mercoledì 28 novembre 2012

PADRONI DI CASA

(id.)
di Edoardo Gabbriellini (Italia, 2012)
con Valerio Mastandrea, Elio Germano, Gianni Morandi, Valeria Bruni Tedeschi
VOTO: ****/5

A volte ci sono film che ti viene voglia di vedere solo perchè ti piace la locandina, a scatola chiusa. Due lupi, maschio e femmina, vestiti da matrimonio: lei in bianco con una corona di fiori sulla testa, lui in abito scuro con i fiori nel taschino. Il manifesto di Padroni di casa, opera seconda di Edoardo Gabbriellini (l'indimenticabile protagonista di Ovosodo, chi non lo ricorda?) è inquietante e intrigante insieme: esattamente come la pellicola che ha diretto, quasi unica nel suo genere nel panorama italiano.

I lupi sono ovviamente i 'padroni di casa' del titolo: a cominciare da Fausto Mieli (un mefistofelico Gianni Morandi), cantante in declino che ha sacrificato la carriera per accudire la moglie inferma (interpretata da una grandissima Valeria Bruni Tedeschi). E adesso, visibilmente, non ne puole più. Non permetterà a niente e a nessuno di intralciargli la strada del possibile rilancio, compresa l'adorata mogliettina.
Ma i lupi sono anche, in senso lato, gli abitanti del piccolo paese di montagna dove Mieli vive rinchiuso nella sua lussuosa villa-prigione: gente che apparentemente lo adora ma che in realtà cova una profonda antipatia per un personaggio che, giocoforza, fagocita tutte le attenzioni. In paese 'non si muove foglia che Mieli non voglia', e questo a molti non va proprio giù...

Gianni Morandi e Valeria Bruni Tedeschi
In tale contesto si muovono anche due operai romani, fratelli dal carattere molto diverso (Valerio Mastandrea e Elio Germano), chiamati da Mieli a ristrutturargli la casa e che diventano, loro malgrado, la variabile impazzita di un sottile equilibrio che si regge unicamente sull'ipocrisia: saranno loro, inconsapevolmente, a far saltare il banco e gettare la piccola comunità in una spirale di odio e di violenza furiosa che erano latenti da anni.

Padroni di casa è un robustissimo film di genere, senza pretese autoriali ma che funziona a meraviglia: un noir 'de noantri', che comincia sotto forma di commedia e che piano piano insinua nello spettatore quel senso di disagio e di sospetto che infine troverà sublimazione nell'epilogo inevitabilmente 'catartico' (che non vi raccontiamo). Provocatoriamente, e volutamente esagerando, vi diciamo che potrete ritrovarvi in uno scenario 'alla Haneke', ovvero una pellicola subdola, comica in superficie eppure indiscutibilmente sgradevole, che mette a nudo tutte le bassezze di un paese come il nostro: violento, razzista, ipocrita, geneticamente poco incline ad aprirsi verso gli altri.

Elio Germano e Valerio Mastandrea
Non tutto funziona, a cominciare da una sceneggiatura che, specie verso la fine, vira pericolosamente verso una deriva 'splatter' da cinema americano medio... eppure si resta incollati alla sedia, aspettando di vedere che cosa accadrà. Il film è stato presentato al Festival di Locarno ed è uscito nelle nostre sale in sordina, stritolato dalla distrubuzione della grandi major. Se potete, provate a recuperarlo: ne resterete piacevolmente sopresi. Garantito.  

sabato 24 novembre 2012

ACCIAIO

(id.)
di Stefano Mordini (Italia, 2012)
con Matilde Giannini, Anna Bellezza, Michele Riondino, Vittoria Puccini
VOTO: ***/5

Per un beffardo scherzo del destino, Acciaio esce al cinema nel momento più nero della siderurgia italiana: inutile ricordare la drammatica vicenda dell'Ilva di Taranto e l'altrettanto drammatica situazione degli stabilimenti Lucchini di Piombino, a rischio chiusura e senza reali prospettive per il futuro. La vicenda di Acciaio è ambientata circa una decina di anni fa, quando il lavoro c'era ancora ma la crisi già si faceva sentire, lasciando preludere quello che sarebbe accaduto di lì a poco.

E' raro che in Italia si parli ancora degli operai e del lavoro in generale. Non ne parlano quasi mai nè i media nè tantomeno il cinema. Per questo bisogna dare atto a Stefano Mordini di aver avuto coraggio a cimentarsi in un' 'impresa' del genere... se potrà dirsi riuscita questo ce lo diranno solo gli incassi, ma intanto il film ha già registrato una buona accoglienza alla Mostra di Venezia, nient'affatto scontata per un prodotto italiano così diverso dai consueti canoni nazionali e piuttosto 'scomodo' per ciò che racconta.

Va infatti reso merito al regista di riportato, nel suo piccolo, l'attenzione e l'interesse del pubblico verso la lotta di classe e verso la crisi economica che colpisce le fasce più deboli, condizionandone in negativo anche la vita sociale. Tratto da un mediocre romanzo della bolognese Silvia Avallone, inspiegabilmente best-seller di qualche stagione fa, la versione cinematografica di Acciaio può dirsi riuscita proprio in quegli aspetti dove il libro falliva miseramente. Mordini ha infatti apportato piccole ma sostanziali modifiche alla trama, smussando molto gli aspetti pruriginosi relativi alla sessualità delle due giovanissime protagoniste, e spostando invece l'attenzione dello spettatore verso la fabbrica, autentico microcosmo specchio della deriva civile e culturale che stiamo vivendo.

Le vite di Anna e Francesca infatti sono irrimediabilmente condizionate dai fumi delle ciminiere e dalle fiamme dell'altoforno della Lucchini: viene fin troppo facile il simbolismo tra l'inferno dantesco e quello che si trova all'interno dello stabilimento, dove dei lavoratori che stanno al livello più basso della scala sociale si guardano in cagnesco tra loro per paura di perdere uno dei mestieri più umili e sottopagati che esistano. L'egoismo che deriva dall'ignoranza e dall' in-cultura sarà la molla che farà scattare la tragedia e, nel contempo, la disperata voglia di scappare delle due ragazzine.

Acciaio è tutto sommato un discreto prodotto, sincero, snello, semplice e senza fronzoli nella realizzazione. Certo non si può fare a meno di notare un certo stampo 'televisivo' di fondo, ma le convincenti prove delle due adolescenti (al loro debutto assoluto nel cinema) nonchè quella del sempre più bravo Michele Riondino contribuiscono non poco alla riuscita del film.
Non saremo dalle parti di Ken Loach, e nemmeno da quelle di Elio Petri. Però il risultato è più che sufficiente. Abbastanza per potervelo consigliare. 

lunedì 19 novembre 2012

JODIE 50 !

Ci siamo finalmente!! La 'nostra' Jodie oggi compie 50 anni, di cui 47 di carriera... nemmeno a scriverlo sembra vero! Noi abbiamo cominciato da tempo a renderle omaggio, riscoprendola con i suoi film più belli, uno ogni mese. E sorprendendoci ancora oggi della versatilità di una attrice/regista/donna straordinaria: l'abbiamo vista crescere (letteralmente) dietro la cinepresa, l'abbiamo ammirata in ruoli sempre diversi a seconda delle stagioni della sua (e nostra) vita, l'abbiamo seguita in ogni sua trasformazione artistica. Sì, Jodie ci piace parecchio, non l'abbiamo mai nascosto... non sarà una 'moral guidance' (come ha fatto con Clint Eastwood il settimanale FilmTv), ma per noi rappresenta la bravura, la professionalità, l'incarnazione per un lavoro che fin da subito le è entrato dentro. 

E allora glielo diciamo fortissimo: altri 100 di questi giorni, splendida Jodie !
 
La definizione più bella di lei l'ha data Jon Amiel, il regista di Sommersby: "Se esistesse una perfetta macchina per recitare, questa assomiglierebbe a Jodie", e in effetti in ogni film (bello o brutto che sia) si resta stupiti dalla professionalità, dalla bravura, dalla classe di questa immensa attrice, il primo "amore cinefilo"della mia vita... e pertanto non potevo non aprire questa rubrica con la mia "attrice del cuore", che mi ha accompagnato fino ad oggi regalandomi emozioni uniche, e pagine di celluloide di rara bellezza.
'Il silenzio degli innocenti', 1991

L'abbiamo vista tante volte Jodie, e ci ha sempre fatto palpitare: l'abbiamo vista col terrore negli occhi ne Il silenzio degli innocenti, aggrappata cocciutamente a un sogno impossibile e romantico in Contact, mutilata di capelli, anima e pietà in Sotto Accusa... l'abbiamo vista già a tre anni col culetto nudo e maliziosamente scoperto da un cagnaccio nella pubblicità della Coppertone, e quello stesso culetto (ben più sodo e stretto da striminziti hot-pants) pochi anni dopo in Taxi-Driver, dove aveva stregato perfino il guru Scorsese. E ancora, sorprendentemente e appassionatamente erotica in Ore Contate, filmaccio sconclusionato e "maledetto" di Dennis Hopper, e sporca, imbruttita e selvaggia in Nell, il suo ruolo più estremo. E come non ricordarla, raggiante, spiritosa e stronzetta in Maverick, accanto al gigione Mel Gibson, o ancora "adulta" e glaciale in Inside Man e Panic Room? Film diversissimi tra loro, non tutti memorabili, qualcuno assolutamente brutto, ma tutti tenuti a galla dalle straordinarie performance di questo scricciolo di soli 165 centimetri ma dotato di una tempra d'acciaio.

'Contact', 1997
Jodie Foster è una delle attrici più potenti e stimate di Hollywood, e ormai può permettersi di tutto, perfino di scegliersi i ruoli che vuole (prerogativa riservata a pochissimi eletti, speciamente in campo femminile e specialmente dopo i fatidici 'anta'), i personaggi da lei interpretati hanno tutti un comune denominatore: sono donne coraggiose, indipendenti, risolute e, soprattutto, sole. E la solitudine, come vedremo, sarà una costante della sua vita.

Jodie nasce a Los Angeles nel 1962, figlia di un padre violento e di una madre lesbica e sciroccata: sarà lei che dopo essere stata abbandonata dal coniuge "convincerà" la figlia, a soli tre anni, a girare spot pubblicitari per mandare avanti la baracca. E Jodie comincia così la sua carriera, sbattuta precocemente sopra un palcoscenico dal quale non si staccherà più: reclutata dalla Disney, che ha visto lungo sulle potenzialità della ragazzina, a tredici anni ha già girato 22 film. A quattordici ottiene il ruolo della vita: in Taxi Driver, Scorsese la fa recitare accanto a DeNiro facendole (s)vestire i panni di Easy, la baby-prostituta che batte il quartiere che Travis Bickle ha deciso di ripulire. La produzione, preoccupata, la fa affincare da uno psicologo, ma lei tranquillissima afferma che "so distinguere benissimo la realtà dalla finzione". E' la prima nomination all'Oscar, che la lancia nell'olimpo di Hollywood.

'Sotto accusa', 1988
Eppure la piccola non si monta la testa: a differenza di tanti altri baby-colleghi, caduti in disgrazia perchè travolti da una notorietà improvvisa e devastante, Jodie si muove nello star-system col piglio di una veterana: comincia ad amministrare i suoi affari da sola, staccandosi dalla mamma-manager scroccona e possessiva e dalle grinfie di un fratello invidioso e mediocre, e diventa una stella di prima grandezza, capace di far perdere la testa a registi e produttori. E non solo: nel 1980 un maniaco paranoico spara al presidente Reagan, motivando l'assurdo gesto come un modo per farsi notare dalla nostra Jodie, della quale è perdutamente innamorato...

'Taxi Driver', 1976
"Non ho mai avuto un'infanzia, un compagno di giochi, un fidanzatino... non ho avuto il tempo". E' una frase che la Foster ripete stesso, senza vergogna ma con gli occhi velati di malinconia. Ha avuto una vita senza respiro, problematica, travolgente, faticosa, e lo spettatore più attento non può non coglierne le tracce nei ruoli che interpreta nei suoi film: tutte parti di donne tese, caparbie, nevrotiche e, come dicevamo, drammaticamente sole. Una vita al massimo, come direbbe Vasco, nella quale non si è fatta mancare nulla, trovando il tempo perfino di imparare il francese e l'italiano (proprio così!), nonchè di laurearsi per ben DUE volte a Yale, naturalmente con il massimo dei voti... Fioccano le proposte, i premi, i film importanti: Sotto Accusa, del 1988, le regala il primo Oscar, seguito a ruota dal secondo, nel 1991, con Il silenzio degli innocenti, dove interpreta il personaggio forse più famoso della sua carriera, quello di Clarice Starling, giovane recluta dell'Fbi costretta a scendere a patti col crimanale-cannibale Hannibal Lecter, che le chiederà in cambio i suoi segreti più intimi: è un'interpretazione leggendaria per temperamento, magneticità, attrattiva. Solo Anthony Hopkins le starà al passo, ma resterà prigioniero del ruolo per tutta la vita. Jodie invece proseguirà ancora, regalandoci altre interpretazioni memorabili (Contact su tutte, film straordinario e sottovalutatissimo) e diventanto addirittura regista, dirigendo due film deliziosi e importanti come Il mio piccolo genio e il "gioiellino" A casa per le vacanze (purtroppo sconosciuto in Italia). All'età di trent'anni Jodie Foster ha già ottenuto tutto ciò che un attore sogna di ricevere in una carriera intera.

Da qui il desiderio di fermarsi, di dedicarsi a quella vita privata che non ha mai avuto. La sua decisione di avere due figli con l'inseminazione artificiale, senza rivelare il nome del padre, suscita scandalo nell'America benpensante e bacchettona, ma lei se ne frega altamente. Riservatissima sul proprio conto, solo molti anni più tardi farà "outing" rivelando di essere omosessuale, e prediligendo sempre compagne molto più grandi lei, quasi per non farsi mancare quell'amore materno, filiale, del quale non ha mai potuto godere... Jodie adesso è madre felice di due ragazzi, ormai quasi adolescenti, e si dedica al cinema solo per passione: sceglie i film in base al ruolo da interpretare e a ciò che gli trasmette il personaggio, compatibilmente con le sue esigenze di genitore: nessuno meglio di lei sa cosa vuol dire essere bambina-prodigio, con tutte le conseguenze che occorrono. Eppure anche lavorando 'part-time' riesce lo stesso a lasciare il segno, rinunciando anche all'idea di essere una one-woman-show: le sue interpretazioni in Inside Man e in Carnage sono piccole ma sempre impeccabili, a cui si aggiunge poi la sua terza prova da regista con Mr. Beaver: film particolarissimo, imperfetto, ma molto coraggioso, con cui non indugia a rimettersi in gioco. Anche a 50 anni!
Lunga vita, cara Jodie!

domenica 18 novembre 2012

FESTIVAL DI ROMA, OVVERO DELLA MEDIOCRITA'

Diversi lettori mi hanno scritto chiedendomi perchè non parlo mai del Festival di Roma: in effetti è vero, e potrei rispondere, semplicemente, che non ne parlo perchè non vi ho mai partecipato. Problemi di tempo, di lavoro, di ferie che non posso prendere quando voglio... Eppure non nego che mi piacerebbe trascorrere almeno un weekend nella Capitale, giusto per vedere 'l'aria che tira'. E magari prima o poi lo farò. Ma finora niente, anche perchè la ragione vera della mia indifferenza è dovuta soprattutto allo scarso 'appeal' di questa manifestazione, che non riesce a trovare la strada per diventare 'grande'. Ammesso che lo voglia davvero...

Il Festival di Roma nasce nel 2006, fortissimamente voluto da Walter Veltroni, il sindaco più cinefilo che Roma abbia mai avuto (più cinefilo che sindaco, a detta di qualcuno...). L'idea era quella di organizzare una rassegna che avrebbe dovuto rivolgersi al grande pubblico, con film di qualità ma non di nicchia, a prezzi economici e tante iniziative per avvicinare gli spettatori e farne un evento più 'popolare' possibile. Non a caso all'inizio la denominazione ufficiale era 'Festa' e non 'Festival', proprio a rimarcarne il carattere ludico e giocoso...

I problemi però nacquero subito: innanzitutto per la collocazione in calendario scelta (fine ottobre/inizio novembre) che suscitò immediatamente l'ira degli organizzatori della Mostra di Venezia, che vedevano come fumo negli occhi la nascita di un pericoloso concorrente (nonostante le poco credibili dichiarazioni di 'non belligeranza' pronunciate da Veltroni), ma anche per l'oggettiva difficoltà di portare a Roma star internazionali in grado di far decollare l'evento (specialmente quelle americane, sempre restìe a voli transoceanici poco remunerativi). Tuttavia bisogna riconoscere che nei primi anni qualche buon titolo lo abbiamo visto: sono passati dalla Capitale film belli e importanti come The Prestige, This is England, Juno, Onora il padre e la madre, Il vento fa il suo giro...

Poi, però, dopo un biennio di 'rodaggio' si arriva al 2008, ovvero l'anno-zero per il centrosinistra: in pochi mesi la geografia politica italiana cambia radicalmente: il debole governo Prodi crolla lacerato dalle lotte intestine, Walter Veltroni si immola a vittima sacrificale, abbandonando la carica di sindaco e accettando di sfidare Berlusconi in una missione impossibile, vale a dire le nuove elezioni. Tutti ricordiamo come finì: Veltroni venne sonoramente sconfitto alle politiche mentre, per la prima volta nella storia, Roma elesse un sindaco dichiaratamente di destra nella persona di Gianni Alemanno, salutata dai clacson di giubilo dei tassisti.

E anche per la neonata Festa il cambiamento non passò inosservato: Alemanno, da bravo e pragmatico ex-camerata, non usò giri di parole per far intendere che del giocattolino veltroniano non gliene poteva fregare di meno: non garantiva alcun guadagno (anzi...) e non c'era ragione di tenerlo in vita. Ma poi, raccattato di malavoglia qualche spicciolo da parte degli sponsor, e anche per non essere additato come il tipico sindaco rozzo e fascista che fa a pezzi la cultura, la rassegna continuò. Ovviamente nel segno della Destra e del conservatorismo: fatta fuori ogni velleità di rivolgersi al pubblico giovane e cinefilo (chiaramente di sinistra), al timone della presidenza viene nominato l'ottantaseienne Gian Luigi Rondi, che imprime una svolta da par suo: per prima cosa cambia il nome, che passa da 'Festa' a 'Festival' per accentuarne il carattere competitivo, sfoltisce drasticamente il numero dei film partecipanti e, appunto, la fa diventare una competizione con varie sezioni. Esattamente come Cannes, Berlino, Locarno e, ahimè, Venezia...

Già, Venezia. A questo punto la 'guerra' tra i due festival diventa dichiarata ed esplode nel più becero campanilismo italico: le due rassegne si 'rubano' i film a vicenda, con conseguenti feroci polemiche. Il ministro della Cultura, il veneto Galan, dichiara che 'in Italia un festival del cinema basta e avanza' (lascio a voi indovinare quale...). Alemanno risponde che lui non vede nemmeno con la lente d'ingrandimento i munifici contributi statali che arrivano in laguna, e che la sua manifestazione è finanziata quasi totalmente dagli sponsor. Dal Lido rispondono a loro volta che finchè il clima è questo, di collaborazione non se ne parla. Alla fine si arriva a una 'tregua armata': Roma accetterà di spostare 'un pochino' in avanti la sua collocazione in calendario, Venezia garantisce che non interferirà sulle selezioni. Sarà così? La risposta è ancora più retorica della domanda... lo dimostra, è storia recente, il 'ratto' del nuovo direttore artistico Marco Muller, in rotta con gli organizzatori veneziani e sbarcato in pompa magna sulle rive del Tevere.

Fattostà che il Festival di Roma oggi è esattamente quello di quattro anni fa: una creatura ibrida, nè carne nè pesce, malvoluta dalla politica, non troppo sentita dal pubblico, troppo grande per essere un festival di nicchia e troppo piccolo per competere con le grandi e storiche rassegne cinefile. Qualche buon film lo si vede ancora, ma quasi tutti fuori concorso e invitati dai (pochi) sponsor. Di star se ne vedono pochine, il tappeto rosso è troppo spesso desolatamente calpestato da carneadi, i prezzi non sono più così bassi come prima. Ma il vero problema è il Concorso, ovvero la sezione competitiva, 'anima' di qualsiasi festival: qualche film discreto, qualche titolo di buon livello che si eleva sopra la media, ma nel complesso una selezione scarsina e poco appetibile. Del resto, basta scorrere l'albo d'oro per rendersene conto...

Già, l'albo d'oro. Sono di queste ore le feroci polemiche sul verdetto, a detta di tanti 'ignobile', soprattutto verso E la chiamano estate di Paolo Franchi (ma molti non hanno gradito nemmeno il vincitore, Marfa Girl). Non avendo visto nessun film, ovviamente non mi pronuncio. Ma mi permetto di insinuare una cosa: è un vecchio trucco, in tempi di vacche magre (cinematograficamente parlando) quello di premiare film controversi, scandalosi, o magari semplicemente brutti, allo scopo di catalizzare l'opinione pubblica e fare pubblicità gratuita alla rassegna. Insomma, il vecchio detto 'parlatene male purchè ne parliate' è sempre valido. Soprattutto per un festival sempre più mediocre e sempre più ignorato dai media.
E, lasciatemelo dire, anche abbastanza inutile. Almeno per come è adesso.

giovedì 15 novembre 2012

ARGO

(id.)
di Ben Affleck (USA, 2012)
con Ben Affleck, John Goodman, Bryan Cranston, Alan Arkin
VOTO: ****/5

Ben Affleck mi sta sempre più simpatico! E' il classico americano wasp: monoespressivo, mascella prominente, lampadato e col fisico scolpito... uno così non lo faresti recitare nemmeno in una recita scolastica per beneficenza, figuriamoci poi se cammuffato con capelli lunghi stile anni '70 e barba e baffi posticci per sembrare ispanico: una caricatura! Eppure lui ti riesce a stupire lo stesso, non solo per l'umiltà con cui si sforza di apparire credibile come attore (e ce ne vuole!), ma soprattutto per la disinvoltura con cui passa dietro la macchina da presa dimostrando di essere un regista coi controfiocchi! Lo aveva già fatto in passato con il bellissimo Gone baby gone e col più convenzionale The Town. E adesso, possiamo dirlo, con Argo supera brillantemente il suo esame di laurea (quello del terzo film, il più difficile).

Argo è un film hollywoodiano fino al midollo, nell'accezione più positiva del termine: è spettacolare, avvincente, forse 'esagerato', di sicuro molto godibile. E' la classica 'americanata' (anche qui in senso buono) che farà imbestialire tutti coloro che odiano il mainstream a stelle e strisce e non vogliono ammettere che anche il cinema commerciale, quando è ben fatto, può raggiungere livelli di assolutà qualità. In questo caso, poi, non possono nemmeno appellarsi all'inverosimilità della storia poichè... beh, come solo in America succede, questa storia è talmente incredibile da essere vera. E vale la pena di essere raccontata!

Ben Affleck versione 'anni '70'
I fatti: nel 1979 l'esercito rivoluzionario iraniano irrompe con la forza nei locali dell'ambasciata statunitense a Teheran. Ad accompagnare i guerriglieri c'è una folla esagitata che vuole a tutti i costi la riconsegna dello Scià, ovvero del feroce dittatore che fino a pochi giorni prima aveva governato il paese con il pugno di ferro (e con la silenziosa complicità degli Stati Uniti). Ma lo Scià non si trova più nell'ambasciata, è già al sicuro da tempo in un ospedale americano. In mancanza di meglio, i soldati imprigionano e prendono in ostaggio una sessantina di diplomatici. Succede però che sei di loro, i più vicini ad un'uscita secondaria, riescono a scappare e a rifugiarsi clandestinamente nella sede dell'ambasciata canadese, distante poche centinaia di metri. Sono per il momento al sicuro, ma adesso si pone il problema della loro liberazione: come farli rientrare in patria eludendo la sorveglianza della guardia rivoluzionaria?

Per un impresa apparentemente impossibile ci vorrebbe una soluzione altrettanto impossibile... si vagliano le ipotesi più disparate (e disperate) ma nessuna pare praticabile. Finchè alla fine uno degli agenti della Cia più 'esperti' in materia, l'ispanico Tony Mendez, ha un'idea tanto folle quanto geniale: fingere di girare un kolossal hollywoodiano di fantascienza, imbastendo una vera casa di produzione, basandosi su una vera sceneggiatura (scelta tra le tante scartate dagli studios perchè troppo trash), con veri attori e una vera troupe. Ovviamente la produzione batterà bandiera canadese (!) e si recherà a Teheran per... fare sopralluoghi! E a quel punto i sei diplomatici dovranno imparare in poco più di 48 ore a diventare attori, l'unica loro 'copertura' possibile...

E qui sta il bello di Argo: a modo suo, Affleck celebra Hollywood in tutti i suoi aspetti: come fabbrica dei sogni e come luogo in cui tutto diventa possibile, a dimostrazione che il cinema può davvero cambiare la vita delle persone. E ci piace pensare che Affleck l'anno scorso abbia visto e preso spunto sia da The Artist che Hugo Cabret, due film che celebravano la potenza e la suggestione delle immagini, ma realizzati ben distanti dai capannoni losangelini. Ecco, noi crediamo che Argo sia la risposta in grande stile della vecchia Hollywood, quella che è ancora capace di fare intrattenimento intelligente e spettacolare, come ai tempi d'oro... Argo è la storia di un film mai realizzato, eppure più vero della finzione. E merita applausi a scena aperta: specialmente nel finale, quando sebbene tutti gli spettatori sappiano come va a finire, il ritmo e la tensione della pellicola li tengono incollati alla poltrona. Pura e sana suspance hollywoodiana! Menzione speciale ai sei attori che intepretano i 'fuggitivi', nonchè alla 'strana coppia' composta da John Goodman e Alan Arkin, nei panni rispettivamente di un geniale 'mago' del make-up e di un cinico produttore in pensione: le loro battute sono musica per le nostre orecchie!

domenica 11 novembre 2012

AMOUR

(id.)
di Michael Haneke (Austria/Francia/Germania, 2012)
con Jean-Louis Trintignant, Emmanuelle Riva, Isabelle Huppert
VOTO: ***/5

"La cosa più brutta della vecchiaia è il ricordo di quando si era giovani", faceva dire David Lynch al suo anziano protagonista in quel film magnifico che è Una storia vera. La stessa cosa la pensa Anne (Emmanuelle Riva) quando, ormai paralizzata e inferma, sfoglia i vecchi album di fotografie che ritraggono immagini della sua giovinezza perduta. E' l'unico momento di Amour dove, davvero, la commozione si ritaglia un po' di spazio in un film che, nel consueto stile Haneke, è tanto perfetto e rigoroso nella messinscena quanto glaciale e livido a livello emotivo.

Certo, era impossibile aspettarsi da Haneke un qualcosa di diverso: il suo è da sempre un cinema disturbante, asettico, cupo, espressione di un mondo ingiusto e senza vie d'uscita. Ma se questi elementi facevano del suo film precedente, Il nastro bianco, un capolavoro di rigore storico e assoluto valore sociologico, in Amour le stesse caratteristiche 'spengono' un film che, fin dal titolo, vorrebbe essere una dichiarazione di amore estremo, totalizzante, tra due persone che si sono giurate fedeltà eterna e che invece la malattia costringe a separarsi.

Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva
Amour, banalmente, dovrebbe parlare di amore. Invece mostra solo sofferenza: per oltre due ore ci viene mostrato, senza omettere niente, il progressivo disfacimento fisico e mentale di una persona fino a pochi istanti prima capace di intendere, volere e, soprattutto, amare. Intendiamoci, non è che l'amore non sia presente in questo film: la dedizione e l'affetto che il marito Georges (Jean-Louis Trintignant) dedica all'amata consorte sono struggenti. Ma Haneke anzichè far uscire un solo vagìto di umanità e commozione dalla camera-prigione in cui è rinchiusa Anne, indugia ossessivamente sui macabri rituali che la allontanano progressivamente dal marito: infermiere più o meno insensibili, stanchi e inutili esercizi di riabilitazione, pasti non consumati, medicine sul comodino, piaghe da decubito...

Isabelle Huppert
Con questo non voglio dire che il regista speculi sul dolore, questo no. Del resto già il prologo del film, ancora prima dei titoli di testa, mette le cose in chiaro su quello che vedremo da lì in poi. Però Haneke ha la pretesa, insensata, di volerci 'sorprendere' con drammi che ognuno di noi, più o meno direttamente, almeno una volta nella vita ha vissuto sulla propria pelle. Amour non ci racconta niente di nuovo, e nemmeno la straordinarie interpretazioni dei due attori protagonisti bastano a farci amare (perlappunto) un film stilisticamente perfetto ma, al solito, gelido e cinico verso lo spettatore.  

venerdì 9 novembre 2012

BALLATA DELL'ODIO E DELL'AMORE

(Balada triste de trompeta)
di Alex De La Iglesia (Spagna, 2010)
con Carlos Areces, Antonio De La Torre, Carolina Bang
VOTO: ****/5
No, non è un errore di battitura: questo film è stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia del 2010 (!), ed esce quindi nelle sale italiane a due anni di distanza... misteri (tragici) della nostra distribuzione! Ve lo dico subito però, è valsa la pena aspettare: perchè un film di Alex De La Iglesia merita a prescindere di essere visto, aldilà che piaccia o meno. Il regista spagnolo è uno di quelli che o lo si ama o lo si odia, senza mezze misure, ma di sicuro i suoi film lasciano il segno. Indelebile. A patto di essere preparati alla visione.

Ballata dell'odio e dell'amore è infatti una pellicola a tinte fortissime, volutamente macabra, sempre costantemente sopra le righe e sempre eccessiva, un autentico ‘delirio’ visivo di indiscutibile potenza e temerarietà. Film coraggioso e 'esagerato', in bilico tra il fumetto e l’horror, sicuramente non per tutti (si allontanino coloro che sono di stomaco debole e amanti del cinema iper-autoriale… insomma, astenersi perditempo!). E' un film che all'epoca fece andare in brodo di giuggiole perfino Quentin Tarantino, che in quell'occasione era presidente di giuria e cercò fino all'ultimo di candidarlo al Leone d'Oro, salvo poi far vincere la sua ex-fidanzata Sofia Coppola (era l'anno di Somewhere).

E non c'è da stupirsi che al prode Quentin fosse piaciuto: il film un ‘concentrato’ di tutto quello che è la ‘summa’ del cinema tarantiniano: azione, violenza, sesso, orrore, morte, humor nero…
Un avvertimento, però, anche ai fan di Tarantino: non aspettatevi certo di vedere un videogame pieno di morti e sangue a ritmo di musica,. sullo stile di Kill Bill: qui la violenza, seppure in quantità industriale, non è gratuita e non è mai fine a se stessa. E soprattutto il film è inserito in un contesto storico particolare, che ha un’importanza e una morale fondamentale per la sua comprensione.

La storia è quella di due artisti circensi che, nella Spagna franchista (attenzione a questo ‘piccolo’ dettaglio…), si contendono l’amore di una bella trapezista. I due sono totalmente diversi per carattere e idee: Sergio, capo-clown, è sanguigno, tirannico, ubriacone e donnaiolo. Javier, pagliaccio triste, è timido e compassato, ma dentro di sè ha un insaziabile desiderio di vendetta verso il regime e i despoti in generale, e questo in seguito alla morte violenta del padre, ucciso dalle truppe governative. I due si trovano ben presto in conflitto tra di loro, reclamando entrambi il cuore della donna: una gelosia che li farà impazzire, massacrandosi a vicenda in modo così cruento da far rivoltare lo stomaco anche degli spettatori più smaliziati, e riducendosi a due penosi ‘freaks’ che faranno inorridire anche la persona amata.

La morale è evidente, ma non banale: le dittature e i regimi totalitari possono trasformare e far impazzire chiunque, anche la gente ‘normale’, forse la più incapace di comprendere i motivi di tanta rabbia, odio e orrore, e quindi più vulnerabile di altri…
E’ curioso notare che a quella Mostra del Cinema era presente anche un’altra pellicola che, per certi versi, ha moltissime similitudini con questa, pur essendo stilisticamente ben diversa: si tratta di Post Mortem di Pablo Larrain: anch’essa infatti ‘parla’ spagnolo, ha una rivoluzione sullo sfondo (quella cilena, e anche l’anno è lo stesso: il 1973!) , e tratta di una persona apparentemente ‘normale’ che gli eventi trasformano tragicamente. Due modi diversi di fare cinema, ma che conducono allo stesso fine.
Anche questo è il bello dei Festival, dopotutto.

venerdì 2 novembre 2012

LE BELVE

(Savages)
di Oliver Stone (USA, 2012)
con Taylor Kitsch, Aaron Johnson, Blake Lively, Benicio Del Toro, John Travolta, Salma Hayek
VOTO: ***/5

Violento. Sconclusionato. Eccessivo. Sempre sopra le righe. Eppure divertentissimo, anche se non sapremo mai quanto auto-ironico: Oliver Stone, lo sappiamo, è forse il regista americano col più basso senso dell'umorismo in assoluto, e quindi il sospetto che si prenda sempre troppo sul serio è forte... eppure lo dobbiamo ammettere: Le belve è il suo film più riuscito da almeno dieci anni a questa parte, dieci anni in cui il cineasta newyorchese ha toccato i punti più bassi della sua carriera, inanellando flop clamorosi (Alexander, World Trade Center, Wall Street-il denaro non dorme mai). Tratto dall'omonimo romanzo di culto di Don Winslow (qui anche in veste di sceneggiatore), Le belve ci riporta indietro nel tempo e agli anni d'oro della filmografia di Stone, per capirci ai tempi di U-Turn e, soprattutto, di Assassini nati, titoli dai quali quest'ultimo lavoro attinge in maniera evidente. Pur ovviamente non raggiungendo gli stessi livelli.

La storia è quella di due amici per la pelle, Chon e Ben, che hanno fatto fortuna in California grazie al commercio illegale di marijuana e alla copertura di un poliziotto corrotto. I due (interpretati da Taylor Kitsch e Aaron Johnson) sono tanto diversi caratterialmente quanto affiatati nella vita: il primo è un ex-marine rozzo e impulsivo, reduce dalla guerra in Afghanistan. L'altro un botanico di fede buddista, dolce e misurato. Nel romanzo di Winslow, a dire il vero, la loro 'amicizia' sfocia anche in qualcosa di più... ma Stone (per sua stessa ammissione) ha preferito smussare le tendenze bisex dei due, preoccupato delle ripercussioni del bigottissimo pubblico medio americano. Chon e Ben nella vita condividono tutto: affari, interessi, abitazione, perfino la stessa donna (l'insipida biondona Blake Lively). Tutto funziona a meraviglia finchè il pericoloso cartello dei narcotrafficanti messicani guidati dalla spietata Reina (una Salma Hayek non a caso acconciata come Cleopatra) decide di mettere le mani sulla loro attività...

Non vi sto a dire altro sulla trama: non è importante nè molto originale. Quello che conta è il ritmo, incalzante come nei film dello Stone prima maniera, e la bella confezione generale (ottimi montaggio, fotografia e sonoro). Le belve è un pirotecnico western moderno che spesso e volentieri sfocia nella violenza più bruta, pur tuttavia senza mettere mai troppo a disagio lo spettatore, estremizzando le situazioni 'pulp' fino a renderle di proposito grottesche e surreali (e perciò innocue). Poco importa se i dialoghi in più di un'occasione sfiorano il ridicolo e la sceneggiatura è piena di 'acrobazie' per rendere credibile la storia. Stone, lo si vede chiaramente, è tornato a divertirsi da matti dietro la macchina da presa, e in questi frangenti lo script è quasi un pretesto.

Ma poco importa. Preferiamo mille volte pellicole come questa ai titoli molto più impegnati (e tremendamente brutti) da lui girati di recente. Le belve ha il merito di tenere sempre sulla corda chi guarda, nonostante la lunghezza (due ore e dieci minuti) e un doppio finale troppo didascalico di cui si poteva forse fare a meno... Discreti gli interpreti (a parte la spilungona Lively, talmente anonima da passare inosservata malgrado le sue gambe chilometriche e il fondoschiena sempre generosamente esposto). I giovani se la cavano abbastanza, ma i 'veterani' sono di un altro livello: nella fattispecie, un cattivissimo Benicio Del Toro (capelli cotonati e pistola sempre calda) e uno stronzissimo John Travolta, imbolsito e con la calvizie incipiente, eppure decisamente il migliore.