sabato 29 dicembre 2012

LOVE IS ALL YOU NEED

(id.)
di Susanne Bier (Danimarca, 2012)
con Pierce Brosnan, Trine Dyrholm, Molly B. Egelind, Sebastian Jessen
VOTO: **/5

Magari è vero che noi italiani siamo un po' troppo suscettibili e permalosetti quando gli stranieri speculano sui nostri luoghi comuni, però dobbiamo ammettere che se vediamo un film danese ambientato a Sorrento, con 'That's amore' di Dean Martin sparata a tutto volume ancora prima dei titoli di testa e decine di fermo immagine sui tramonti della Costiera ripetuti fino allo sfinimento... beh, forse è fisiologico avere qualche pregiudizio! Certo, Umberto Eco parlando di Casablanca affermava che 'due clichè fanno ridere, cento commuovono': però (purtroppo per lei) Susanne Bier non è Michael Curtiz, così come Pierce Brosnan non è Humphrey Bogart. Insomma, la differenza c'è, e si vede pure...

Intendiamoci, non è che questa commedia dichiaratamente romantica girata dalla regista premio Oscar per In un mondo migliore sia inguardabile, tutt'altro. Alla fine si tratta di un film godibile, e tutto sommato anche divertente. Il problema è che è terribilmente scontato, oltre che piuttosto modesto a livello di sceneggiatura: una coppia di giovani innamorati danesi decide di convolare a nozze nel luogo dove si sono conosciuti (a Sorrento, appunto). Arrivano quindi i genitori di entrambi: la mamma della sposina è reduce da un ciclo di chemioterapia per allontanare un tumore al seno ed ha appena scoperto che, durante le cure ospedaliere, il marito inetto la tradiva per una giovane impiegata. Il padre di lui invece è un vedovo inconsolabile che non è mai riuscito a farsi accettare dal figlio. Non ci vuole molto a capire che la cerimonia nuziale sarà il teatro della resa dei conti.

Love is all you need attinge un po' da Mamma Mia, un po' dalla filmografia scandinava contemporanea (come non pensare a Festen di Vinterberg?), con il matrimonio come tema ricorrente. Susanne Bier è una brava regista autrice di ottimi film drammatici, ma si vede lontano un miglio che non è a suo agio con la commedia: tutto resta nel limbo dei panorami sorrentini e delle piante di limone, e il film non decolla mai. Il ritmo è trattenuto, sospeso, solo in certi momenti (ben realizzati) lo spettatore si scioglie e commuove. Ma forse è sempre la freddezza 'nordica' a prendere il sopravvento. Alla faccia dei luoghi comuni!

mercoledì 26 dicembre 2012

LA PARTE DEGLI ANGELI

(The Angels' Share)
di Ken Loach (GB, 2012)
con Paul Brannigan, John Henshaw, William Ruane, Jasmin Riggins, Gary Maitland, Roger Allam
VOTO: ****/5

Anche la meravigliosa e poverissima Scozia possiede un suo tesoro: è liquido, e si fa con la torba, il malto e il lievito: la 'parte degli angeli' non è altro che la piccola quantità di whisky che evapora nell'aria durante il processo di fermentazione, e nel colorito slang locale viene simpaticamente considerata il 'pizzo' da pagare al Padreterno per aver regalato a noi poveri mortali la ricetta del prezioso nettare. Basterebbe solo questo assunto per farci amare l'ultimo film del 'compagno' Ken Loach, che a 76 anni continua imperterrito e coerente a fare il cinema che vuole, forse meno 'arrabbiato' di un tempo ma sempre pervicacemente dalla parte di chi non ha voce in capitolo nella scala sociale.

I veri angeli stanno soprattutto sulla terra, sembra dirci l'ateo Ken: nella fattispecie sotto le spoglie di Harry, bonario e corpulento assistente sociale, grande esperto di whisky, che trasmette la propria passione al gruppetto di poveracci che ha in affidamento, scorrazzandoli per tutta la Scozia in giro per distillerie. Tra questi il più sveglio e smaliziato è il giovane Robbie, cresciuto nei bassifondi di Glasgow e padre di un figlio appena nato al quale vorrebbe assicurare un futuro migliore. Sebbene all'inizio Robbie segua Harry soltanto per poter bere a sbafo durante le degustazioni, ben presto il ragazzo si appassiona alla materia, scoprendo di avere un ottimo 'naso' nel riconoscere il whisky. Finchè un giorno, durante un incontro, viene a sapere che a pochi chilometri da Edimburgo si terrà un'asta per aggiudicarsi un'intera botte del miglior whisky del mondo, valutata oltre un milione di sterline...

A questo punto possiamo divertirci a trovare ne La parte degli angeli tutti i rimandi cinefili che vogliamo: a partire da Paul, Mick e gli altri, dello stesso Ken Loach, per il tono scanzonato e lieve del film e per lo 'spirito di solidarietà' che s'instaura tra i protagonisti. Oppure, perchè no, anche Miracolo a Le Havre di Kaurismaki (fu il film natalizio di qualità dell'anno scorso) per la tenerezza e la dignità col quale 'Ken il rosso' riesce a descrivere una realtà dura e squallida come quella delle periferie urbane d'oltremanica. Ma, consentitecelo, a noi questa pellicola pare proprio (ci piace crederlo) un affettuoso omaggio a I soliti ignoti, uno dei nostri film più belli, importanti e imitati al mondo: Loach confeziona infatti una trama spassosissima e goliardica, che altro non è che la cronaca del tentativo di furto che potrebbe rivoltare come un calzino la vita del gruppetto di disperati, i quali si mettono in testa di rubare la preziosissima botte con un piano tanto ridicolo quanto geniale...

Ovviamente non vi diciamo qui come andrà a finire, nè del resto questo è importante. Quello che conta è lo spirito del film, lucidamente coerente con il Loach-pensiero: in un mondo dove aumentano le diseguaglianze sociali, e dove la politica non solo non fa niente per limarle ma, anzi, si scopre sempre più impotente e distante dalle categorie più deboli, l'unica speranza è affidarsi all'umanità della gente: noi che stiamo meglio abbiamo il dovere di dare una possibilità a chi sta economicamente sotto di noi. Che non vuol dire elemosina o commiserazione, ma un aiuto concreto per aiutare queste persone a camminare con le proprie gambe.
Se proprio non sapete come fare, lasciate perdere i cinepanettoni e andate a vedere La parte degli angeli: non vi cambierà la vita, ma vi farà stare meglio e, magari, vi farà venire qualche idea.

domenica 23 dicembre 2012

LO HOBBIT: UN VIAGGIO INASPETTATO

(The Hobbit: Part 1)
di Peter Jackson (Nuova Zelanda/USA, 2012)
con Martin Freeman, Richard Armitage, Ian McKellen, Cate Blanchett, Christopher Lee, Andy Serkis
VOTO: ***/5

E' sempre più difficile stupire, nell'era di internet, del digitale, del 3D e delle proiezioni a 48 fotogrammi al secondo... Dieci anni fa la trilogia de Il Signore degli Anelli ci aveva lasciati stupefatti e increduli di fronte a un'opera che all'epoca non esitammo a definire 'definitiva': quelle dodici ore complessive di film (considerate le versioni estese) ci erano parse inarrivabili per tecnica e capacità espressiva. A Peter Jackson rendemmo merito per aver rilanciato un genere, il fantasy, che appariva morto e sepolto e che invece seppe risorgere grazie alla 'lucida follia' di un regista coraggioso e megalomane, capace di trasporre egregiamente sullo schermo il romanzo più famoso e, si diceva, il più difficile di tutti da filmare...

Ma a Jackson piacciono le grandi sfide, ormai è evidente. E dieci anni dopo torna sul luogo del delitto, cimentandosi in un'impresa se possibile ancora più ardua: una nuova trilogia che altro non è che il prequel della precedente, con l'obbiettivo di renderla ancora più spettacolare e memorabile grazie anche alle sempre più sofisticate tecniche di ripresa. Premessa doverosa e necessaria: anche Lo Hobbit, come già Il Signore degli Anelli, è stato diviso in tre parti per ragioni puramente commerciali: ma si tratta di un'opera unica, girata tutta nello stesso momento, e che perciò andrebbe valutata nella sua interezza. Per farlo però bisognerà aspettare ancora due anni (il contratto prevede l'uscita nelle sale di un film all'anno). Per il momento, quindi, limitiamoci solo alle prime 'impressioni'...

La prima cosa che salta agli occhi di questo primo capitolo è senz'altro la 'dilatazione' del tempo: se ne Il Signore degli Anelli il regista lavorava di sintesi (tre film di tre ore e passa l'uno erano appena sufficienti per realizzare una versione attendibile della monumentale saga tolkeniana), ne Lo Hobbit accade esattamente l'opposto: un unico libro, neanche lunghissimo, viene diviso in tre parti. E con la prima di queste, Un viaggio inaspettato, non si arriva nemmeno a metà del romanzo. 174 minuti di pellicola per raccontare, in pratica, solo l'antefatto della storia. Troppi? Necessari? Difficile dirlo... Certo possiamo intuirne il motivo: Jackson doveva in qualche modo 'presentarsi' alle nuove generazioni (quelle che non hanno mai letto Tolkien e avevano bisogno di un minimo di spiegazione) e, nello stesso momento, 'riconquistare' i cuori degli spettatori della vecchia trilogia, 'orfani' e nostalgici dei personaggi di un tempo.

Ecco perchè, in pratica, tutta la prima ora del film viene dedicata alla presentazione dei personaggi e ai loro 'collegamenti' con la vecchia trilogia: il regista, astutamente, ricorre subito al flashback in modo da gettare nella mischia fin dall'inizio i vari Bilbo, Frodo, Gandalf e compagnia... in questo modo vecchie e nuove generazioni di spettatori si uniscono ed è anche più facile seguire la trama. C'è però il rovescio della medaglia: a farne le spese è inevitabilmente il ritmo della pellicola, che all'inizio è veramente noiosetta e poco interessante, dominata da un'antipatica voce-off che ci spiega (fin troppo dettagliatamente) quello succederà di lì a poco. Peccato però che, appunto, per un'ora non succede niente e gli sbadigli si susseguono impietosi, nonostante il bellissimo 3D e le riprese mozzafiato dei tipici paesaggi tolkeniani.

Poi però si passa all'azione, e il discorso cambia: qui Jackson finalmente torna a lidi a lui più congeniali e i risultati si vedono: il ritmo e la tensione aumentano vertiginosamente, e con essi le scene più spettacolari. Le battaglie con i Troll, il duello tra le montagne 'vive', la fuga tra le caverne degli Orchi, i precipizi di GranBurrone riportano la pellicola sui livelli a cui eravamo abituati. Entrano in scena anche i personaggi 'storici' dell'epopea: ritroviamo il subdolo Saruman, l'elfo Elrond, la bellissima ed eterea Galadriel e, ovviamente, il viscido Gollum, del quale scopriamo finalmente come abbia fatto a farsi 'fregare' il suo celeberrimo 'tessssoro', ovvero l'anello che Bilbo custodirà per quasi sessant'anni prima di scatenare il finimondo...

Insomma, il primo episodio de Lo Hobbit è una specie di 'passerella' tra il vecchio e il nuovo, dove inevitabilmente il confronto con la precedente trilogia si fa sentire e getta un'ombra pesante. Sarà per questo che Jackson ha decisamente cambiato anche il metodo di approccio alla storia: rispetto alla 'sacralità' de Il Signore degli Anelli, infatti, Lo Hobbit ha un tono molto più confidenziale, sbarazzino, fanciullesco, a tratti anche volgarotto, certamente molto meno 'formale'. Nonostante questo, però, è utopia sperare che questo film ci coinvolga emotivamente quanto i precedenti. Vero è che, come dicevamo, questo è solo il 'primo tempo' di tutta la saga e mancano ancora molti elementi determinanti (ad esempio, non c'è ancora un vero cattivo: Sauron e il drago Smaug entreranno in scena nei prossimi film) ma, semplicemente, la verità è che ormai lo spettatore è abituato a tutto ed è sempre più difficile stupirlo, appunto, con gli effetti speciali. Lo Hobbit si lascia guardare, in certi punti ci fa palpitare, in generale ci piaciucchia, ma certo la 'meraviglia' non abita più da queste parti...

domenica 16 dicembre 2012

NATALE: ADDIO AL CINEPANETTONE, MA LA QUALITA' NON DECOLLA... MANUALE DI SOPRAVVIVENZA PER CINEFILI


Meno dieci giorni a Natale: ovvero, cinematograficamente parlando, i dieci giorni più 'caldi' dell'intera stagione (temperatura a parte). E' in questi dieci giorni che infatti si decidono le sorti commerciali delle grandi major, in quanto in questo brevissimo ma intenso periodo di tempo si portano a casa quasi la metà degli incassi di tutto l'anno. La battaglia perciò è campale: a Natale tutti vanno al cinema, anche chi non lo fa mai per i restanti 364 giorni, e quindi ogni casa di produzione scende in campo con i 'grossi calibri': quei film, cioè, che sono stati pensati, prodotti e girati per un solo unico scopo: portare a casa più soldi possibile.

Non staremo qui a discutere se i cosiddetti 'cinepanettoni' siano più o meno passati moda... onestamente non ce ne frega niente. Il problema è un altro: è evidente che la 'battaglia' natalizia, puntando giocoforza sul grande pubblico, nel nostro strano paese privilegia esclusivamente l'aspetto commerciale rispetto a quello qualitativo. Basti guardare i dati relativi alle uscite di questa settimana: tre soli film si dividono circa l' 80% delle sale del nostro paese: 750 copie per Lo Hobbit, 700 a testa (circa) per Colpi di fulmine e Tutto tutto niente niente. E per chi volesse vedere qualcosa di appena appena meno dozzinale, o quantomeno più 'cinefilo'? Briciole. Appena venti copie per La parte degli angeli, l'ultimo film di Ken Loach, poche più per Love is all you need di Susanne Bier, visto a Venezia.

Questo che significa? Niente di buono, ovviamente... innanzitutto che lo spettatore italiano medio, quello che va al cinema il giorno di Natale, è culturalmente inetto. Sarò brutale, ma i numeri sono lì a dimostrarlo. Secondo, cosa ben più grave (ma conseguente alla prima) che questo 'imbarbarimento' di fondo ha effetti devastanti per tutto il settore cinematografico: è risaputo infatti che il cinema commerciale 'vive' soprattutto nei cinema multisala, quelle enormi megastrutture da 15-20 sale cadauna che sono sorte come funghi nelle immediate periferie delle città e che fagocitano la stragrande maggioranza del pubblico. Mentre, al contrario, lo spettatore-cinefilo, poco attratto da questi rutilanti casermoni, preferisce magari starsene a casa a leggere un libro anzichè farsi anche 50 km per vedere, magari, l'unico film d'essai proiettato nella propria regione...

Insomma, è evidente che la miopia dei distributori italiani fa sì che la situazione peggiori di anno in anno: per accaparrarsi più soldi possibile in questi dieci giorni si rischia di compromettere la cultura cinematografica nel nostro paese. La catena è semplice: i multiplex rubano incassi alle piccole sale di città, che si vedono costrette a chiudere in quanto impossibilitate a fare concorrenza a questi colossi. Però le sale cittadine sono anche quelle che proiettano in maggior parte film di qualità: pertanto, scomparendo, diventa sempre più difficile trovare una distribuzione decente per questi ultimi. Teorema supportato anche dai numeri che, come sempre, rivelano molte soprese a seconda di come si leggono...

E' facile infatti sostenere che in Italia il cinema di qualità è in crisi, e in effetti guardando gli incassi la situazione è incontestabile: film belli e importanti come Bella addormentata, E' stato il figlio, L'intervallo, nonostante il traino della Mostra di Venezia, hanno incassato pochissimo. Così come le ultime opere di Virzì e Soldini, per non parlare di Reality di Matteo Garrone: film bellissimo, premiato a Cannes, eppure ignorato dal pubblico. Esattamente come Pietà di Kim-Ki Duk, l'ultimo Leone d'Oro del Lido, che ha portato a casa nell'intera programmazione la stessa cifra che Lo Hobbit guadagna in mezza giornata di tenitura. Se però, cosa che nessuno dice, facciamo il rapporto tra spettatori paganti e numero di sale in cui il film è programmato... ecco che arrivano le sorprese! E si scopre così che Amour di Michael Haneke, distribuito in sole 32 sale in tutto lo stivale, ha la media.pubblico più alta della stagione! E anche Io e te di Bertolucci e Killer Joe di Friedkin non sono da meno.

Spiegazione? Semplice: che esiste, anche in Italia, un pubblico culturalmente più elevato e più cinefilo che, se gli venisse data la possibilità, andrebbe a vedere anche i film più impegnati. Ma è chiaro che qui da noi si privilegia da sempre la teoria del 'tutto e subito', senza preoccuparsi del futuro.
Ma questo, purtroppo, non vale solo per il cinema...
Buon Natale.

domenica 9 dicembre 2012

IL SOSPETTO

(Jagten/The Hunt)
di Thomas Vinterberg (Danimarca, 2012)
con Mads Mikkelsen, Thomas Bo Larsen, Annika Wedderkopp, Alexandra Rapaport, Susse Wold
VOTO: *****/5

Lukas è un uomo mite che cerca di rifarsi una vita dopo un matrimonio fallito: un nuovo lavoro come maestro d'asilo sembra capace di restituirgli il sorriso e la gioia di vivere, grazie anche alla sua innata capacità di stare coi ragazzi (che lo adorano). Anche la vita privata sembra schiudergli una speranza, impersonata da una collega immigrata che mostra più di un interesse per lui. Tutto sembra andar bene fino al giorno in cui la piccola Klara, una delle sue allieve, lo accusa candidamente di essersi calato le mutande davanti a lei...

Attenzione al titolo italiano, come al solito fuorviante: non c'è infatti nessun sospetto nei confronti di Lukas: nè da parte dello spettatore, che capisce subito che il protagonista è stato vittima di un gigantesco equivoco (e della fervida immaginazione di una ragazzina sveglia e intraprendente), nè da parte della piccola e benpensante comunità locale, che lo bolla immediatamente come pedofilo e lo fa diventare il 'mostro' del villaggio, ripudiandolo e rendendogli la vita impossibile.

L'ultimo film del bravo Thomas Vinterberg è la cronaca di una vergognosa caccia alle streghe che diventa subito caccia all'uomo (questo il significato del titolo originale, 'Jagten' - 'The Hunt' nella versione anglofona) e che coinvolge un comune cittadino la cui unica colpa è quella di non ribellarsi subito all'assurda persecuzione che lo ha travolto. Lukas è innocente (il film ce lo dice fin dall'inizio, non 'spoileriamo' nulla) ed è la vittima sacrificale di una società perbenista e ipocrita, che cerca un colpevole ad ogni costo pur di preservare l'apparente equilibrio che regna tra le casette pulite e ordinate del paesello.

Tutta la storia è narrata dal punto di vista personale del protagonista: lo spettatore assiste, con la stessa incredulità e rabbia, alla progressiva demonizzazione di una persona che alla fine è costretta, pur di sopravvivere, a scendere sullo stesso piano dei suoi carnefici: l'ostilità della gente e l'enorme rabbia repressa faranno diventare Lukas un uomo violento e disperato, capace di sfidare da solo l'intera comunità che fino al giorno prima lo considerava un fratello, al quale poter affidare senza pensieri i propri figli.

Seppur angosciante e crudo, Il sospetto è un film straordinario per emotività e presa sullo spettatore. La morale è chiara: in questo mondo (specificatamente quello occidentale, ricco e opulento come la democraticissima Danimarca) dove dominano l'apparenza e l'ipocrisia, ogni regola di civile convivenza può essere sovvertita dalla paura e dalla viltà. E quello che è successo a Lukas può succedere a chiunque,  perchè l'egoismo e la volontà di 'sbattere il mostro in prima pagina', la voglia di trovare un colpevole a ogni costo pur di mettere a tacere scomode verità, fanno tristemente parte della società moderna.

Girato in maniera 'classica', senza camera a spalla e immagini mosse (il 'Dogma' è ormai un lontano ricordo), il film di Vinterberg deve buona parte della sua riuscita alla grande interpretazione di un attore bravo e sottovalutato come Mads Mikkelsen (ve lo ricordate in Walhalla Rising?), giustamente premiato con la Palma d'Oro a Cannes: la scena in cui viene (finalmente) a patti con i suoi concittadini, 'sfidandoli' a guardarlo negli occhi in una drammatica notte di Natale, vale da sola il prezzo del biglietto.

sabato 8 dicembre 2012

MOONRISE KINGDOM

(id.)
di Wes Anderson (USA, 2012)
con Jared Gilman, Kara Hayward, Edward Norton, Bruce Willis, Tilda Swinton, Bill Murray, Frances McDormand, Bob Balaban.
VOTO: ***/5

'Il 'solito' Anderson'. Questo era il commento ricorrente dei (pochi) spettatori in sala alla fine del film. Qualcuno lo diceva col sorriso negli occhi, qualcun altro con le palpebre abbassate mentre si stiracchiava prima di alzarsi dalla sedia... Ergo: il fatto di avere uno stile e un modo personalissimo di fare cinema, come Wes Anderson indubbiamente ha, è un bene o un male? Il fatto, cioè, che i suoi film siano assolutamente riconoscibili fin dal... manifesto, è una qualità o un difetto?

La risposta potrebbe sembrare scontata: 'Avercene - diremmo - di registi dallo sguardo così disincantato e non 'omologati''. Verissimo. E anche quest'ultimo Moonrise Kingdom non fa eccezione: è un film di Anderson al 100%, che come tutte le altre sue pellicole richiede allo spettatore di 'abbandonarsi' completamente e liberare la propria fantasia, pena la noia. Il problema è che anche gli spettatori cambiano: cambiano a causa dell'età, degli stati d'animo, di momenti e scelte particolari cui la vita ti mette davanti. Ed ecco che allora quello stesso film, che in altri momenti ti sarebbe piaciuto fino alle lacrime, stavolta ti lascia abbastanza indifferente. Non ti coinvolge.

Jared Gilman e Kara Hayward, i due bravissimi protagonisti
E' esattamente quello che è accaduto a me: Moonrise Kingdom: in questo momento della mia vita, non mi ha entusiasmato. Sarà che la mia mente 'da bancario' (quale sono) non mi aiuta nei voli pindarici, ma ho trovato questo film molto autoreferenziale e abbastanza scontato. Non brutto, intendiamoci, anzi in certi momenti è una vera gioia per gli occhi e per il cuore. Però sì... questa volta dico anch'io 'il solito Anderson' con una certa indifferenza, tipica di chi si avvicina a un prodotto trovando esattamente quello che si aspetta di trovare. Ma magari alla maggior parte degli spettatori Anderson piace proprio per questo: e allora... va bene così! E certamente se vi sono piaciuti I Tenenbaum, Mr. Fox e Il treno per il Darjeeling, anche questo non vi dispiacerà.

Bill Murray, Frances McDormand, Ed Norton, Bruce Willis
Moonrise Kingdom si svolge nella metà degli anni '60 (è forse il primo film di Anderson che ha una collocazione temporale ben definita) in una bellissima isoletta dell'Atlantico, incontaminata e abitata da pochissime persone, perlopiù bigotte e conformiste, assolutamente impreparate ad affrontare le terribili 'tempeste' che si stanno per abbattere sulle loro vite: una molto concreta, rappresentata da un tifone che si accinge minacciosamente a spazzare via le fragili casette di legno; l'altra simbolica, ovvero la rivoluzione culturale che sarebbe deflagrata col '68. In questo contesto, due dodicenni complessati e taciturni decidono di scappare di casa per cercare un briciolo di felicità: la loro mèta è una piccola caletta sconosciuta e senza nome, una specie di 'posto delle fragole' che ribattezzeranno poeticamente 'Il regno della Luna Nascente'.

Tilda Swinton
Lui è un boy-scout orfano, timidissimo e odiato dai compagni, nonchè dai genitori adottivi. Lei una coetanea musona e depressa, 'schiava' della propria famiglia e che si porta sempre dietro un binocolo per 'vedere il mondo più da vicino': la loro fuga sarà breve, ma sufficiente a scatenare il panico nella piccola comunità, incapace di comprendere i loro sentimenti e le avvisaglie di un mondo che cambia. L'amore è difficile a tutte le età, sembra dirci il regista, ma i sentimenti vanno sempre rispettati. Anche a dodici anni. Anche se sembri un ciuffo di paglia in mezzo alle onde impazzite di una tempesta...

Il film è carino, moderatamente ruffiano, abbastanza compiaciuto: Anderson cita se stesso e si ripete consapevolmente, ma stavolta il suo elogio dei 'diversi' e di un mondo 'salvato' dall'innocenza è piuttosto prevedibile e finisce per avvicinarsi un po' troppo dalle parti di Tim Burton... Tutto già visto, insomma, anche se le ottime prove dei due giovani attori debuttanti e di tutto il resto del cast ne fanno comunque un discreto prodotto da sfruttare come alternativa all'invasione di film natalizi e smielati di queste settimane. Ma non aspettatevi il capolavoro.

lunedì 3 dicembre 2012

DI NUOVO IN GIOCO

(Trouble with the curve)
di Robert Lorenz (USA, 2012)
con Clint Eastwood, Amy Adams, Justin Timberlake, John Goodman
VOTO: **/5

Caro Clint, dobbiamo proprio confessarti una cosa: certamente sbagliamo, ma dopo averti visto così occupato a parlare con una sedia vuota, infervorandoti (a modo tuo) ed esponendoti come mai ti eri esposto in passato per uno come Romney, proprio non ce la facciamo a guardarti con gli stessi occhi di prima... è un nostro limite, certo, e conoscevamo bene le tue idee repubblicane. Però, davvero, mai avremmo immaginato di vederti in prima linea a fare propaganda per uno dei politici più bigotti ed ultra-conservatori che l'America abbia conosciuto. Insomma... tu che cerchi di convincere la gente a votare per un mormone plurimilionario, è davvero difficile da accettare!  Specialmente per quello che hai sempre predicato in passato, con i tuoi film e le tue (poche) parole.

Scusaci quindi se partiamo prevenuti nel giudicare il tuo ritorno sul set da semplice attore, cosa che non succedeva da quasi vent'anni (Nel centro del mirino, 1993). Ti diciamo subito, senza giri di parole, che questo Di nuovo in gioco, diretto dal tuo fedele aiuto regista Robert Lorenz, ci sembra un film tanto banale quanto inutile, non orrendo ma assolutamente insignificante. Tanto che ci chiediamo innanzitutto cosa ti abbia spinto a NON dirigerlo in prima persona. E soprattutto il PERCHE' hai accettato di interpretare un ruolo così scialbo, calandoti nei panni di un personaggio che pare essere un lontanissimo e povero parente del Walt Kowalski di Gran Torino.

 Alla prima domanda possiamo provare a rispondere: forse, a 83 anni suonati, non te la sei sentita. E ti capiamo. Oppure, da furbastro quale sei, dopo aver letto il copione avevi capito benissimo che non si trattava di una pellicola memorabile, ed hai pensato bene che sarebbe stato molto meglio lasciare ad altri l'incombenza della regia. Alla seconda invece ci dobbiamo arrendere: sinceramente ci sfugge il motivo per cui  sei tornato davanti alla macchina da presa, a meno che tu non l'abbia fatto per fare un favore a un vecchio amico. E in tal caso... sappiamo bene che al cuor non si comanda!

Clint Eastwood e Justin Timberlake
Di nuovo in gioco è il milionesimo film sul baseball che ci viene propinato dagli Studios hollywoodiani. Anche il canovaccio è già scontato di suo: un vecchio talent-scout, mezzo cieco e prossimo al pensionamento, viene incaricato dalla sua ex-squadra di seguire un giovane virgulto di belle speranze, allo scopo di decidere se ingaggiarlo o meno... Gus (questo il nome del protagonista) si rifiuta di usare il computer e tenere schede per valutare i giocatori, ma il suo fiuto è ancora infallibile. Questo però non basta per meritarsi la riconferma da parte dei vertici societari, intenzionati a pre-pensionarlo precocemente. Gus però parte lo stesso per la Nord Carolina, dove si svolgono le partite, accompagnato dalla figlia, brillante avvocatessa in carriera preoccupata per la salute del paparino...

Amy Adams
Non credo di rovinare la sorpresa a nessuno dicendo che alla fine ovviamente tutto si aggiusterà e, come nelle favole, tutti vivranno felici e contenti. Peccato però che tutto sia già visto, dalla prima all'ultima inquadratura, e certo non basta qualche risata qua e là per scuoterci dal torpore. Piccolo particolare, nonchè avviso per l'ignaro spettatore: se non siete competenti di baseball, certe parti di questo film vi risulteranno praticamente incomprensibili... e questo certo non giova all'eventuale risultato al botteghino.

Ma, fondamentalmente, se proprio desiderate vedere un bel film sul baseball (anzi, un bel film in generale) allora recuperatevi Moneyball-L'arte di vincere di Bennett Miller: totalmente agli antipodi rispetto a questo per morale, spessore e riuscita. Altro cinema, altro livello.

domenica 2 dicembre 2012

EUROPEAN FILM AWARDS: HANEKE FA IL PIENO

Michael Haneke, Emmanuelle Riva e Jean-Louis Trintignant
Vorrebbero essere gli Oscar Europei, ma in realtà gli European Film Awards (EFA in breve) restano per il momento una manifestazione molto sottotono, ben lontana dai fasti hollywoodiani. Ciò forse è anche voluto, proprio per distinguersi dal baccano e dallo star-system dei loro omologhi d'oltreoceano e mantenere una sobrietà molto 'radical-chic'. Fattostà che, in un modo o nell'altro, degli EFA non importa niente a nessuno... non un notiziario, non una pagina di giornale, nemmeno uno straccio di sintesi televisiva, a riprova che lo snobismo non paga.

Bernardo Bertolucci
Snobismo che è testimoniato anche dai risultati: basta scorrere l'albo d'oro che troviamo infatti, anche stavolta, il 'solito' Michael Haneke, arrivato alla terza vittoria e autentico 'padrone' di questo premio. Il suo Amour, infatti, ha fatto il pieno: miglior film, miglior regia, miglior attore e attrice protagonista. In pratica un cappotto. Haneke è ormai un abbonato ai premi, nella bacheca di casa sua ci sono più statuette che nel presepe... lungi da noi voler sminuire il valore del cineasta austriaco, autore indubbiamente di ottimi film e anche di qualche capolavoro. La nostra impressione però è che certi nomi, come il suo, ormai godano ben più di una certa simpatia nelle giurie europee, cosa che a dire il vero comincia un po' a stufare...

Ma tant'è. Amour è certamente un film 'perfetto' dal punto di vista stilistico, tuttavia a giudizio di chi scrive quest'anno si poteva avere un po' più di coraggio e premiare pellicole ben più emozionanti e più capaci di arrivare al pubblico. Mi riferisco, a costo di sembrare partigiano, al bellissimo Cesare deve morire dei Taviani, oppure a C'era una volta in Anatolia di Ceylan, a Carnage di Polanski, al francese Quasi amici, a Shame di McQueen, oppure alla vera rivelazione dell'anno, ovvero Jagten-Il sospetto di Thomas Vinterberg: film durissimo e magnetico, di cui parleremo molto presto. Solo briciole per l'Italia, che si accontenta del comunque prestigioso premio alla carriera a Bernardo Bertolucci.
'Cesare deve morire', dei fratelli Taviani

Gli EFA sono comunque il primo importante premio cinematografico riguardante la stagione in corso, anche si svolgono in dicembre (e quindi nell'anno vecchio). Certamente sono un bell'assist verso i Golden Globes e gli Oscar, prossimi appuntamenti. E la vecchia Europa si presenta ancora una volta con ottimi titoli e un ottimo parterre: a testimonianza di una scuola e di una cultura cinefila che, nonostante ogni crisi possibile, denota ancora di godere ottima salute.

VEDI QUI L'ELENCO DI TUTTI I PREMI