sabato 29 dicembre 2012

LOVE IS ALL YOU NEED

(id.)
di Susanne Bier (Danimarca, 2012)
con Pierce Brosnan, Trine Dyrholm, Molly B. Egelind, Sebastian Jessen
VOTO: **/5

Magari è vero che noi italiani siamo un po' troppo suscettibili e permalosetti quando gli stranieri speculano sui nostri luoghi comuni, però dobbiamo ammettere che se vediamo un film danese ambientato a Sorrento, con 'That's amore' di Dean Martin sparata a tutto volume ancora prima dei titoli di testa e decine di fermo immagine sui tramonti della Costiera ripetuti fino allo sfinimento... beh, forse è fisiologico avere qualche pregiudizio! Certo, Umberto Eco parlando di Casablanca affermava che 'due clichè fanno ridere, cento commuovono': però (purtroppo per lei) Susanne Bier non è Michael Curtiz, così come Pierce Brosnan non è Humphrey Bogart. Insomma, la differenza c'è, e si vede pure...

Intendiamoci, non è che questa commedia dichiaratamente romantica girata dalla regista premio Oscar per In un mondo migliore sia inguardabile, tutt'altro. Alla fine si tratta di un film godibile, e tutto sommato anche divertente. Il problema è che è terribilmente scontato, oltre che piuttosto modesto a livello di sceneggiatura: una coppia di giovani innamorati danesi decide di convolare a nozze nel luogo dove si sono conosciuti (a Sorrento, appunto). Arrivano quindi i genitori di entrambi: la mamma della sposina è reduce da un ciclo di chemioterapia per allontanare un tumore al seno ed ha appena scoperto che, durante le cure ospedaliere, il marito inetto la tradiva per una giovane impiegata. Il padre di lui invece è un vedovo inconsolabile che non è mai riuscito a farsi accettare dal figlio. Non ci vuole molto a capire che la cerimonia nuziale sarà il teatro della resa dei conti.

Love is all you need attinge un po' da Mamma Mia, un po' dalla filmografia scandinava contemporanea (come non pensare a Festen di Vinterberg?), con il matrimonio come tema ricorrente. Susanne Bier è una brava regista autrice di ottimi film drammatici, ma si vede lontano un miglio che non è a suo agio con la commedia: tutto resta nel limbo dei panorami sorrentini e delle piante di limone, e il film non decolla mai. Il ritmo è trattenuto, sospeso, solo in certi momenti (ben realizzati) lo spettatore si scioglie e commuove. Ma forse è sempre la freddezza 'nordica' a prendere il sopravvento. Alla faccia dei luoghi comuni!

mercoledì 26 dicembre 2012

LA PARTE DEGLI ANGELI

(The Angels' Share)
di Ken Loach (GB, 2012)
con Paul Brannigan, John Henshaw, William Ruane, Jasmin Riggins, Gary Maitland, Roger Allam
VOTO: ****/5

Anche la meravigliosa e poverissima Scozia possiede un suo tesoro: è liquido, e si fa con la torba, il malto e il lievito: la 'parte degli angeli' non è altro che la piccola quantità di whisky che evapora nell'aria durante il processo di fermentazione, e nel colorito slang locale viene simpaticamente considerata il 'pizzo' da pagare al Padreterno per aver regalato a noi poveri mortali la ricetta del prezioso nettare. Basterebbe solo questo assunto per farci amare l'ultimo film del 'compagno' Ken Loach, che a 76 anni continua imperterrito e coerente a fare il cinema che vuole, forse meno 'arrabbiato' di un tempo ma sempre pervicacemente dalla parte di chi non ha voce in capitolo nella scala sociale.

I veri angeli stanno soprattutto sulla terra, sembra dirci l'ateo Ken: nella fattispecie sotto le spoglie di Harry, bonario e corpulento assistente sociale, grande esperto di whisky, che trasmette la propria passione al gruppetto di poveracci che ha in affidamento, scorrazzandoli per tutta la Scozia in giro per distillerie. Tra questi il più sveglio e smaliziato è il giovane Robbie, cresciuto nei bassifondi di Glasgow e padre di un figlio appena nato al quale vorrebbe assicurare un futuro migliore. Sebbene all'inizio Robbie segua Harry soltanto per poter bere a sbafo durante le degustazioni, ben presto il ragazzo si appassiona alla materia, scoprendo di avere un ottimo 'naso' nel riconoscere il whisky. Finchè un giorno, durante un incontro, viene a sapere che a pochi chilometri da Edimburgo si terrà un'asta per aggiudicarsi un'intera botte del miglior whisky del mondo, valutata oltre un milione di sterline...

A questo punto possiamo divertirci a trovare ne La parte degli angeli tutti i rimandi cinefili che vogliamo: a partire da Paul, Mick e gli altri, dello stesso Ken Loach, per il tono scanzonato e lieve del film e per lo 'spirito di solidarietà' che s'instaura tra i protagonisti. Oppure, perchè no, anche Miracolo a Le Havre di Kaurismaki (fu il film natalizio di qualità dell'anno scorso) per la tenerezza e la dignità col quale 'Ken il rosso' riesce a descrivere una realtà dura e squallida come quella delle periferie urbane d'oltremanica. Ma, consentitecelo, a noi questa pellicola pare proprio (ci piace crederlo) un affettuoso omaggio a I soliti ignoti, uno dei nostri film più belli, importanti e imitati al mondo: Loach confeziona infatti una trama spassosissima e goliardica, che altro non è che la cronaca del tentativo di furto che potrebbe rivoltare come un calzino la vita del gruppetto di disperati, i quali si mettono in testa di rubare la preziosissima botte con un piano tanto ridicolo quanto geniale...

Ovviamente non vi diciamo qui come andrà a finire, nè del resto questo è importante. Quello che conta è lo spirito del film, lucidamente coerente con il Loach-pensiero: in un mondo dove aumentano le diseguaglianze sociali, e dove la politica non solo non fa niente per limarle ma, anzi, si scopre sempre più impotente e distante dalle categorie più deboli, l'unica speranza è affidarsi all'umanità della gente: noi che stiamo meglio abbiamo il dovere di dare una possibilità a chi sta economicamente sotto di noi. Che non vuol dire elemosina o commiserazione, ma un aiuto concreto per aiutare queste persone a camminare con le proprie gambe.
Se proprio non sapete come fare, lasciate perdere i cinepanettoni e andate a vedere La parte degli angeli: non vi cambierà la vita, ma vi farà stare meglio e, magari, vi farà venire qualche idea.

domenica 23 dicembre 2012

LO HOBBIT: UN VIAGGIO INASPETTATO

(The Hobbit: Part 1)
di Peter Jackson (Nuova Zelanda/USA, 2012)
con Martin Freeman, Richard Armitage, Ian McKellen, Cate Blanchett, Christopher Lee, Andy Serkis
VOTO: ***/5

E' sempre più difficile stupire, nell'era di internet, del digitale, del 3D e delle proiezioni a 48 fotogrammi al secondo... Dieci anni fa la trilogia de Il Signore degli Anelli ci aveva lasciati stupefatti e increduli di fronte a un'opera che all'epoca non esitammo a definire 'definitiva': quelle dodici ore complessive di film (considerate le versioni estese) ci erano parse inarrivabili per tecnica e capacità espressiva. A Peter Jackson rendemmo merito per aver rilanciato un genere, il fantasy, che appariva morto e sepolto e che invece seppe risorgere grazie alla 'lucida follia' di un regista coraggioso e megalomane, capace di trasporre egregiamente sullo schermo il romanzo più famoso e, si diceva, il più difficile di tutti da filmare...

Ma a Jackson piacciono le grandi sfide, ormai è evidente. E dieci anni dopo torna sul luogo del delitto, cimentandosi in un'impresa se possibile ancora più ardua: una nuova trilogia che altro non è che il prequel della precedente, con l'obbiettivo di renderla ancora più spettacolare e memorabile grazie anche alle sempre più sofisticate tecniche di ripresa. Premessa doverosa e necessaria: anche Lo Hobbit, come già Il Signore degli Anelli, è stato diviso in tre parti per ragioni puramente commerciali: ma si tratta di un'opera unica, girata tutta nello stesso momento, e che perciò andrebbe valutata nella sua interezza. Per farlo però bisognerà aspettare ancora due anni (il contratto prevede l'uscita nelle sale di un film all'anno). Per il momento, quindi, limitiamoci solo alle prime 'impressioni'...

La prima cosa che salta agli occhi di questo primo capitolo è senz'altro la 'dilatazione' del tempo: se ne Il Signore degli Anelli il regista lavorava di sintesi (tre film di tre ore e passa l'uno erano appena sufficienti per realizzare una versione attendibile della monumentale saga tolkeniana), ne Lo Hobbit accade esattamente l'opposto: un unico libro, neanche lunghissimo, viene diviso in tre parti. E con la prima di queste, Un viaggio inaspettato, non si arriva nemmeno a metà del romanzo. 174 minuti di pellicola per raccontare, in pratica, solo l'antefatto della storia. Troppi? Necessari? Difficile dirlo... Certo possiamo intuirne il motivo: Jackson doveva in qualche modo 'presentarsi' alle nuove generazioni (quelle che non hanno mai letto Tolkien e avevano bisogno di un minimo di spiegazione) e, nello stesso momento, 'riconquistare' i cuori degli spettatori della vecchia trilogia, 'orfani' e nostalgici dei personaggi di un tempo.

Ecco perchè, in pratica, tutta la prima ora del film viene dedicata alla presentazione dei personaggi e ai loro 'collegamenti' con la vecchia trilogia: il regista, astutamente, ricorre subito al flashback in modo da gettare nella mischia fin dall'inizio i vari Bilbo, Frodo, Gandalf e compagnia... in questo modo vecchie e nuove generazioni di spettatori si uniscono ed è anche più facile seguire la trama. C'è però il rovescio della medaglia: a farne le spese è inevitabilmente il ritmo della pellicola, che all'inizio è veramente noiosetta e poco interessante, dominata da un'antipatica voce-off che ci spiega (fin troppo dettagliatamente) quello succederà di lì a poco. Peccato però che, appunto, per un'ora non succede niente e gli sbadigli si susseguono impietosi, nonostante il bellissimo 3D e le riprese mozzafiato dei tipici paesaggi tolkeniani.

Poi però si passa all'azione, e il discorso cambia: qui Jackson finalmente torna a lidi a lui più congeniali e i risultati si vedono: il ritmo e la tensione aumentano vertiginosamente, e con essi le scene più spettacolari. Le battaglie con i Troll, il duello tra le montagne 'vive', la fuga tra le caverne degli Orchi, i precipizi di GranBurrone riportano la pellicola sui livelli a cui eravamo abituati. Entrano in scena anche i personaggi 'storici' dell'epopea: ritroviamo il subdolo Saruman, l'elfo Elrond, la bellissima ed eterea Galadriel e, ovviamente, il viscido Gollum, del quale scopriamo finalmente come abbia fatto a farsi 'fregare' il suo celeberrimo 'tessssoro', ovvero l'anello che Bilbo custodirà per quasi sessant'anni prima di scatenare il finimondo...

Insomma, il primo episodio de Lo Hobbit è una specie di 'passerella' tra il vecchio e il nuovo, dove inevitabilmente il confronto con la precedente trilogia si fa sentire e getta un'ombra pesante. Sarà per questo che Jackson ha decisamente cambiato anche il metodo di approccio alla storia: rispetto alla 'sacralità' de Il Signore degli Anelli, infatti, Lo Hobbit ha un tono molto più confidenziale, sbarazzino, fanciullesco, a tratti anche volgarotto, certamente molto meno 'formale'. Nonostante questo, però, è utopia sperare che questo film ci coinvolga emotivamente quanto i precedenti. Vero è che, come dicevamo, questo è solo il 'primo tempo' di tutta la saga e mancano ancora molti elementi determinanti (ad esempio, non c'è ancora un vero cattivo: Sauron e il drago Smaug entreranno in scena nei prossimi film) ma, semplicemente, la verità è che ormai lo spettatore è abituato a tutto ed è sempre più difficile stupirlo, appunto, con gli effetti speciali. Lo Hobbit si lascia guardare, in certi punti ci fa palpitare, in generale ci piaciucchia, ma certo la 'meraviglia' non abita più da queste parti...

domenica 16 dicembre 2012

NATALE: ADDIO AL CINEPANETTONE, MA LA QUALITA' NON DECOLLA... MANUALE DI SOPRAVVIVENZA PER CINEFILI


Meno dieci giorni a Natale: ovvero, cinematograficamente parlando, i dieci giorni più 'caldi' dell'intera stagione (temperatura a parte). E' in questi dieci giorni che infatti si decidono le sorti commerciali delle grandi major, in quanto in questo brevissimo ma intenso periodo di tempo si portano a casa quasi la metà degli incassi di tutto l'anno. La battaglia perciò è campale: a Natale tutti vanno al cinema, anche chi non lo fa mai per i restanti 364 giorni, e quindi ogni casa di produzione scende in campo con i 'grossi calibri': quei film, cioè, che sono stati pensati, prodotti e girati per un solo unico scopo: portare a casa più soldi possibile.

Non staremo qui a discutere se i cosiddetti 'cinepanettoni' siano più o meno passati moda... onestamente non ce ne frega niente. Il problema è un altro: è evidente che la 'battaglia' natalizia, puntando giocoforza sul grande pubblico, nel nostro strano paese privilegia esclusivamente l'aspetto commerciale rispetto a quello qualitativo. Basti guardare i dati relativi alle uscite di questa settimana: tre soli film si dividono circa l' 80% delle sale del nostro paese: 750 copie per Lo Hobbit, 700 a testa (circa) per Colpi di fulmine e Tutto tutto niente niente. E per chi volesse vedere qualcosa di appena appena meno dozzinale, o quantomeno più 'cinefilo'? Briciole. Appena venti copie per La parte degli angeli, l'ultimo film di Ken Loach, poche più per Love is all you need di Susanne Bier, visto a Venezia.

Questo che significa? Niente di buono, ovviamente... innanzitutto che lo spettatore italiano medio, quello che va al cinema il giorno di Natale, è culturalmente inetto. Sarò brutale, ma i numeri sono lì a dimostrarlo. Secondo, cosa ben più grave (ma conseguente alla prima) che questo 'imbarbarimento' di fondo ha effetti devastanti per tutto il settore cinematografico: è risaputo infatti che il cinema commerciale 'vive' soprattutto nei cinema multisala, quelle enormi megastrutture da 15-20 sale cadauna che sono sorte come funghi nelle immediate periferie delle città e che fagocitano la stragrande maggioranza del pubblico. Mentre, al contrario, lo spettatore-cinefilo, poco attratto da questi rutilanti casermoni, preferisce magari starsene a casa a leggere un libro anzichè farsi anche 50 km per vedere, magari, l'unico film d'essai proiettato nella propria regione...

Insomma, è evidente che la miopia dei distributori italiani fa sì che la situazione peggiori di anno in anno: per accaparrarsi più soldi possibile in questi dieci giorni si rischia di compromettere la cultura cinematografica nel nostro paese. La catena è semplice: i multiplex rubano incassi alle piccole sale di città, che si vedono costrette a chiudere in quanto impossibilitate a fare concorrenza a questi colossi. Però le sale cittadine sono anche quelle che proiettano in maggior parte film di qualità: pertanto, scomparendo, diventa sempre più difficile trovare una distribuzione decente per questi ultimi. Teorema supportato anche dai numeri che, come sempre, rivelano molte soprese a seconda di come si leggono...

E' facile infatti sostenere che in Italia il cinema di qualità è in crisi, e in effetti guardando gli incassi la situazione è incontestabile: film belli e importanti come Bella addormentata, E' stato il figlio, L'intervallo, nonostante il traino della Mostra di Venezia, hanno incassato pochissimo. Così come le ultime opere di Virzì e Soldini, per non parlare di Reality di Matteo Garrone: film bellissimo, premiato a Cannes, eppure ignorato dal pubblico. Esattamente come Pietà di Kim-Ki Duk, l'ultimo Leone d'Oro del Lido, che ha portato a casa nell'intera programmazione la stessa cifra che Lo Hobbit guadagna in mezza giornata di tenitura. Se però, cosa che nessuno dice, facciamo il rapporto tra spettatori paganti e numero di sale in cui il film è programmato... ecco che arrivano le sorprese! E si scopre così che Amour di Michael Haneke, distribuito in sole 32 sale in tutto lo stivale, ha la media.pubblico più alta della stagione! E anche Io e te di Bertolucci e Killer Joe di Friedkin non sono da meno.

Spiegazione? Semplice: che esiste, anche in Italia, un pubblico culturalmente più elevato e più cinefilo che, se gli venisse data la possibilità, andrebbe a vedere anche i film più impegnati. Ma è chiaro che qui da noi si privilegia da sempre la teoria del 'tutto e subito', senza preoccuparsi del futuro.
Ma questo, purtroppo, non vale solo per il cinema...
Buon Natale.

domenica 9 dicembre 2012

IL SOSPETTO

(Jagten/The Hunt)
di Thomas Vinterberg (Danimarca, 2012)
con Mads Mikkelsen, Thomas Bo Larsen, Annika Wedderkopp, Alexandra Rapaport, Susse Wold
VOTO: *****/5

Lukas è un uomo mite che cerca di rifarsi una vita dopo un matrimonio fallito: un nuovo lavoro come maestro d'asilo sembra capace di restituirgli il sorriso e la gioia di vivere, grazie anche alla sua innata capacità di stare coi ragazzi (che lo adorano). Anche la vita privata sembra schiudergli una speranza, impersonata da una collega immigrata che mostra più di un interesse per lui. Tutto sembra andar bene fino al giorno in cui la piccola Klara, una delle sue allieve, lo accusa candidamente di essersi calato le mutande davanti a lei...

Attenzione al titolo italiano, come al solito fuorviante: non c'è infatti nessun sospetto nei confronti di Lukas: nè da parte dello spettatore, che capisce subito che il protagonista è stato vittima di un gigantesco equivoco (e della fervida immaginazione di una ragazzina sveglia e intraprendente), nè da parte della piccola e benpensante comunità locale, che lo bolla immediatamente come pedofilo e lo fa diventare il 'mostro' del villaggio, ripudiandolo e rendendogli la vita impossibile.

L'ultimo film del bravo Thomas Vinterberg è la cronaca di una vergognosa caccia alle streghe che diventa subito caccia all'uomo (questo il significato del titolo originale, 'Jagten' - 'The Hunt' nella versione anglofona) e che coinvolge un comune cittadino la cui unica colpa è quella di non ribellarsi subito all'assurda persecuzione che lo ha travolto. Lukas è innocente (il film ce lo dice fin dall'inizio, non 'spoileriamo' nulla) ed è la vittima sacrificale di una società perbenista e ipocrita, che cerca un colpevole ad ogni costo pur di preservare l'apparente equilibrio che regna tra le casette pulite e ordinate del paesello.

Tutta la storia è narrata dal punto di vista personale del protagonista: lo spettatore assiste, con la stessa incredulità e rabbia, alla progressiva demonizzazione di una persona che alla fine è costretta, pur di sopravvivere, a scendere sullo stesso piano dei suoi carnefici: l'ostilità della gente e l'enorme rabbia repressa faranno diventare Lukas un uomo violento e disperato, capace di sfidare da solo l'intera comunità che fino al giorno prima lo considerava un fratello, al quale poter affidare senza pensieri i propri figli.

Seppur angosciante e crudo, Il sospetto è un film straordinario per emotività e presa sullo spettatore. La morale è chiara: in questo mondo (specificatamente quello occidentale, ricco e opulento come la democraticissima Danimarca) dove dominano l'apparenza e l'ipocrisia, ogni regola di civile convivenza può essere sovvertita dalla paura e dalla viltà. E quello che è successo a Lukas può succedere a chiunque,  perchè l'egoismo e la volontà di 'sbattere il mostro in prima pagina', la voglia di trovare un colpevole a ogni costo pur di mettere a tacere scomode verità, fanno tristemente parte della società moderna.

Girato in maniera 'classica', senza camera a spalla e immagini mosse (il 'Dogma' è ormai un lontano ricordo), il film di Vinterberg deve buona parte della sua riuscita alla grande interpretazione di un attore bravo e sottovalutato come Mads Mikkelsen (ve lo ricordate in Walhalla Rising?), giustamente premiato con la Palma d'Oro a Cannes: la scena in cui viene (finalmente) a patti con i suoi concittadini, 'sfidandoli' a guardarlo negli occhi in una drammatica notte di Natale, vale da sola il prezzo del biglietto.

sabato 8 dicembre 2012

MOONRISE KINGDOM

(id.)
di Wes Anderson (USA, 2012)
con Jared Gilman, Kara Hayward, Edward Norton, Bruce Willis, Tilda Swinton, Bill Murray, Frances McDormand, Bob Balaban.
VOTO: ***/5

'Il 'solito' Anderson'. Questo era il commento ricorrente dei (pochi) spettatori in sala alla fine del film. Qualcuno lo diceva col sorriso negli occhi, qualcun altro con le palpebre abbassate mentre si stiracchiava prima di alzarsi dalla sedia... Ergo: il fatto di avere uno stile e un modo personalissimo di fare cinema, come Wes Anderson indubbiamente ha, è un bene o un male? Il fatto, cioè, che i suoi film siano assolutamente riconoscibili fin dal... manifesto, è una qualità o un difetto?

La risposta potrebbe sembrare scontata: 'Avercene - diremmo - di registi dallo sguardo così disincantato e non 'omologati''. Verissimo. E anche quest'ultimo Moonrise Kingdom non fa eccezione: è un film di Anderson al 100%, che come tutte le altre sue pellicole richiede allo spettatore di 'abbandonarsi' completamente e liberare la propria fantasia, pena la noia. Il problema è che anche gli spettatori cambiano: cambiano a causa dell'età, degli stati d'animo, di momenti e scelte particolari cui la vita ti mette davanti. Ed ecco che allora quello stesso film, che in altri momenti ti sarebbe piaciuto fino alle lacrime, stavolta ti lascia abbastanza indifferente. Non ti coinvolge.

Jared Gilman e Kara Hayward, i due bravissimi protagonisti
E' esattamente quello che è accaduto a me: Moonrise Kingdom: in questo momento della mia vita, non mi ha entusiasmato. Sarà che la mia mente 'da bancario' (quale sono) non mi aiuta nei voli pindarici, ma ho trovato questo film molto autoreferenziale e abbastanza scontato. Non brutto, intendiamoci, anzi in certi momenti è una vera gioia per gli occhi e per il cuore. Però sì... questa volta dico anch'io 'il solito Anderson' con una certa indifferenza, tipica di chi si avvicina a un prodotto trovando esattamente quello che si aspetta di trovare. Ma magari alla maggior parte degli spettatori Anderson piace proprio per questo: e allora... va bene così! E certamente se vi sono piaciuti I Tenenbaum, Mr. Fox e Il treno per il Darjeeling, anche questo non vi dispiacerà.

Bill Murray, Frances McDormand, Ed Norton, Bruce Willis
Moonrise Kingdom si svolge nella metà degli anni '60 (è forse il primo film di Anderson che ha una collocazione temporale ben definita) in una bellissima isoletta dell'Atlantico, incontaminata e abitata da pochissime persone, perlopiù bigotte e conformiste, assolutamente impreparate ad affrontare le terribili 'tempeste' che si stanno per abbattere sulle loro vite: una molto concreta, rappresentata da un tifone che si accinge minacciosamente a spazzare via le fragili casette di legno; l'altra simbolica, ovvero la rivoluzione culturale che sarebbe deflagrata col '68. In questo contesto, due dodicenni complessati e taciturni decidono di scappare di casa per cercare un briciolo di felicità: la loro mèta è una piccola caletta sconosciuta e senza nome, una specie di 'posto delle fragole' che ribattezzeranno poeticamente 'Il regno della Luna Nascente'.

Tilda Swinton
Lui è un boy-scout orfano, timidissimo e odiato dai compagni, nonchè dai genitori adottivi. Lei una coetanea musona e depressa, 'schiava' della propria famiglia e che si porta sempre dietro un binocolo per 'vedere il mondo più da vicino': la loro fuga sarà breve, ma sufficiente a scatenare il panico nella piccola comunità, incapace di comprendere i loro sentimenti e le avvisaglie di un mondo che cambia. L'amore è difficile a tutte le età, sembra dirci il regista, ma i sentimenti vanno sempre rispettati. Anche a dodici anni. Anche se sembri un ciuffo di paglia in mezzo alle onde impazzite di una tempesta...

Il film è carino, moderatamente ruffiano, abbastanza compiaciuto: Anderson cita se stesso e si ripete consapevolmente, ma stavolta il suo elogio dei 'diversi' e di un mondo 'salvato' dall'innocenza è piuttosto prevedibile e finisce per avvicinarsi un po' troppo dalle parti di Tim Burton... Tutto già visto, insomma, anche se le ottime prove dei due giovani attori debuttanti e di tutto il resto del cast ne fanno comunque un discreto prodotto da sfruttare come alternativa all'invasione di film natalizi e smielati di queste settimane. Ma non aspettatevi il capolavoro.

lunedì 3 dicembre 2012

DI NUOVO IN GIOCO

(Trouble with the curve)
di Robert Lorenz (USA, 2012)
con Clint Eastwood, Amy Adams, Justin Timberlake, John Goodman
VOTO: **/5

Caro Clint, dobbiamo proprio confessarti una cosa: certamente sbagliamo, ma dopo averti visto così occupato a parlare con una sedia vuota, infervorandoti (a modo tuo) ed esponendoti come mai ti eri esposto in passato per uno come Romney, proprio non ce la facciamo a guardarti con gli stessi occhi di prima... è un nostro limite, certo, e conoscevamo bene le tue idee repubblicane. Però, davvero, mai avremmo immaginato di vederti in prima linea a fare propaganda per uno dei politici più bigotti ed ultra-conservatori che l'America abbia conosciuto. Insomma... tu che cerchi di convincere la gente a votare per un mormone plurimilionario, è davvero difficile da accettare!  Specialmente per quello che hai sempre predicato in passato, con i tuoi film e le tue (poche) parole.

Scusaci quindi se partiamo prevenuti nel giudicare il tuo ritorno sul set da semplice attore, cosa che non succedeva da quasi vent'anni (Nel centro del mirino, 1993). Ti diciamo subito, senza giri di parole, che questo Di nuovo in gioco, diretto dal tuo fedele aiuto regista Robert Lorenz, ci sembra un film tanto banale quanto inutile, non orrendo ma assolutamente insignificante. Tanto che ci chiediamo innanzitutto cosa ti abbia spinto a NON dirigerlo in prima persona. E soprattutto il PERCHE' hai accettato di interpretare un ruolo così scialbo, calandoti nei panni di un personaggio che pare essere un lontanissimo e povero parente del Walt Kowalski di Gran Torino.

 Alla prima domanda possiamo provare a rispondere: forse, a 83 anni suonati, non te la sei sentita. E ti capiamo. Oppure, da furbastro quale sei, dopo aver letto il copione avevi capito benissimo che non si trattava di una pellicola memorabile, ed hai pensato bene che sarebbe stato molto meglio lasciare ad altri l'incombenza della regia. Alla seconda invece ci dobbiamo arrendere: sinceramente ci sfugge il motivo per cui  sei tornato davanti alla macchina da presa, a meno che tu non l'abbia fatto per fare un favore a un vecchio amico. E in tal caso... sappiamo bene che al cuor non si comanda!

Clint Eastwood e Justin Timberlake
Di nuovo in gioco è il milionesimo film sul baseball che ci viene propinato dagli Studios hollywoodiani. Anche il canovaccio è già scontato di suo: un vecchio talent-scout, mezzo cieco e prossimo al pensionamento, viene incaricato dalla sua ex-squadra di seguire un giovane virgulto di belle speranze, allo scopo di decidere se ingaggiarlo o meno... Gus (questo il nome del protagonista) si rifiuta di usare il computer e tenere schede per valutare i giocatori, ma il suo fiuto è ancora infallibile. Questo però non basta per meritarsi la riconferma da parte dei vertici societari, intenzionati a pre-pensionarlo precocemente. Gus però parte lo stesso per la Nord Carolina, dove si svolgono le partite, accompagnato dalla figlia, brillante avvocatessa in carriera preoccupata per la salute del paparino...

Amy Adams
Non credo di rovinare la sorpresa a nessuno dicendo che alla fine ovviamente tutto si aggiusterà e, come nelle favole, tutti vivranno felici e contenti. Peccato però che tutto sia già visto, dalla prima all'ultima inquadratura, e certo non basta qualche risata qua e là per scuoterci dal torpore. Piccolo particolare, nonchè avviso per l'ignaro spettatore: se non siete competenti di baseball, certe parti di questo film vi risulteranno praticamente incomprensibili... e questo certo non giova all'eventuale risultato al botteghino.

Ma, fondamentalmente, se proprio desiderate vedere un bel film sul baseball (anzi, un bel film in generale) allora recuperatevi Moneyball-L'arte di vincere di Bennett Miller: totalmente agli antipodi rispetto a questo per morale, spessore e riuscita. Altro cinema, altro livello.

domenica 2 dicembre 2012

EUROPEAN FILM AWARDS: HANEKE FA IL PIENO

Michael Haneke, Emmanuelle Riva e Jean-Louis Trintignant
Vorrebbero essere gli Oscar Europei, ma in realtà gli European Film Awards (EFA in breve) restano per il momento una manifestazione molto sottotono, ben lontana dai fasti hollywoodiani. Ciò forse è anche voluto, proprio per distinguersi dal baccano e dallo star-system dei loro omologhi d'oltreoceano e mantenere una sobrietà molto 'radical-chic'. Fattostà che, in un modo o nell'altro, degli EFA non importa niente a nessuno... non un notiziario, non una pagina di giornale, nemmeno uno straccio di sintesi televisiva, a riprova che lo snobismo non paga.

Bernardo Bertolucci
Snobismo che è testimoniato anche dai risultati: basta scorrere l'albo d'oro che troviamo infatti, anche stavolta, il 'solito' Michael Haneke, arrivato alla terza vittoria e autentico 'padrone' di questo premio. Il suo Amour, infatti, ha fatto il pieno: miglior film, miglior regia, miglior attore e attrice protagonista. In pratica un cappotto. Haneke è ormai un abbonato ai premi, nella bacheca di casa sua ci sono più statuette che nel presepe... lungi da noi voler sminuire il valore del cineasta austriaco, autore indubbiamente di ottimi film e anche di qualche capolavoro. La nostra impressione però è che certi nomi, come il suo, ormai godano ben più di una certa simpatia nelle giurie europee, cosa che a dire il vero comincia un po' a stufare...

Ma tant'è. Amour è certamente un film 'perfetto' dal punto di vista stilistico, tuttavia a giudizio di chi scrive quest'anno si poteva avere un po' più di coraggio e premiare pellicole ben più emozionanti e più capaci di arrivare al pubblico. Mi riferisco, a costo di sembrare partigiano, al bellissimo Cesare deve morire dei Taviani, oppure a C'era una volta in Anatolia di Ceylan, a Carnage di Polanski, al francese Quasi amici, a Shame di McQueen, oppure alla vera rivelazione dell'anno, ovvero Jagten-Il sospetto di Thomas Vinterberg: film durissimo e magnetico, di cui parleremo molto presto. Solo briciole per l'Italia, che si accontenta del comunque prestigioso premio alla carriera a Bernardo Bertolucci.
'Cesare deve morire', dei fratelli Taviani

Gli EFA sono comunque il primo importante premio cinematografico riguardante la stagione in corso, anche si svolgono in dicembre (e quindi nell'anno vecchio). Certamente sono un bell'assist verso i Golden Globes e gli Oscar, prossimi appuntamenti. E la vecchia Europa si presenta ancora una volta con ottimi titoli e un ottimo parterre: a testimonianza di una scuola e di una cultura cinefila che, nonostante ogni crisi possibile, denota ancora di godere ottima salute.

VEDI QUI L'ELENCO DI TUTTI I PREMI 

mercoledì 28 novembre 2012

PADRONI DI CASA

(id.)
di Edoardo Gabbriellini (Italia, 2012)
con Valerio Mastandrea, Elio Germano, Gianni Morandi, Valeria Bruni Tedeschi
VOTO: ****/5

A volte ci sono film che ti viene voglia di vedere solo perchè ti piace la locandina, a scatola chiusa. Due lupi, maschio e femmina, vestiti da matrimonio: lei in bianco con una corona di fiori sulla testa, lui in abito scuro con i fiori nel taschino. Il manifesto di Padroni di casa, opera seconda di Edoardo Gabbriellini (l'indimenticabile protagonista di Ovosodo, chi non lo ricorda?) è inquietante e intrigante insieme: esattamente come la pellicola che ha diretto, quasi unica nel suo genere nel panorama italiano.

I lupi sono ovviamente i 'padroni di casa' del titolo: a cominciare da Fausto Mieli (un mefistofelico Gianni Morandi), cantante in declino che ha sacrificato la carriera per accudire la moglie inferma (interpretata da una grandissima Valeria Bruni Tedeschi). E adesso, visibilmente, non ne puole più. Non permetterà a niente e a nessuno di intralciargli la strada del possibile rilancio, compresa l'adorata mogliettina.
Ma i lupi sono anche, in senso lato, gli abitanti del piccolo paese di montagna dove Mieli vive rinchiuso nella sua lussuosa villa-prigione: gente che apparentemente lo adora ma che in realtà cova una profonda antipatia per un personaggio che, giocoforza, fagocita tutte le attenzioni. In paese 'non si muove foglia che Mieli non voglia', e questo a molti non va proprio giù...

Gianni Morandi e Valeria Bruni Tedeschi
In tale contesto si muovono anche due operai romani, fratelli dal carattere molto diverso (Valerio Mastandrea e Elio Germano), chiamati da Mieli a ristrutturargli la casa e che diventano, loro malgrado, la variabile impazzita di un sottile equilibrio che si regge unicamente sull'ipocrisia: saranno loro, inconsapevolmente, a far saltare il banco e gettare la piccola comunità in una spirale di odio e di violenza furiosa che erano latenti da anni.

Padroni di casa è un robustissimo film di genere, senza pretese autoriali ma che funziona a meraviglia: un noir 'de noantri', che comincia sotto forma di commedia e che piano piano insinua nello spettatore quel senso di disagio e di sospetto che infine troverà sublimazione nell'epilogo inevitabilmente 'catartico' (che non vi raccontiamo). Provocatoriamente, e volutamente esagerando, vi diciamo che potrete ritrovarvi in uno scenario 'alla Haneke', ovvero una pellicola subdola, comica in superficie eppure indiscutibilmente sgradevole, che mette a nudo tutte le bassezze di un paese come il nostro: violento, razzista, ipocrita, geneticamente poco incline ad aprirsi verso gli altri.

Elio Germano e Valerio Mastandrea
Non tutto funziona, a cominciare da una sceneggiatura che, specie verso la fine, vira pericolosamente verso una deriva 'splatter' da cinema americano medio... eppure si resta incollati alla sedia, aspettando di vedere che cosa accadrà. Il film è stato presentato al Festival di Locarno ed è uscito nelle nostre sale in sordina, stritolato dalla distrubuzione della grandi major. Se potete, provate a recuperarlo: ne resterete piacevolmente sopresi. Garantito.  

sabato 24 novembre 2012

ACCIAIO

(id.)
di Stefano Mordini (Italia, 2012)
con Matilde Giannini, Anna Bellezza, Michele Riondino, Vittoria Puccini
VOTO: ***/5

Per un beffardo scherzo del destino, Acciaio esce al cinema nel momento più nero della siderurgia italiana: inutile ricordare la drammatica vicenda dell'Ilva di Taranto e l'altrettanto drammatica situazione degli stabilimenti Lucchini di Piombino, a rischio chiusura e senza reali prospettive per il futuro. La vicenda di Acciaio è ambientata circa una decina di anni fa, quando il lavoro c'era ancora ma la crisi già si faceva sentire, lasciando preludere quello che sarebbe accaduto di lì a poco.

E' raro che in Italia si parli ancora degli operai e del lavoro in generale. Non ne parlano quasi mai nè i media nè tantomeno il cinema. Per questo bisogna dare atto a Stefano Mordini di aver avuto coraggio a cimentarsi in un' 'impresa' del genere... se potrà dirsi riuscita questo ce lo diranno solo gli incassi, ma intanto il film ha già registrato una buona accoglienza alla Mostra di Venezia, nient'affatto scontata per un prodotto italiano così diverso dai consueti canoni nazionali e piuttosto 'scomodo' per ciò che racconta.

Va infatti reso merito al regista di riportato, nel suo piccolo, l'attenzione e l'interesse del pubblico verso la lotta di classe e verso la crisi economica che colpisce le fasce più deboli, condizionandone in negativo anche la vita sociale. Tratto da un mediocre romanzo della bolognese Silvia Avallone, inspiegabilmente best-seller di qualche stagione fa, la versione cinematografica di Acciaio può dirsi riuscita proprio in quegli aspetti dove il libro falliva miseramente. Mordini ha infatti apportato piccole ma sostanziali modifiche alla trama, smussando molto gli aspetti pruriginosi relativi alla sessualità delle due giovanissime protagoniste, e spostando invece l'attenzione dello spettatore verso la fabbrica, autentico microcosmo specchio della deriva civile e culturale che stiamo vivendo.

Le vite di Anna e Francesca infatti sono irrimediabilmente condizionate dai fumi delle ciminiere e dalle fiamme dell'altoforno della Lucchini: viene fin troppo facile il simbolismo tra l'inferno dantesco e quello che si trova all'interno dello stabilimento, dove dei lavoratori che stanno al livello più basso della scala sociale si guardano in cagnesco tra loro per paura di perdere uno dei mestieri più umili e sottopagati che esistano. L'egoismo che deriva dall'ignoranza e dall' in-cultura sarà la molla che farà scattare la tragedia e, nel contempo, la disperata voglia di scappare delle due ragazzine.

Acciaio è tutto sommato un discreto prodotto, sincero, snello, semplice e senza fronzoli nella realizzazione. Certo non si può fare a meno di notare un certo stampo 'televisivo' di fondo, ma le convincenti prove delle due adolescenti (al loro debutto assoluto nel cinema) nonchè quella del sempre più bravo Michele Riondino contribuiscono non poco alla riuscita del film.
Non saremo dalle parti di Ken Loach, e nemmeno da quelle di Elio Petri. Però il risultato è più che sufficiente. Abbastanza per potervelo consigliare. 

lunedì 19 novembre 2012

JODIE 50 !

Ci siamo finalmente!! La 'nostra' Jodie oggi compie 50 anni, di cui 47 di carriera... nemmeno a scriverlo sembra vero! Noi abbiamo cominciato da tempo a renderle omaggio, riscoprendola con i suoi film più belli, uno ogni mese. E sorprendendoci ancora oggi della versatilità di una attrice/regista/donna straordinaria: l'abbiamo vista crescere (letteralmente) dietro la cinepresa, l'abbiamo ammirata in ruoli sempre diversi a seconda delle stagioni della sua (e nostra) vita, l'abbiamo seguita in ogni sua trasformazione artistica. Sì, Jodie ci piace parecchio, non l'abbiamo mai nascosto... non sarà una 'moral guidance' (come ha fatto con Clint Eastwood il settimanale FilmTv), ma per noi rappresenta la bravura, la professionalità, l'incarnazione per un lavoro che fin da subito le è entrato dentro. 

E allora glielo diciamo fortissimo: altri 100 di questi giorni, splendida Jodie !
 
La definizione più bella di lei l'ha data Jon Amiel, il regista di Sommersby: "Se esistesse una perfetta macchina per recitare, questa assomiglierebbe a Jodie", e in effetti in ogni film (bello o brutto che sia) si resta stupiti dalla professionalità, dalla bravura, dalla classe di questa immensa attrice, il primo "amore cinefilo"della mia vita... e pertanto non potevo non aprire questa rubrica con la mia "attrice del cuore", che mi ha accompagnato fino ad oggi regalandomi emozioni uniche, e pagine di celluloide di rara bellezza.
'Il silenzio degli innocenti', 1991

L'abbiamo vista tante volte Jodie, e ci ha sempre fatto palpitare: l'abbiamo vista col terrore negli occhi ne Il silenzio degli innocenti, aggrappata cocciutamente a un sogno impossibile e romantico in Contact, mutilata di capelli, anima e pietà in Sotto Accusa... l'abbiamo vista già a tre anni col culetto nudo e maliziosamente scoperto da un cagnaccio nella pubblicità della Coppertone, e quello stesso culetto (ben più sodo e stretto da striminziti hot-pants) pochi anni dopo in Taxi-Driver, dove aveva stregato perfino il guru Scorsese. E ancora, sorprendentemente e appassionatamente erotica in Ore Contate, filmaccio sconclusionato e "maledetto" di Dennis Hopper, e sporca, imbruttita e selvaggia in Nell, il suo ruolo più estremo. E come non ricordarla, raggiante, spiritosa e stronzetta in Maverick, accanto al gigione Mel Gibson, o ancora "adulta" e glaciale in Inside Man e Panic Room? Film diversissimi tra loro, non tutti memorabili, qualcuno assolutamente brutto, ma tutti tenuti a galla dalle straordinarie performance di questo scricciolo di soli 165 centimetri ma dotato di una tempra d'acciaio.

'Contact', 1997
Jodie Foster è una delle attrici più potenti e stimate di Hollywood, e ormai può permettersi di tutto, perfino di scegliersi i ruoli che vuole (prerogativa riservata a pochissimi eletti, speciamente in campo femminile e specialmente dopo i fatidici 'anta'), i personaggi da lei interpretati hanno tutti un comune denominatore: sono donne coraggiose, indipendenti, risolute e, soprattutto, sole. E la solitudine, come vedremo, sarà una costante della sua vita.

Jodie nasce a Los Angeles nel 1962, figlia di un padre violento e di una madre lesbica e sciroccata: sarà lei che dopo essere stata abbandonata dal coniuge "convincerà" la figlia, a soli tre anni, a girare spot pubblicitari per mandare avanti la baracca. E Jodie comincia così la sua carriera, sbattuta precocemente sopra un palcoscenico dal quale non si staccherà più: reclutata dalla Disney, che ha visto lungo sulle potenzialità della ragazzina, a tredici anni ha già girato 22 film. A quattordici ottiene il ruolo della vita: in Taxi Driver, Scorsese la fa recitare accanto a DeNiro facendole (s)vestire i panni di Easy, la baby-prostituta che batte il quartiere che Travis Bickle ha deciso di ripulire. La produzione, preoccupata, la fa affincare da uno psicologo, ma lei tranquillissima afferma che "so distinguere benissimo la realtà dalla finzione". E' la prima nomination all'Oscar, che la lancia nell'olimpo di Hollywood.

'Sotto accusa', 1988
Eppure la piccola non si monta la testa: a differenza di tanti altri baby-colleghi, caduti in disgrazia perchè travolti da una notorietà improvvisa e devastante, Jodie si muove nello star-system col piglio di una veterana: comincia ad amministrare i suoi affari da sola, staccandosi dalla mamma-manager scroccona e possessiva e dalle grinfie di un fratello invidioso e mediocre, e diventa una stella di prima grandezza, capace di far perdere la testa a registi e produttori. E non solo: nel 1980 un maniaco paranoico spara al presidente Reagan, motivando l'assurdo gesto come un modo per farsi notare dalla nostra Jodie, della quale è perdutamente innamorato...

'Taxi Driver', 1976
"Non ho mai avuto un'infanzia, un compagno di giochi, un fidanzatino... non ho avuto il tempo". E' una frase che la Foster ripete stesso, senza vergogna ma con gli occhi velati di malinconia. Ha avuto una vita senza respiro, problematica, travolgente, faticosa, e lo spettatore più attento non può non coglierne le tracce nei ruoli che interpreta nei suoi film: tutte parti di donne tese, caparbie, nevrotiche e, come dicevamo, drammaticamente sole. Una vita al massimo, come direbbe Vasco, nella quale non si è fatta mancare nulla, trovando il tempo perfino di imparare il francese e l'italiano (proprio così!), nonchè di laurearsi per ben DUE volte a Yale, naturalmente con il massimo dei voti... Fioccano le proposte, i premi, i film importanti: Sotto Accusa, del 1988, le regala il primo Oscar, seguito a ruota dal secondo, nel 1991, con Il silenzio degli innocenti, dove interpreta il personaggio forse più famoso della sua carriera, quello di Clarice Starling, giovane recluta dell'Fbi costretta a scendere a patti col crimanale-cannibale Hannibal Lecter, che le chiederà in cambio i suoi segreti più intimi: è un'interpretazione leggendaria per temperamento, magneticità, attrattiva. Solo Anthony Hopkins le starà al passo, ma resterà prigioniero del ruolo per tutta la vita. Jodie invece proseguirà ancora, regalandoci altre interpretazioni memorabili (Contact su tutte, film straordinario e sottovalutatissimo) e diventanto addirittura regista, dirigendo due film deliziosi e importanti come Il mio piccolo genio e il "gioiellino" A casa per le vacanze (purtroppo sconosciuto in Italia). All'età di trent'anni Jodie Foster ha già ottenuto tutto ciò che un attore sogna di ricevere in una carriera intera.

Da qui il desiderio di fermarsi, di dedicarsi a quella vita privata che non ha mai avuto. La sua decisione di avere due figli con l'inseminazione artificiale, senza rivelare il nome del padre, suscita scandalo nell'America benpensante e bacchettona, ma lei se ne frega altamente. Riservatissima sul proprio conto, solo molti anni più tardi farà "outing" rivelando di essere omosessuale, e prediligendo sempre compagne molto più grandi lei, quasi per non farsi mancare quell'amore materno, filiale, del quale non ha mai potuto godere... Jodie adesso è madre felice di due ragazzi, ormai quasi adolescenti, e si dedica al cinema solo per passione: sceglie i film in base al ruolo da interpretare e a ciò che gli trasmette il personaggio, compatibilmente con le sue esigenze di genitore: nessuno meglio di lei sa cosa vuol dire essere bambina-prodigio, con tutte le conseguenze che occorrono. Eppure anche lavorando 'part-time' riesce lo stesso a lasciare il segno, rinunciando anche all'idea di essere una one-woman-show: le sue interpretazioni in Inside Man e in Carnage sono piccole ma sempre impeccabili, a cui si aggiunge poi la sua terza prova da regista con Mr. Beaver: film particolarissimo, imperfetto, ma molto coraggioso, con cui non indugia a rimettersi in gioco. Anche a 50 anni!
Lunga vita, cara Jodie!

domenica 18 novembre 2012

FESTIVAL DI ROMA, OVVERO DELLA MEDIOCRITA'

Diversi lettori mi hanno scritto chiedendomi perchè non parlo mai del Festival di Roma: in effetti è vero, e potrei rispondere, semplicemente, che non ne parlo perchè non vi ho mai partecipato. Problemi di tempo, di lavoro, di ferie che non posso prendere quando voglio... Eppure non nego che mi piacerebbe trascorrere almeno un weekend nella Capitale, giusto per vedere 'l'aria che tira'. E magari prima o poi lo farò. Ma finora niente, anche perchè la ragione vera della mia indifferenza è dovuta soprattutto allo scarso 'appeal' di questa manifestazione, che non riesce a trovare la strada per diventare 'grande'. Ammesso che lo voglia davvero...

Il Festival di Roma nasce nel 2006, fortissimamente voluto da Walter Veltroni, il sindaco più cinefilo che Roma abbia mai avuto (più cinefilo che sindaco, a detta di qualcuno...). L'idea era quella di organizzare una rassegna che avrebbe dovuto rivolgersi al grande pubblico, con film di qualità ma non di nicchia, a prezzi economici e tante iniziative per avvicinare gli spettatori e farne un evento più 'popolare' possibile. Non a caso all'inizio la denominazione ufficiale era 'Festa' e non 'Festival', proprio a rimarcarne il carattere ludico e giocoso...

I problemi però nacquero subito: innanzitutto per la collocazione in calendario scelta (fine ottobre/inizio novembre) che suscitò immediatamente l'ira degli organizzatori della Mostra di Venezia, che vedevano come fumo negli occhi la nascita di un pericoloso concorrente (nonostante le poco credibili dichiarazioni di 'non belligeranza' pronunciate da Veltroni), ma anche per l'oggettiva difficoltà di portare a Roma star internazionali in grado di far decollare l'evento (specialmente quelle americane, sempre restìe a voli transoceanici poco remunerativi). Tuttavia bisogna riconoscere che nei primi anni qualche buon titolo lo abbiamo visto: sono passati dalla Capitale film belli e importanti come The Prestige, This is England, Juno, Onora il padre e la madre, Il vento fa il suo giro...

Poi, però, dopo un biennio di 'rodaggio' si arriva al 2008, ovvero l'anno-zero per il centrosinistra: in pochi mesi la geografia politica italiana cambia radicalmente: il debole governo Prodi crolla lacerato dalle lotte intestine, Walter Veltroni si immola a vittima sacrificale, abbandonando la carica di sindaco e accettando di sfidare Berlusconi in una missione impossibile, vale a dire le nuove elezioni. Tutti ricordiamo come finì: Veltroni venne sonoramente sconfitto alle politiche mentre, per la prima volta nella storia, Roma elesse un sindaco dichiaratamente di destra nella persona di Gianni Alemanno, salutata dai clacson di giubilo dei tassisti.

E anche per la neonata Festa il cambiamento non passò inosservato: Alemanno, da bravo e pragmatico ex-camerata, non usò giri di parole per far intendere che del giocattolino veltroniano non gliene poteva fregare di meno: non garantiva alcun guadagno (anzi...) e non c'era ragione di tenerlo in vita. Ma poi, raccattato di malavoglia qualche spicciolo da parte degli sponsor, e anche per non essere additato come il tipico sindaco rozzo e fascista che fa a pezzi la cultura, la rassegna continuò. Ovviamente nel segno della Destra e del conservatorismo: fatta fuori ogni velleità di rivolgersi al pubblico giovane e cinefilo (chiaramente di sinistra), al timone della presidenza viene nominato l'ottantaseienne Gian Luigi Rondi, che imprime una svolta da par suo: per prima cosa cambia il nome, che passa da 'Festa' a 'Festival' per accentuarne il carattere competitivo, sfoltisce drasticamente il numero dei film partecipanti e, appunto, la fa diventare una competizione con varie sezioni. Esattamente come Cannes, Berlino, Locarno e, ahimè, Venezia...

Già, Venezia. A questo punto la 'guerra' tra i due festival diventa dichiarata ed esplode nel più becero campanilismo italico: le due rassegne si 'rubano' i film a vicenda, con conseguenti feroci polemiche. Il ministro della Cultura, il veneto Galan, dichiara che 'in Italia un festival del cinema basta e avanza' (lascio a voi indovinare quale...). Alemanno risponde che lui non vede nemmeno con la lente d'ingrandimento i munifici contributi statali che arrivano in laguna, e che la sua manifestazione è finanziata quasi totalmente dagli sponsor. Dal Lido rispondono a loro volta che finchè il clima è questo, di collaborazione non se ne parla. Alla fine si arriva a una 'tregua armata': Roma accetterà di spostare 'un pochino' in avanti la sua collocazione in calendario, Venezia garantisce che non interferirà sulle selezioni. Sarà così? La risposta è ancora più retorica della domanda... lo dimostra, è storia recente, il 'ratto' del nuovo direttore artistico Marco Muller, in rotta con gli organizzatori veneziani e sbarcato in pompa magna sulle rive del Tevere.

Fattostà che il Festival di Roma oggi è esattamente quello di quattro anni fa: una creatura ibrida, nè carne nè pesce, malvoluta dalla politica, non troppo sentita dal pubblico, troppo grande per essere un festival di nicchia e troppo piccolo per competere con le grandi e storiche rassegne cinefile. Qualche buon film lo si vede ancora, ma quasi tutti fuori concorso e invitati dai (pochi) sponsor. Di star se ne vedono pochine, il tappeto rosso è troppo spesso desolatamente calpestato da carneadi, i prezzi non sono più così bassi come prima. Ma il vero problema è il Concorso, ovvero la sezione competitiva, 'anima' di qualsiasi festival: qualche film discreto, qualche titolo di buon livello che si eleva sopra la media, ma nel complesso una selezione scarsina e poco appetibile. Del resto, basta scorrere l'albo d'oro per rendersene conto...

Già, l'albo d'oro. Sono di queste ore le feroci polemiche sul verdetto, a detta di tanti 'ignobile', soprattutto verso E la chiamano estate di Paolo Franchi (ma molti non hanno gradito nemmeno il vincitore, Marfa Girl). Non avendo visto nessun film, ovviamente non mi pronuncio. Ma mi permetto di insinuare una cosa: è un vecchio trucco, in tempi di vacche magre (cinematograficamente parlando) quello di premiare film controversi, scandalosi, o magari semplicemente brutti, allo scopo di catalizzare l'opinione pubblica e fare pubblicità gratuita alla rassegna. Insomma, il vecchio detto 'parlatene male purchè ne parliate' è sempre valido. Soprattutto per un festival sempre più mediocre e sempre più ignorato dai media.
E, lasciatemelo dire, anche abbastanza inutile. Almeno per come è adesso.

giovedì 15 novembre 2012

ARGO

(id.)
di Ben Affleck (USA, 2012)
con Ben Affleck, John Goodman, Bryan Cranston, Alan Arkin
VOTO: ****/5

Ben Affleck mi sta sempre più simpatico! E' il classico americano wasp: monoespressivo, mascella prominente, lampadato e col fisico scolpito... uno così non lo faresti recitare nemmeno in una recita scolastica per beneficenza, figuriamoci poi se cammuffato con capelli lunghi stile anni '70 e barba e baffi posticci per sembrare ispanico: una caricatura! Eppure lui ti riesce a stupire lo stesso, non solo per l'umiltà con cui si sforza di apparire credibile come attore (e ce ne vuole!), ma soprattutto per la disinvoltura con cui passa dietro la macchina da presa dimostrando di essere un regista coi controfiocchi! Lo aveva già fatto in passato con il bellissimo Gone baby gone e col più convenzionale The Town. E adesso, possiamo dirlo, con Argo supera brillantemente il suo esame di laurea (quello del terzo film, il più difficile).

Argo è un film hollywoodiano fino al midollo, nell'accezione più positiva del termine: è spettacolare, avvincente, forse 'esagerato', di sicuro molto godibile. E' la classica 'americanata' (anche qui in senso buono) che farà imbestialire tutti coloro che odiano il mainstream a stelle e strisce e non vogliono ammettere che anche il cinema commerciale, quando è ben fatto, può raggiungere livelli di assolutà qualità. In questo caso, poi, non possono nemmeno appellarsi all'inverosimilità della storia poichè... beh, come solo in America succede, questa storia è talmente incredibile da essere vera. E vale la pena di essere raccontata!

Ben Affleck versione 'anni '70'
I fatti: nel 1979 l'esercito rivoluzionario iraniano irrompe con la forza nei locali dell'ambasciata statunitense a Teheran. Ad accompagnare i guerriglieri c'è una folla esagitata che vuole a tutti i costi la riconsegna dello Scià, ovvero del feroce dittatore che fino a pochi giorni prima aveva governato il paese con il pugno di ferro (e con la silenziosa complicità degli Stati Uniti). Ma lo Scià non si trova più nell'ambasciata, è già al sicuro da tempo in un ospedale americano. In mancanza di meglio, i soldati imprigionano e prendono in ostaggio una sessantina di diplomatici. Succede però che sei di loro, i più vicini ad un'uscita secondaria, riescono a scappare e a rifugiarsi clandestinamente nella sede dell'ambasciata canadese, distante poche centinaia di metri. Sono per il momento al sicuro, ma adesso si pone il problema della loro liberazione: come farli rientrare in patria eludendo la sorveglianza della guardia rivoluzionaria?

Per un impresa apparentemente impossibile ci vorrebbe una soluzione altrettanto impossibile... si vagliano le ipotesi più disparate (e disperate) ma nessuna pare praticabile. Finchè alla fine uno degli agenti della Cia più 'esperti' in materia, l'ispanico Tony Mendez, ha un'idea tanto folle quanto geniale: fingere di girare un kolossal hollywoodiano di fantascienza, imbastendo una vera casa di produzione, basandosi su una vera sceneggiatura (scelta tra le tante scartate dagli studios perchè troppo trash), con veri attori e una vera troupe. Ovviamente la produzione batterà bandiera canadese (!) e si recherà a Teheran per... fare sopralluoghi! E a quel punto i sei diplomatici dovranno imparare in poco più di 48 ore a diventare attori, l'unica loro 'copertura' possibile...

E qui sta il bello di Argo: a modo suo, Affleck celebra Hollywood in tutti i suoi aspetti: come fabbrica dei sogni e come luogo in cui tutto diventa possibile, a dimostrazione che il cinema può davvero cambiare la vita delle persone. E ci piace pensare che Affleck l'anno scorso abbia visto e preso spunto sia da The Artist che Hugo Cabret, due film che celebravano la potenza e la suggestione delle immagini, ma realizzati ben distanti dai capannoni losangelini. Ecco, noi crediamo che Argo sia la risposta in grande stile della vecchia Hollywood, quella che è ancora capace di fare intrattenimento intelligente e spettacolare, come ai tempi d'oro... Argo è la storia di un film mai realizzato, eppure più vero della finzione. E merita applausi a scena aperta: specialmente nel finale, quando sebbene tutti gli spettatori sappiano come va a finire, il ritmo e la tensione della pellicola li tengono incollati alla poltrona. Pura e sana suspance hollywoodiana! Menzione speciale ai sei attori che intepretano i 'fuggitivi', nonchè alla 'strana coppia' composta da John Goodman e Alan Arkin, nei panni rispettivamente di un geniale 'mago' del make-up e di un cinico produttore in pensione: le loro battute sono musica per le nostre orecchie!

domenica 11 novembre 2012

AMOUR

(id.)
di Michael Haneke (Austria/Francia/Germania, 2012)
con Jean-Louis Trintignant, Emmanuelle Riva, Isabelle Huppert
VOTO: ***/5

"La cosa più brutta della vecchiaia è il ricordo di quando si era giovani", faceva dire David Lynch al suo anziano protagonista in quel film magnifico che è Una storia vera. La stessa cosa la pensa Anne (Emmanuelle Riva) quando, ormai paralizzata e inferma, sfoglia i vecchi album di fotografie che ritraggono immagini della sua giovinezza perduta. E' l'unico momento di Amour dove, davvero, la commozione si ritaglia un po' di spazio in un film che, nel consueto stile Haneke, è tanto perfetto e rigoroso nella messinscena quanto glaciale e livido a livello emotivo.

Certo, era impossibile aspettarsi da Haneke un qualcosa di diverso: il suo è da sempre un cinema disturbante, asettico, cupo, espressione di un mondo ingiusto e senza vie d'uscita. Ma se questi elementi facevano del suo film precedente, Il nastro bianco, un capolavoro di rigore storico e assoluto valore sociologico, in Amour le stesse caratteristiche 'spengono' un film che, fin dal titolo, vorrebbe essere una dichiarazione di amore estremo, totalizzante, tra due persone che si sono giurate fedeltà eterna e che invece la malattia costringe a separarsi.

Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva
Amour, banalmente, dovrebbe parlare di amore. Invece mostra solo sofferenza: per oltre due ore ci viene mostrato, senza omettere niente, il progressivo disfacimento fisico e mentale di una persona fino a pochi istanti prima capace di intendere, volere e, soprattutto, amare. Intendiamoci, non è che l'amore non sia presente in questo film: la dedizione e l'affetto che il marito Georges (Jean-Louis Trintignant) dedica all'amata consorte sono struggenti. Ma Haneke anzichè far uscire un solo vagìto di umanità e commozione dalla camera-prigione in cui è rinchiusa Anne, indugia ossessivamente sui macabri rituali che la allontanano progressivamente dal marito: infermiere più o meno insensibili, stanchi e inutili esercizi di riabilitazione, pasti non consumati, medicine sul comodino, piaghe da decubito...

Isabelle Huppert
Con questo non voglio dire che il regista speculi sul dolore, questo no. Del resto già il prologo del film, ancora prima dei titoli di testa, mette le cose in chiaro su quello che vedremo da lì in poi. Però Haneke ha la pretesa, insensata, di volerci 'sorprendere' con drammi che ognuno di noi, più o meno direttamente, almeno una volta nella vita ha vissuto sulla propria pelle. Amour non ci racconta niente di nuovo, e nemmeno la straordinarie interpretazioni dei due attori protagonisti bastano a farci amare (perlappunto) un film stilisticamente perfetto ma, al solito, gelido e cinico verso lo spettatore.