non esattamente 'rispettoso' del bon-ton festivaliero: durante la proiezione applausi, risate, urla, cori, lacrime si sono sprecate...

Ma poi, man mano che le immagini di repertorio si susseguivano sullo schermo (alcune davvero intime e rarissime), accompagnate ora dalle canzoni, ora dalla viva voce del protagonista, ecco che il 'miracolo' si è compiuto: tutta la sala si è 'adeguata' all'atmosfera dell'evento (perchè di questo bisogna parlare), capendo che QUELLO era l'unico modo di assistere al film, e finendo per lasciarsi coinvolgere e trasportare dal fiume di immagini e di emozioni che ha contagiato TUTTI quanti gli spettatori, dal primo fino all'ultimo, che alla fine hanno tributato un lungo applauso a quest'opera bellissima e inclassificabile, commovente e personale, emozionante e, soprattutto, umana.

E' un Vasco, infatti, sorprendentemente intimo e sensibile quello che vediamo durante i 75 minuti di pellicola. Un Vasco malinconico, scherzoso, quasi 'crepuscolare', che ricorda ed elogia un passato e un mondo che da tempo non gli appartiene più: quello dell'infanzia e degli amici perduti, qualcuno dei quali se n'è andato maledettamente troppo presto (Massimo Riva), quello delle radio libere, delle feste di paese, dei momenti di svago in un posto 'fuori dal mondo', dove 'non c'era molta cultura ma dove l'isolamento ti costringeva a stringere rapporti con tutti'. Un Vasco nostalgico, che si rifugia a Los Angeles per registrare in santa pace e, soprattutto, perchè nessuno lo riconosce e può andare a fare la spesa al supermercato, sentirsi finalmente una persona 'normale'...

Questa storia qua funziona perchè non ritrae il suo protagonista negli stadi, al culmine del successo e circondato da folle oceaniche. Ci mostra invece il lato intimo del personaggio, lo mette a nudo, ci fa apprezzare la sua semplicità e le sue manie, le sue paure e le sue dipendenze. Sembra quasi che Vasco diventi davvero 'uno di noi', che sia possibile toccarlo, abbracciarlo, spronarlo. Quando partono le note di 'Anima fragile' viene quasi un groppo alla gola, sembra che quella canzone riguardi proprio lui, lui stesso. Il film è toccante e rispettoso del pubblico, per nulla agiografico e felicemente 'pudico': Vasco parla al suo pubblico con la SUA voce, ma in questi momenti sullo schermo non compare mai, rimane timidamente in disparte, con l'umiltà e la consapevolezza di chi sa bene non c'è bisogno di 'apparire' ulteriormente... che quelle immagini bastano e avanzano per spiegare tutto.

Sia chiaro, nessuno vuol sostenere la tesi che Vasco sia un esempio da seguire, o un'icona da 'santificare'. Lui stesso sa di non esserlo e di sicuro non lo vuole. Però il Vasco che esce dal film è una persona che ha imparato a combattere, a non arrendersi, a inseguire caparbiamente un sogno per il quale sapeva di essere portato, a dispetto di tutti. Un uomo che ha trovato il coraggio di lottare, che ha saputo trovare il suo posto nel mondo.
Uno che spesso non è stato capito, che ha vissuto la sua Vita spericolata, e che ora non ha difficoltà a girarsi indietro.
Questa è la SUA storia. Bellissima.

VOTO: ****

SHAME (GB, 2011) di Steve McQueen

Curiose coincidenze cinefile: nel giorno della Mostra dedicato a Vasco Rossi, ecco che arriva in concorso un regista che di nome fa Steve McQueen (!) e porta sullo schermo un protagonista dalla vita... alquanto spericolata! E va detto che Shame (letteralmente 'vergogna') è finora il film più coraggioso visto al Lido, oltretutto anche abbastanza riuscito... cosa ardua per una pellicola del genere.

Shame è infatti il classico film-scandalo della rassegna veneziana. Intendiamoci, di film del genere ce ne sono un po' in tutti i festival, spesso vengono appositamente selezionati proprio per far parlare di sè e fare pubblicità gratuita anche alla manifestazione. Fin qui niente di strano. La differenza è che, mentre di solito questi film sono delle boiate pazzesche, inguardabili e spesso soporiferi (ottengono, cioè, esattamente l'effetto contrario di quello previsto), Shame è invece un'opera tutt'altro che disprezzabile. Certamente non memorabile ma sicuramente interessante.

Protagonista è il lanciatissimo Michael Fassbender, che interpreta un personaggio affetto da sesso-dipendenza. Una persona, cioè, per la quale il sesso è l'unico modo che ha per relazionarsi col mondo esterno. Una pratica di approccio e niente più, indice evidente di una solitudine nera e disperata. E di sesso in Shame se ne vede davvero tanto, per tutto il film, in continuazione: orale, anale, masturbatorio, a due, a tre, etero, omo, in qualsiasi ora e posizione. Così ampiamente mostrato da inculcare in chi lo guarda un senso di assuefazione e stanchezza, vale a dire esattamente quello che prova il protagonista, il quale si rende conto (e si vergogna, come dice il titolo) dello stato in cui si trova, ma non riesce a trattenersi dalla compulsiva voglia di scopare a tutti i costi... con chiunque capiti.

Brandon (questo il nome dell'uomo) trascorre le sue giornate nello squallore e nella freddezza del sesso a pagamento, senza trovare vie di uscita (terribili e strazianti ci appaiono i tentativi fatti per 'abbordare' in maniera più consona e 'delicata' una collega di lavoro, altrettanto terribile è la sequenza che ci mostra un'intera notte di depravazione per le strade newyorchesi...). Sarà l'arrivo della sorella Sally (la brava Carey Mulligan) a sconvolgere la sua esistenza, trascinandolo però ancor più verso gli inferi.
Film sgradevole e durissimo. Tipicamente da festival. Con cui Fassbender si candida prepotentemente alla Coppa Volpi come miglior attore. Probabilmente non lo vedremo mai in sala, e questo è un vero peccato. Però segnatevi il nome di McQueen (anche se di certo un nome così non lo scordate di sicuro).
Ne sentiremo parlare ancora. Garantito.

VOTO: ***

lunedì 5 settembre 2011

TERRAFERMA (Italia, 2011) di Emanuele Crialese

Ancora il mare. Ancora un'isola meravigliosa e non troppo 'contaminata' (la stessa di Respiro). Ancora una storia di immigrazione e solidarietà. Forse è vero quello che dicono i suoi detrattori: Crialese gira sempre lo stesso film, però lo fa con il cuore in mano, con trasporto e tanta passione, e di questo gliene va dato atto. Terraferma è il primo film italiano in concorso a Venezia, e va detto subito che gli applausi ricevuti alla proiezione ufficiale sono più che meritati. Certo, di sicuro il film non riesce a soprenderci, e la speranza di assistere a qualcosa di più originale risulta subito vanificata fin dalle prime inquadrature... però alla fine ci si commuove e si riflette, qualcuno si indigna pure e qualcun'altro manda a quel paese la legge Bossi-Fini. E allora, tutto sommato, va bene così!

Terraferma, dicevamo, è ancora una volta un film sul mare, elemento tanto affascinante quanto maledetto, essenziale nel cinema di Crialese. E il mare è ciò che accomuna le due donne protagoniste del film: una, Giulietta (Donatella Finocchiaro) è una giovane vedova cui gli abissi hanno inghiottito il marito pescatore. L'altra, Timnit, è un'immigrata clandestina che, come tante altre donne nella sua condizione, ha affrontato il viaggio della speranza verso l'occidente. Giulietta vuole andarsene dall'isola perchè dopo la morte del marito non riesce più a sopravvivere in un luogo che non offre niente per lei. Timnit, incinta, viene raccolta in mare dal figlio di Giulietta, Filippo (Filippo Pucillo) e grazie al suo aiuto riuscirà a partorire. Ed ecco che ai suoi occhi, invece, la piccola isola rappresenta la salvezza. Questione di punti di vista. Inutile dire che il destino delle due donne è legato allo stesso filo, e che dopo la normale diffidenza iniziale alla fine i principi di solidarietà e pietà avranno il sopravvento...

Il film si dipana veloce, tra paesaggi di rara bellezza e momenti crudeli e fortemente drammatici (le forze dell'ordine che applicano rigorosamente la legge in barba al buon senso, il vecchio pescatore che si mette in casa la donna clandestina sfidando la legge, i patetici tentativi degli animatori locali di 'nascondere' gli sbarchi per salvaguardare il turismo...). La posizione del regista sulla questione è chiara, e forse un po' troppo 'forzata' e stereotipata. Crialese sta con i deboli, con i migranti, con la gente del posto, orgogliosa e umana, che in un Paese sempre più miope e razzista si distingue, al contrario, per dignità e ospitalità. Ma lo fa senza alcuna retorica e senza cadere nel pietismo più facile, ed evitando di propinarci un finale sdolcinato e accomodante.
Per tutti questi motivi, Terraferma è un film da vedere. E pazienza se a volte si ha l'impressione di assistere a un dejavù.

VOTO: ***

domenica 4 settembre 2011

CARNAGE (USA, 2011) di Roman Polanski

Che cosa pensereste voi di un film che schieri (tutti insieme!) gente come Kate Winslet, Christoph Waltz, Jodie Foster e John C. Reilly. Oltretutto diretti da uno come Roman Polanski in cabina di regia? Ammettiamolo, non c'è storia: con un cast del genere è francamente impossibile restare delusi, e malgrado le alchimie e i sotterfugi che accompagnano tradizionalmente ogni verdetto veneziano, crediamo che il Leone d'Oro non possa prescindere da questo film. Se il risultato sarà diverso, probabilmente vorrà dire che la 'ragion di stato'  ha preteso altre regole che esulano dalla mera qualità artistica...

Ma veniamo a Carnage, che in originale significa 'massacro'. Il film è tratto da una nota pièce teatrale portata sui palcoscenici di tutto il mondo da Yasmina Reza (che qui ha collaborato alla sceneggiatura), chiamata Il Dio della Carneficina. Si parla di due coppie di genitori che si incontrano per cercare di capire cosa sia successo ai loro rispettivi figli, che mentre stavano giocando ai giardini pubblici sono venuti alle mani suonandosele di santa ragione. L'incontro dovrebbe essere 'chiarificatore' e 'pacificatore', preceduto dalle formali scuse di rito, a cui seguono colte elucubrazioni sul disagio minorile e la violenza latente negli adolescenti. Solo che, piano piano, i discorsi si fanno sempre più specifici e personali, fino a toccare corde tese e nervi scoperti delle due famiglie, e degenerando ben presto in una rissa senza quartiere che non lesina alcun colpo basso.

La morale è chiara: spesso e volentieri i genitori sono ben peggiori dei figli, e molti episodi di violenza cieca, apparentemente inspiegabili, potrebbero forse essere evitati se si sapesse qualcosa in più dei rapporti umani all'interno delle famiglie, parecchie volte tutt'altro che irreprensibili come appaiono all'esterno. Durante la discussione infatti accade di tutto: le due donne diventano delle belve assetate di sangue, i mariti sembrano coalizzarsi contro di loro in nome di un comico 'orgoglio maschile', i rispettivi matrimoni si riveleranno dei castelli di carte pronti ad essere spazzati via alla prima folata di vento, e alla fine tutti e quattro si ritroveranno, perlappunto, 'massacrati' e drammaticamente sconfitti: il Dio della Carneficina ha avuto inesorabilmente il sopravvento.

Il film scorre via che è una meraviglia, i 79 minuti scarsi di pellicola volano d'un fiato, tra battute sarcastiche e scene madri da ricordare. Polanski come un allenatore vecchio e saggio si limita a lasciar fare, e i quattro attori sembrano davvero nati per questo ruolo, non sembra nemmeno che recitino... Questa, mi viene da dire, è la grande differenza tra il nostro cinema e quello d'Oltreoceano: anche noi abbiamo registi e sceneggiatori che non hanno niente da invidiare a quelli di Hollywood quanto a inventiva e tecnica (anzi!). Difettiamo però, clamorosamente, a livello di interpreti: e vedendo Carnage è impossibile non rendersi conto dell'abisso che ci separa tra noi e loro. Le prestazioni di Waltz e Reilly sono semplicemente perfette. La Foster, come sempre, è una 'macchina da recitazione', quasi mostruosa nella sua bravura. La Winslet, osannata dalla critica, è forse l'unica che va un po' sopra le righe... ma è davvero un peccato venale per una pellicola che, alla fine, rasenta davvero la perfezione.

VOTO: *****