domenica 28 febbraio 2010

AMABILI RESTI (N.Zelanda, 2009) di Peter Jackson


Un film bellissimo, delicato e poetico. Fin dal titolo: gli "amabili resti" sono i legami familiari che sopravvivono e (ri)nascono in seguito a una tragedia terribile: la morte di una figlia quattordicenne stuprata e massacrata da un maniaco insospettabile. Peter Jackson, dopo la sbornia di soldi e di gloria ottenuta con Il Signore degli Anelli, torna dietro la cinepresa con un piccolo film tratto da un romanzo che è già di culto, dimostrando ancora una volta di essere particolarmente a suo agio con le atmosfere torbide e soprannaturali, muovendosi con tatto e maestria sopra un terreno che poteva rivelarsi pieno di sabbie mobili: non era facile, infatti, trasporre sul grande schermo un libro come quello di Alice Sebold, fatto di pagine efferate e dolorose intervallate da momenti di grande commozione e delicatezza.

Amabili Resti, infatti, suscita nello spettatore lo stesso effetto di un pugno nello stomaco sferrato a tradimento: racconta dell'orribile morte, improvvisa e inaspettata, di una ragazzina adolescente che narra in prima persona, ricorrendo alla voce fuori campo, il suo brutale assassinio e quelle che ne saranno le sue conseguenze. Susie si ritrova in un limbo tra il Paradiso e la Terra, dove non può comunicare con i vivi ma può ossevarne i loro movimenti e influenzare le loro vite. La ragazzina assiste impotente allo sgretolarsi della propria famiglia, vede la madre abbandonare la casa sopraffatta dal dolore, segue con dispiacere le difficoltà della sorella a tornare a una vita normale, cerca di sostenere il padre nella ricerca dell'assassino...

L'ultimo film di Peter Jackson è una pellicola sicuramente imperfetta (qualche lungaggine di troppo, un uso un po' pacchiano di certi effetti speciali stile new-age) ma allo stesso tempo delicata, leggera e coraggiosa, esattamente come la sua dolcissima protagonista (Saoirse Ronan, segnatevi questo nome gaelico: la piccola ne farà di strada...). Una pellicola che ci fa riflettere sulla condizione umana, sulla ferocia degli uomini, su quanto sia diventato assurdo un mondo abitato da persone "pensanti" che pianificano delitti orribili.

Un film girato col cuore, che commuove e appassiona, che ci fa prendere coscienza della bellezza e della provvisorietà della vita, che ti costringe a chiederti quanto faccia male e quanto sia salutare quel pugno nello stomaco di cui dicevamo.
Diffiicile, onestamente, chiedere di più.

VOTO: * * * *

sabato 27 febbraio 2010

INVICTUS (USA, 2009) di Clint Eastwood


Tempo fa, durante una breve vacanza in Irlanda mi ritrovai a Temple Bar, nel cuore di Dublino, in cerca di un posto dove mangiare qualcosa: tutti i pub erano strapieni di gente vociante e festosa che tracannava ettolitri di Guinness guardando una partita di rugby nei maxi-schermi. Solo dopo essere riuscito (con molta fatica) ad avvicinarmi al bancone mi accorsi che la partita in questione era Irlanda-Italia, e la nostra nazionale non è che stesse facendo proprio una bella figura... Fu allora che, con mio grande stupore, compresi che cosa era il rugby: gli avventori del pub, una volta udito il mio idioma e realizzato che venivo proprio dal Belpaese, cominciarono a salutarmi e stringermi le mani pronunciando solo due paroline: "good match, Italy!". Lì per lì, da perfetto italiota, pensai subito che quelli mi stesso prendendo solennemente per i fondelli e che dovessi fare buon viso a cattivo gioco, come si usa da noi quando si perde... e invece, incredibilmente, mi ci volle davvero poco per capire che quei gesti quegli attestati di stima erano assolutamente sinceri: la gente si complimentava con noi perchè avevamo giocato una partita (a dir loro) coraggiosa e pulita, e che meritavamo rispetto e dignità. Ecco: questo è il rugby! Forse l'unico sport di squadra dove ancora la lealtà sportiva, il rispetto per l'avversario e la voglia di divertirsi sono tuttora valori fondanti di questa nobile disciplina.

Clint Eastwood covava da almeno un paio di decenni la voglia di realizzare un film su Nelson Mandela, ma finora non se n'era mai fatto niente perchè trasporre sul grande schermo la monumentale biografia del carismatico presidente sudafricano era un compito decisamente arduo. Ma quando lo scrittore John Carlin fa uscire in libreria il romanzo "Playng the enemy", che narra quanto fu importante per il Sudafrica l'organizzazione della Coppa del Mondo di rugby del 1995, il regista californiano capisce di avere nelle mani l'occasione giusta: dirigere per la prima volta un film sportivo, utilizzando il rugby come metafora per unire ed esaltare un popolo lacerato dall'apartheid e ancora pieno di rancori e divisioni.
La storia di Invictus comincia appunto nel 1995: il Sudafrica ha appena eletto presidente Nelson Mandela, l'anziano leader nero rimasto prigioniero per 27 anni nelle patrie galere e ora al timone, votato a furor di popolo, del governo di Pretoria. "Vincere le elezioni è facile, lo è meno governare", scrivono i giornali alla vigilia dell'investitura, e il vecchio Madiba (questo il nome con cui lo chiamano familiarmente i suoi seguaci) capisce che la prima cosa da fare per assicurare un futuro al suo paese è ricucire il profondo strappo tra le due etnie, i neri e gli afrikaners: i primi, infatti, rimasti schiavi e soggiogati dai secondi per tanto tempo, odiano i ricchi bianchi con tutte le loro forze, non facendo mistero di voler distruggere il prima possibile tutti i simboli del potere antico. E tra questi, naturalmente, ci sono gli Springboks: vale a dire la nazionale sudafricana di rugby, composta solo da bianchi e per questo invisa alla popolazione di colore che la considera l'emblema della loro sofferenza. I neri, adesso al governo, vorrebbero sciogliere gli Springboks, cambiare loro stemma, inno e colori e non vedere mai più quelle maglie verde-oro simboli dell'apartheid. Mandela, però, tra lo stupore generale si oppone, intuendo che quella squadra scalcinata e snobbata dal resto del mondo potrebbe davvero diventare un clamoroso veicolo di fratellanza e unità. Per questo, un pomeriggio convoca nel suo ufficio il capitano François Pienaar impartendogli un ordine mica tento semplice: il Sudafrica, per la ragion di stato, dovrà vincere la Coppa del Mondo...

Invictus è l'ennesima sfida del vecchio Clint, che giunto alla soglia degli ottant'anni non smette di regalarci opere importanti e di grande spessore morale e civico: di questo non possiamo che dargliene atto, e anche in quest'ultimo film ci sono tutti gli elementi del suo cinema: rigore, asciuttezza, poesia, sobrietà. Tuttavia, per onestà di giudizio, bisogna dire che stavolta siamo ben lontani dalle vette raggiunte dal regista californiano con Mystic River e Million Dollar Baby: Invictus è un buon film sportivo, dignitosissimo, ben girato, con bellissime scene di gioco, ma anche piuttosto convenzionale e didasacalico, in particolar modo nella prima parte. Morgan Freeman interpreta il ruolo che agognava da una vita, ma il suo Nelson Mandela è un politico fin troppo accondiscendente e misurato, e quasi mai si ha l'esatta percezione dell'immenso carisma che quest'uomo ha nei confronti dei suoi connazionali. La recitazione di Freeman (dovuta, credo, ai vincoli posti dalla sceneggiatura) è fredda, calcolata, fortunatamente non enfatica ma che non trasmette mai veri brividi allo spettatore. Alla fine ne viene fuori un Mandela stereotipato e palesemente "cinematografico", concentrato esclusivamente sul rugby mentre vengono trascurati quasi del tutto gli aspetti umani e privati del grande leader. Bravo, invece, Matt Damon, che ce la mette tutta per essere credibile come capitano della squadra e sfodera una grinta inusitata sul rettangolo di gioco.
Invictus, insomma, è un buon "prodotto medio" che merita sicuramente la visione, e che non rinuncia a scene particolarmente toccanti (ma mai stuchevoli): su tutte, la visita di Pienaar/Damon all'ex prigione di Mandela, dove l'atleta entra per un attimo nella vecchia cella del leader e sembra sentire le parole di quella poesia che lo ha aiutato a sopravvivere negli anni di prigionia, e che è anche il titolo del film. Poesia letterale e poesia cinematografica si fondono con un bell'effetto: sarà anche un Eastwood "minore", ma avercene di film così...
VOTO: * * *


Invictus

Out of the night that covers me,
Black as the pit from pole to pole,
I thank whatever gods may be For my unconquerable soul.
In the fell clutch of circumstance
I have not winced nor cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
My head is bloody, but unbowed.
Beyond this place of wrath and tears
Looms but the Horror of the shade,
And yet the menace of the years
Finds and shall find me unafraid.
It matters not how strait the gate,
How charged with punishments the scroll
I am the master of my fate:I am the captain of my soul.

Dal profondo della notte che mi avvolge
buia come il pozzo più profondo che va da un polo all’altro,
ringrazio quali che siano gli dei per la mia indomita anima.
Nella morsa delle circostanze non mi sono tirato indietro
né ho gridato per l’angoscia.
Sotto i colpi d’ascia della sorte il mio capo sanguina, ma non si china.
Visto dall’altra parte questo luogo di rabbia e lacrime appare minaccioso
ma l’orrore delle ombre e la minaccia degli anni
non mi trovano e non mi troveranno timoroso.
Non importa quanto sia stretto il varco,quanto piena di castighi la vita.
Io sono padrone del mio destino.
Io sono il capitano della mia anima.

di William Earnest Henley (1875)

Così, per sport


Leni Riefensthal amava dire che "lo sport è un'espressione positiva della vita, il cinema un mezzo formidabile per comunicare con lo spettatore. Trovare un punto d'incontro tra questi due mondi è stato facile, proprio grazie alla capacità dello sport di esprimere movimento, fisicità, poesia: tradurlo in immagini è una cosa che viene naturale..." E in effetti, da "Olympia" in avanti, di film sportivi ne sono stati fatti parecchi, innumerevoli, ne è venuto fuori quasi un genere a se stante. Il cinema è sempre stato vicino al mondo dello sport, un mondo fatto di grandi emozioni, grandi imprese, grandi atleti che con le loro storie personali o collettive sono entrati nell'immaginario collettivo di milioni di persone. E il grande schermo con queste storie è sempre andato a nozze, sfruttando lo sport come un serbatoio inesauribile di idee e di vicende da raccontare. Lo sport come metafora della vita, come occasione di riscatto, oppure semplicemente come specchio della società in cui viviamo. Eccone qualche esempio:

MOMENTI DI GLORIA (2001, di Hugh Hudson)
Ancora ad oggi il più bel film sportivo mai realizzato: la storia di due ragazzi britannici, Harold Abrahams e Eric Liddell (il primo inglese ed ebreo, il secondo scozzese e cattolico praticante) in procinto di partecipare alle Olimpiadi del 1924 a Parigi. Abrahams corre per ritrovare se stesso e per combattere i pregiudizi della gente, Liddell corre per ringraziare Dio di avergli dato un dono così grande... Film epico, emozionante, coinvolgente e sottilmente ambiguo: vorrebbe essere un tributo allo sport pulito, ad un'epoca che non c'è più. Ma se si guarda bene, anche negli anni venti si discriminavano gli ebrei e si obbligavano gli atleti a sottostare alla Ragion di Stato. Forse anche quei tempi non erano poi così eroici... Il tema musicale di Vangelis è diventato il più famoso della storia del cinema.

TORO SCATENATO (1980, di Martin Scorsese)
La storia di Jake LaMotta, uno dei più grandi pugili di tutti i tempi, diventa davvero leggenda se raccontata da Scorsese, dando inizio ad un vero e proprio sottogenere di pellicole pugilstiche negli anni a venire. Robert DeNiro è semplicemente grandioso: per calarsi nel ruolo ingrassa trenta chili e prende botte vere, restando nell'immaginario collettivo.

ROCKY (1976, di John G. Avildsen)
A vederlo oggi, Sly Stallone fa quasi effetto con quei muscoli flaccidi, la pancetta e la pelle imbolsita. Eppure più di trent'anni fa stupì il mondo con questo piccolo film girato in economia, con un manipolo di impareggiabili caratteristi, e scrivendo di suo pugno una sceneggiatura semplice ma d'effetto. "Rocky" è un film ingenuo ma non ipocrita, genuino ed emozionante, "generazionale" per chi all'epoca credeva ancora nel Sogno Americano.

BULL DURHAM, UN GIOCO A TRE MANI (1988, di Ron Shelton)
Divertentissima e malinconica commedia sullo sport inteso come palestra di vita. Si parla di baseball, ma andrebbe bene per qualunque altra disciplina: un vecchio campione ormai sulla via del tramonto viene ingaggiato per far "crescere" un giovanotto talentuoso, dotato, ma privo di cervello. Le cose andranno bene finchè non si innamoreranno entrambi della stessa donna... Un trio di attori extralusso (Kevin Costner, Tim Robbins, Susan Sarandon) per una pellicola da riscoprire.

OGNI MALEDETTA DOMENICA (2000, di Oliver Stone)
La degenerazione dello sport, schiacciato dal peso del dio denaro e del business a ogni costo: tutto è in funzione del risultato, e chi non si adegua è fuori del gioco. Esattamente come Tony Damato (Al Pacino), allenatore di vecchio stampo di una squadra di football americano in crisi. Il ritratto di un uomo di sport che non vuole arrendersi alla "modernizzazione" imposta dai dirigenti della squadra. Oliver Stone dirige col suo solito stile sanguigno e senza sfumature: il risultato non è eccelso, ma le smorfie di Pacino valgono il prezzo del dvd.

THE WRESTLER (2008, di Darren Aronofsky)
Il Sogno Americano è finito e non è più il tempo degli eroi, nemmeno nello sport. Lo sa bene Randy "The Ram" Robinson, anziano lottatore di wrestling ormai indigente e malridotto, che ogni weekend si fa spaccare la faccia per pagare l'affitto della roulotte dove abita. Mickey Rourke è semplicemente commovente in un ruolo scritto su misura per lui, evidentemente autobiografico. La parabola del campione che discende agli inferi e cerca di rifarsi una vita normale, non rinunciando alla sua dignità. Rourke meritava l'Oscar (finito poi a Sean Penn), si è consolato con il Leone d'Oro a Venezia.
INVICTUS (2009, di Clint Eastwood)
Lo sport come strumento di unione e fratellanza tra i popoli, il rugby usato come grimaldello per abbattere barriere sociali. Eastwood dirige un film convenzionale, potente e onesto per fotografare la rinascita di una nazione che "cresce" e si stringe intorno alla propria squadra. A volte, quello che non si riesce a fare per generazioni intere si ottiene grazie a una palla ovale. L'ennesima lezione impartitaci da "nonno" Clint

domenica 21 febbraio 2010

Telehorror


Non ho problemi a confessare che ho sempre dato un'occhiata al Festival di Sanremo: diciamoci la verità, chi non lo fa? E' un po' come chi dice di non votare mai per Berlusconi... E quindi ho seguito, divertito, la "sommossa" dei musicisti sul palco dell'Ariston che inveivano contro il popolo-caprone dei televotanti, "rei" di aver incoronato vincitore un ragazzotto brufoloso sponsorizzato (e daje!) da Maria DeFilippi, e premiato con il secondo posto l'orrendo pistolotto nazional-savoiardo di Pupo e Sua Altezza Emanuele Filiberto (sic!). Normale, si dirà, se si consente al pubblico da casa di votare con il meccanismo diabolico del televoto: è ovvio che saranno avvantaggiati coloro che escono dai talent-show (gli unici programmi che si vedono oggi in tv, o quasi) oppure quelli che strumentalizzano la propria popolarità catodica per remare acqua al loro mulino (vedi Pupo).

Normale, certo. Però a un certo punto (sarà perchè non riuscivo a dormire) ho provato a chiedermi: e se anche ai Festival del Cinema si facesse la stessa cosa? Ovvero, se a decidere l'Oscar, la Palma, il Leone, l'Orso, il Pardo o chi volete voi, fosse direttamente il pubblico pagante e accreditato, anzichè la classica giuria di esperti? Pensate che i risultati sarebbero altrettanto inquietanti? Chissà... dopotutto non è che anche le giurie "tecniche" in passato abbiano spesso brillato per lungimiranza: se parliamo di Oscar, vediamo che gente come Kubrick, Chaplin, Hitchcock, Mann, Altman non hanno mai accarezzato la preziosa statuetta... per non parlare di certi risultati che, a distanza di anni, fanno letteralmente sorridere: si pensi per esempio a Cannes 1979, quando ad Apocalypse Now venne preferito nientemeno che Il Tamburo di latta di Volker Schlondorff. Eppure, allo stato attuale, vediamo che quasi nessuno dei festival più importanti prevede tra i premi da assegnare quello relativo al giudizio del pubblico. L'unica rassegna che invece consente agli spettatori di esprimersi per un riconoscimento ufficiale e tangibile è, guardacaso, la più piccola e sperimentale: Locarno. E allora, sempre beninteso perchè non riuscivo a prendere sonno, mi sono letto l'albo d'oro del "prix du publique" del concorso ticinese, "scoprendo" che nell'ultimo decennio la folla che anima Piazza Grande ha premiato film come Lagaan, Le Vite degli Altri, Sognando Beckham, Il miracolo di Berna e Funeral Party. Come si vede, scelte tutt'altro che orrende. Anzi!

Cosa significa allora tutto questo? Semplice, che la "ggente" (per dirla alla Nanni Moretti) è meno stupida di quello che si crede, e sa riconoscere un bel film da una ciofeca. E che il (piccolo) popolo di chi va a vedere i film al cinema è, per ora, molto più intelligente di quello che guarda la tv! Il problema è che è solo una piccolissima minoranza. Sì, signori. Perchè, se ancora non l'avete capito, il problema è tutto italico: viviamo in un paese dove l'80% di chi si reca a votare esprime i propri giudizi basandosi su quello che vede, sente e si consuma in tv. Viviamo in un paese dove ormai la videocrazia ha sostituito la democrazia, e dove "conta" solo quello che viene passato in televisione. Ecco perchè in questo paese lobotomizzato e decerebrato vincono Valerio Scanu, Pupo e Berlusconi: perchè la parte del manico ce l'hanno loro, e il popolo-bove, a comando, li esalta come si deve. E se non è questo un horror, allora cos'è?

BERLINALE 2010


Stretto nel rigido inverno berlinese, a pochi giorni di distanza dagli Oscar, il Festival di Berlino è sempre stato un festival "ibrido", in cerca d'identità, senza mai aver capito bene la sua strada... una volta gli americani facevano a gara per andarci, proprio perchè era una ghiotta anticamera prima della cerimonia degli "Academy Awards", e agli organizzatori non pareva vero proprio perchè l'"odore" delle preziose statuette era un veicolo promozionale assolutamente piovuto dal cielo. Poi però c'è stato l'11 settembre, gli americani hanno cominciato a volare malvolentieri nel Vecchio Continente, e così la Berlinale ha dovuto ancora cambiare pelle, rinnovarsi, esplorare confini ignoti per una rassegna che non ha mai brillato per inventiva e creatività (un po' come la nazionale di calcio tedesca). Quest'anno comunque, con Werner Herzog presidente di giuria, si vede che il vento è cambiato: premi sorprendenti, come il film turco Honey (miele), vincitore dell'Orso d'oro o come il romeno If I Want To Whistle, I Whistle , insignito del premio della giuria. Orso d'Argento invece (e chissà se è una provocazione...) a Roman Polanski, attualmente detenuto ai domiciliari in Svizzera e quindi impossibilitato a ricevere il premio.

Non mi dilungo oltre perchè i film non sono ancora usciti da noi e avremo modo di riparlarne al momento che arriveranno. E anche perchè il sottoscritto, ahimè :-) nonostante una lunga militanza ai festival di Locarno e Berlino (con qualche puntatina a Cannes, ma sempre di fuori...) non ha mai calcato il suolo berlinese. Ma se tra voi c'è qualcuno che nei prossimi anni ha voglia di andarci... parliamone!! :-)

Scherzi a parte, ecco il link con tutti i vincitori:

sabato 20 febbraio 2010

A SINGLE MAN (USA, 2009) di Tom Ford



"Patinato". Questo è l'aggettivo più (ab)usato da tutti coloro che hanno recensito A single man, quasi fosse una parolaccia. A voler fare una battuta, potremmo dire che era il minimo che ci si potesse apettare, considerato che il regista debuttante Tom Ford è stato per tanti anni stilista e creativo di Gucci: come ha scritto il buon Alberto Crespi su "L'Unità", sarebbe stato difficile vedere in questo film abiti e suppellettili acquistati alla Upim... Ma, battute a parte, mi permetto di dire che chi giudica questo film "patinato", "elegante", "freddo", oppure soltanto "un bell'esercizio di stile", secondo me: a) non ha letto il romanzo omonimo di Christopher Isherwood da cui è tratto (ed è un peccato, perchè è un libro straordinario) b) probabilmente non si è neppure sforzato di immaginare come potesse essere l'ambiente nella facoltà di letteratura di un prestigioso college americano degli anni '60... o forse si credeva che gli studenti (e i professori) dell'epoca andassero in giro con i jeans strappati e l'I-pod nelle orecchie? Lasciamo perdere. Delle due ipotesi, a me sinceramente interessa molto più la prima: lo ribadisco, A single man è la trasposizione cinematografica di uno dei più bei romanzi del vecchio secolo. Il libro racconta la storia di George Falconer, professore inglese di mezza età trapiantato a Los Angeles ad insegnare letteratura. George è rimasto solo perchè il suo compagno Jim è morto in un incidente d'auto, costringendolo a sopravvivere in un mondo dove agli omosessuali non è permesso nemmeno di assistere ai funerali della persona amata. George lotta ogni giorno contro l'ipocrisia della gente (che lo detesta ma finge di sopportarlo), contro il dolore dei ricordi (che affiorano, inesorabili, ogni giorno, ogni momento), contro il desiderio (e la tentazione) di provare a vivere una nuova avventura, pur sapendo benissimo in partenza che mai e poi mai troverà (e non vorrà trovare) qualcuno che "sostituirà" Jim nel suo cuore. A consolarlo, ma forse è meglio dire a condividere con lui la sofferenza, c'è solo Charlotte, una vecchia amica di scuola, un tempo donna fatale e avvenente, ora delusa dalla vita e indifferente verso il proprio futuro... Il romanzo di Isherwood è la cronaca, toccante e delicata, di un amore interrotto, un'istantanea di un uomo inconsolabile che non si dà pace per la perdita del compagno, vissuta all'interno di una casa con le pareti di vetro che pare stiano lì a ricordargli, ogni giorno, la propria terribile condizione. Non era facile trasporre sullo schermo un libro del genere, e l'esordiente (esordiente!) Tom Ford lo fa con una grazia e con una sensibilità stupefacenti, evitando di cadere nel facile tranello di ostentare l'omosessualità del protagonista e "ricattare" lo spettatore, giocando sul tasto della morbosità. Ford mostra l'amore di George per Jim come mostrerebbe qualsiasi altro amore etero, facendo leva esclusivamente sui sentimenti e confezionando un film sì elegante e "patinato", ma anche genuino, sincero e profondamente intimo e vissuto, senza mai indulgere al pietismo e alla facile commozone.
Non aspettatevi, però, una rilettura pedissequa e filologica del romanzo, perchè non sarebbe stata possibile e perchè il coraggioso Ford intende, giustamente, metterci del suo: a differenza del libro, il film è molto più diretto e impostato, pervaso dall'inizio alla fine da un'aura di ineluttabiltà e di sistematica sofferenza. Il regista racconta la giornata-tipo di George come se fosse, davvero, il suo ultimo giorno di vita: il protagonista, appresa con frasi smozzicate la terribile notizia, decide di dire addio alla vita preparando meticolosamente il proprio suicidio, nei minimi dettagli, senza lasciare niente al caso. Eppure, un po' come accade al personaggio di Andreas Kartak ne "La leggenda del Santo Bevitore", dovrà sempre posticipare l'insano gesto a causa di piccoli ma felici eventi che gli ricordano quanto, a volte, la vita possa essere imprevedibile e forse necessaria...

A single man è un film bello e comovente che non fa nulla per farci commuovere: la sua forza sta nella storia che racconta, nella cronaca disperata di un amore finito, impossibile e travolgente, nella lentezza dello svolgimento che serve, senza cadere mai nella noia, a farci riflettere su quanto a volte possa essere cattiva e spietata la natura umana. Un film fatto di grandi attori (Colin Firth su tutti, se non vince l'Oscar è un reato!) e con grande onestà. Sorprendente.
VOTO: * * * *

domenica 14 febbraio 2010

LOURDES (Austria, 2009) di Jessica Hausner


Il 2009 è stato l'anno d'oro del "piccolo" cinema austriaco. Piccolo, ovviamente, per dimensioni ma non certo per contenuti: dopo il trionfo a Cannes di Michael Haneke con Il nastro bianco, al festival di Venezia il vincitore "morale" è stato proprio questo Lourdes, opera sorprendente, curiosa e a sfondo spirituale di una regista, Jessica Hausner, che dice di se stessa di essersi "convertita" all'ateismo in età avanzata e che cerca, anche attraverso il cinema, di ragionare sulla sua scelta. Un titolo forse scomodo per qualche giurato del Lido, che gli ha preferito il ben più convenzionale (anche se notevole) Lebanon, ennesima variazione sul tema della convivenza forzata tra israeliani e dintorni. Ma Lourdes è stato (a ragione) il film più applaudito, dibattuto e apprezzato dalla critica, e adesso aspettiamo con curiosità le reazioni del pubblico pagante.

Lourdes è un film sulla fede visto con gli occhi di chi la fede non ce l'ha più... ma sareste in errore se vi aspettaste di trovarvi davanti ad un film "eretico", caustico e sarcasticamente feroce nei confronti di chi "crede" al miracolo, al dogma divino, alla giustizia di Dio. Lourdes, invece, affronta con grande rispetto, e con posizione neutrale, il Mistero della Fede, cercando di far affiorare dubbi e domande sul come e perchè accadono i miracoli, e su che cosa ci sia alla base di questa credenza. Lo fa attraverso la storia di Christine, una giovane donna afflitta da una malattia incurabile e terribile (la sclerosi a placche) che la costringe immobilizzata su una sedia a rotelle, senza poter muovere nè braccia nè gambe. Christine va in pellegrinaggio a Lourdes, non tanto perchè spera nel miracolo (è, anzi, totalmente disillusa in questo) ma semplicemente per togliersi di casa, perchè "non è facile viaggiare con una sedia a rotelle" e perchè intende, malgrado tutto, continuare a vivere. E, una volta giunta davanti alla celebre grotta del santuario, non può che constatare l'enorme mercificazione della fede che viene ostentata davanti a quel luogo sacro: ovunque bancarelle di souvenir, migliaia di persone in semplice gita di piacere, un'organizzazione meticolosa e attentissima nello sfruttare l'incredibile "business" che si snoda attorno alle sacre acque di questo famosissimo borgo alle pendici dei Pirenei. Gli stessi pellegrini appaiono nè più nè meno (salvo rare eccezioni) alla stregua di turisti: durante le code alla biglietteria si spettegola sui miracoli più o meno presunti ed escono fuori malelingue sui compagni di viaggio, un po' come al bar e dal parrucchiere. Fino ad arrivare, infine, a coloro che a Lourdes ci vanno spinti dalla disperazione, ogni anno, pretendendo ogni volta da questo viaggio la panacea a tutti i loro mali. In mezzo a tutto questo, Christine lancia timide occhiate ad un poliziotto impacciato e galante, e non può non fantasticare su come potrebbe essere la propria vita senza la malattia. Finchè una notte, tranquillamente, la ragazza si alza dal proprio letto e va in bagno a pettinarsi...

Lourdes è un film coraggioso, che obbliga lo spettatore (ateo o fedele che sia) a porsi delle domande: chi crede nei miracoli? Come è possibile che accadano? E qual è il criterio di scelta della Divina Provvidenza, che fa felice una persona e ne getta cento nella disperazione, chiedendosi "perchè a lei e non a me"? Perchè Dio, se è davvero generoso, non guarisce tutti gli infelici e non solo qualcuno "a campione"? E, soprattutto, che cosa è Lourdes per chi non accetta i dogmi cristiani? La regista cerca, meticolosamente e con posizione assolutamente neutra, se non di trovare risposte quantomeno di farci ragionare mettendoci di fronte al fatto compiuto: a noi l'analisi. Il dibattito è aperto.
VOTO: * * * *

L'altra faccia di San Valentino


Oggi è San Valentino, ed è inutile non farci caso o fare finta che sia un giorno come tanti. Non lo è, per nessuno di noi: per chi è innamorato è un giorno speciale (forse il più speciale), per chi fa finta di essere innamorato è un giorno per fare i conti con la propria coscienza, per chi è single è un giorno di sottilissima invidia, mascherata da sbruffonaggine...
Ma San Valentino può essere anche un giorno triste, brutto, con la speranza che passi più in fretta possibile: lo è per chi è solo, non per propria scelta. Lo è per chi si sente abbandonato, tradito, per chi non riesce a trovare affetto o per chi non riesce a mostrarlo, per chi si sente a disagio, escluso, in un mondo che non capisce e che corre troppo veloce.
La solitudine è di chi si isola o si sente isolato, una condizione inadatta agli uomini, che sono "animali sociali", parafrasando Aristotele. Ci auguriamo che un
giorno, in questo mondo, possa essere un San Valentino per tutti.

1. Umberto D. La solitudine di chi è anziano, di chi è fuori dalla giostra della vita. La salvezza può materializzarsi in una cagnolina, l'unico essere non-umano a manifestare un po' di umanità.
2. Tra le nuvole. La solitudine di chi vive a mille all'ora, ma ha paura di fermarsi. Di chi si crede invincibile, ma intorno a sè ha solo un mondo di carta.
3. Contact. La solitudine di chi rinuncia a tutto per seguire i propri ideali, rincorrendoli fino all fine. Eroismo, coraggio, testardaggine o egoismo?
4. Prova a prendermi. La solitudine di chi si prende gioco del mondo, ma alla fine fa terra bruciata intorno a se: l'inganno non paga, nè verso gli altri, nè (soprattutto) verso se stessi.
5. Taxi driver. La solitudine di "un uomo solitario e dimenticato, che deve disperatamente provare di essere vivo".
6. Le luci della sera. La solitudine dei poveracci, degli emarginati, dei disadattati, dei perdenti. Sarà forse vero che il denaro non dà la felicità, ma certo la povertà non aiuta le relazioni sociali...
7. Quel che resta del giorno. La soltudine più brutta, quella di chi ha visto passare tutti i treni della sua vita e non ha mai avuto il coraggio di salirci sopra.

AN EDUCATION (G.B. 2009) di Lone Scherfig


Nonostante sia diretto da una regista danese, An Education è un film "british" fino al midollo, non fosse altro per il fatto che è scritto da Nick Hornby, autore prolifico e "di culto" per le giovani generazioni. Si racconta la storia di Jenny, ragazzina sedicenne e pudica, che viene indirizzata all'età adulta da un uomo molto più grande di lei, che la concupisce, le fa scoprire l'amore e... la fa crescere un po' troppo in fretta per i canoni decisamente retrogradi dei genitori di lei (in fin dei conti siamo nell'Inghilterra degli anni '60), che la costringeranno a ribellarsi e a fare i conti con se stessa. Detta così, la trama non è certo originale. E infatti questa è la delusione più forte del film, almeno per chi si aspettava dal talentuoso Hornby una storia più "piccante", più ispirata e certamente meno politically-correct di questa, che certamente non brilla per fantasia. Aggiungiamoci pure che la regia di Lone Scherfig è quantomai anonima, forse volutamente: An Education doveva essere un film di sceneggiatura, e come tale non c'era bisogno di mollti virtuosismi della cinepresa, in perfetto stile britannico (come si diceva all'inizio). Tuttavia Hornby non è uno sprovveduto, e il suo mestiere lo sa fare: il film è scritto benissimo e fugge via spedito, alternando sapientemente humor a momenti più o meno "topici", valorizzando l'ottima prova della pocopiù che ventenne protagonista, quella Carey Mulligan che, dopo averla vista in Nemico Pubblico di Mann, qui è davvero "perfetta" nel ruolo di educanda, tanto da aver meritato una nomination ai prossimi Oscar. E considerato che quest'anno la cinquina delle attrici candidate non è di livello eccelso (eccezion fatta per l'eterna Meryl Streep) chissà che non possa starci la grande sorpresa...

An Education è un film che si può vedere, soprattutto per chi ama il cinema "ben parlato" e "ben recitato", e rifugge emozoni forti o approfondimenti moraleggianti (che qui, va detto, non ci sono). Non sprecherete il vostro tempo, ma è probabile che una volta usciti dalla sala non ne riparlerete più.
VOTO: * * *

venerdì 12 febbraio 2010

Su "Paranormal Activity", Moccia, Muccino e la Libera Informazione...


Leggo divertito, e nello stesso tempo inorridito tutta la polemica riguardante il "caso" Paranormal Activity: il film "reo" di spaventare troppo gli spettatori (sic!) tanto da farli ricorrere al 118... in realtà c'è ben poco da ridere, notizie come questa la dicono lunga su come è ridotta oggi l'informazione nel nostro Belpaese, e sul livello culturale di noi italiani.
Non ho visto il film incriminato, e non mi interessa sapere se è un capolavoro o una boiata: non amo il genere e non lo vedrò. Mi sembra però davvero assurdo (e anche comico, se mi permettete) che si accusi un film horror di spaventare chi lo guarda! Ma non ci vuole certo l'intelligenza di Einstein per capire che tutto questo frastuono è stato creato ad arte per far sì che tale pellicola godesse di uno straordinario (e gratuito) ritorno pubblicitario. E infatti la gente, incuriosita, si riversa nelle sale, basta vedere gli incassi...

Tutto questo non fa che confermare, se mai ce ne fosse bisogno, quanto sia assolutamente FALSO uno slogan che oggi viene usato e ABUSATO, purtroppo, non solo al cinema: quello, cioè, che "il pubblico è sovrano e sceglie democraticamente in base al proprio gusto". Ma quando mai! E' evidente che in Italia il pubblico sceglie solo quello che gli viene imposto di vedere! L'italiano medio, ormai, da tempo non è più in grado di farsi una propria opinione, avere una propria coscienza personale. E questo, come dicevo, purtroppo non solo al cinema. E d'altronde cosa c'è da stupirsi in un paese che si trova oltre il 50. posto nella classifica delle nazioni con la maggiore libertà di stampa (intesa in senso lato: giornali, radio, tv)? Viviamo in un paese dove il capo del governo ha il monopolio dell'informazione radio-televisiva, dove i giornali sono tutti (salvo rarissime eccezioni) in mano a un duopolio che da solo accentra oltre il 90% della raccolta pubblicitaria (che permette alle testate di vivere), dove (ahime!) anche la distribuzione cinematografica è nelle mani dei due colossi di sempre (Rai e Medusa). E qualcuno crede ancora che una persona di medio-bassa cultura sia in grado di "scegliere"? Ma per favore...

Nell'Italia degli Amici, dei Grandi Fratelli, degli X-Factor, dei Ballerini con le Stelle, ci stupiamo se la gente accorre in massa a vedere "Scusa ma ti voglio sposare" o "Baciami ancora"? Ma vi siete accorti del lavaggio del cervello che i media stanno facendo alla gente su qualsiasi organo d'informazione? Per caso sapete se esiste ancora qualche quotidiano che fa CRITICA cinematografica SERIA e non propaganda? E quante trasmissioni dedicate al cinema conoscete oltre a quella "nottambula" di Gigi Marzullo? Vi rendete conto che siamo l'unico paese al mondo che ha visto Avatar con un mese di ritardo rispetto al resto del pianeta, solo perchè il pubblico-caprone affollava le sale per vedere i cinepanettoni? Ma credete che i film di Neri Parenti incasserebbero mezzo euro in qualsiasi altro paese che non sia l'Italia?

No, davvero la situazione non è buona, come direbbe Celentano. Ma forse una via d'uscita c'è... o almeno VOGLIO credere che ci sia: siamo proprio noi, il popolo silenzioso di internet, dei blog, della rete, che fortunatamente è incontrollabile ai "padroni" e permette ancora l'espressione del Libero Pensiero. Cerchiamo di farci sentire, di diffondere cultura, le nostre idee, le nostre SCELTE con qualsiasi mezzo: ho in mente il finale di Fahrenheit 451, dove gli uomini-libro imparano a memoria i libri ormai banditi dal regime affinchè non si perda il ricordo, la memoria storica. Abbiamo una grande responsabilità, e dobbiamo convincercene. Prima che sia troppo tardi.

venerdì 5 febbraio 2010

OSCAR 2009: LE NOMINATIONS

Come certamente molti di voi sapranno, pare proprio che la prossima edizione della Notte degli Oscar (che si terrà il 7 marzo) sarà una specie di "guerra dei Roses": a leggere le nominations, infatti, appare chiaro che a contendersi gli ambiti riconoscimenti saranno nientemeno che James Cameron con il suo plurimiliardario Avatar (e fin qui ce lo potevamo aspettare...) e la sua ex-moglie Kathryn Bigelow (e questa è proprio una grossa sorpresa) autrice del bellico The Hurt Locker, ciascuno con nove candidature. Qualcuno malignamente asserisce che questa situazione è stata creata a regola d'arte, secondo una regia ben precisa, per dare un po' di "pepe" a questa noiosissima serata-fiume cheogni anno, in America, incolla allo schermo platee oceaniche di telespettatori. Del resto, gli Oscar sono per l'americano medio l'equivalente del nostro Festival di Sanremo: si guarda la tv per il gossip, per la moda, per la curiosità, per le polemiche che, immancabilmente, si porta dietro questa grande manifestazione...
Volendo fare un discorso un po' più strettamente... cinefilo, diciamo pure che queste candidature non mi convincono affatto, anzi non mi piacciono proprio per niente! E' vero che, cinematograficamente parlando, non è stata una grande annata, ma a mio avviso c'erano pellicole molto più interessanti che potevano aspirare al titolo di "miglior film", anzichè un giocattolone iper-tecnologico ma di una banalità sconcertante e un film stilisticamente senz'altro più riuscito ma (a mio avviso!) dal contenuto decisamente inaccettabile. Non mi dilungo oltre perchè su questi film ho già scritto due pezzi su questo blog, e lì vi rimando per ogni ulteriore commento.
Vediamo ora, invece, di illustrare un po' le categorie più importanti e, perchè no, di esprimere le mie preferenze in merito.

MIGLIOR FILM e MIGLIOR REGIA
Come detto, Avatar e The Hurt Locker saranno i pricipali sfidanti, con pronostico nettamente sbilanciato verso il kolossal di Cameron, già trionfatore ai Golden Globes e che ha già incassato oltre due miliardi di dollari in tutto il mondo. E per i giurati dell'Academy, si sa, questo fatto ha un peso notevolissimo. Non va però dimenticato che The Hurt Locker ha vinto tutti i premi relativi alla regia nelle manifestazioni "minori" di avvicinamento agli Oscar, e che la sua regista è molto apprezzata negli ambienti hollywoodiani. Sarà una bella lotta.
E il resto dei candidati? Solo briciole. Elevare a dieci il numero di film in concorso non mi pare che abbia portato un gran miglioramento in termini qualitativi... si salvano solo il bel cartone animato Up e il tenerissimo (e amaro) Tra le nuvole di Jason Reitman (personalmente il mio preferito, ma non vincerà mai...). Solo presenza, tra gli altri, per il verbosissimo (e pallosissimo) Bastardi senza gloria di Tarantino e altre piccole sorprese come An Education e District 9.

MIGLIOR ATTORE
Competizione di altissimo livello. Jeff Bridges, nel ruolo di un improbabile cantante country in Crazy Heart ha già vinto il Golden Globe ed ha grosse credenziali per l'Oscar: purtroppo non posso dire di più perchè il film non è ancora uscito... Analogamente, anche l'interpretazione di Colin Firth in A single man è degna di considerazione. Ma non si possono dimenticare le performances di Morgan Freeman-Nelson Mandela in Invictus, quella di Jeremy Reiner in The Hurt Locker e, soprattutto, di un George Clooney mai così bravo come in Tra le nuvole. Insomma, comunque vada sarà un successo!
Nessun dubbio invece per quanto riguarda la cinquina dei non protagonisti: qui Cristopher Waltz, nel ruolo dello spietato "cacciatore di ebrei" in Bastardi senza gloria non dovrebbe avere rivali. Premio più che meritato.

MIGLIOR ATTRICE
Tra le femminucce, invece, gara di profilo molto più basso, come purtroppo capita sempre più spesso a Hollywood. Difficile dire chi vincerà tra Helen Mirren (The last station), Sandra Bullock (The blind side), Carey Mulligan (esordiente in An Education) e Gabbi Sidibe (la sorpresa, nel piccolo Precious). Tutte interpretazioni non memorabili. Stai a vedere che l'eterna Meryl Streep (alla 16.ma candidatura!) metterà di nuovo tutte in riga...
Tra le non-protagoniste, invece, il nome più noto è quello di Penelope Cruz (bravissima in Nine, peccato che il film sia un mattone mostruoso...), ma la fascinosa attrice spagnola ha già vinto la statuetta l'anno assato e questo non depone a suo favore. Più facile, a questo punto, la vittoria di una delle due donne di Tra le nuvole, Anna Kendrick e Vera Farmiga, oppure della umile Mo'nique di Precious, vincitrice del golden Globe.

ALTRE CANDIDATURE
L'Oscar per la sceneggatura, di solito, è il più intrigante... spero proprio che Tra le nuvole possa vincere nella categoria degli adattamenti (non ha rivali, secondo me), mentre per le sceneggiature originali è abbastanza scontata la vittoria di Tarantino. E meno male che non hanno avuto il fegato di candidare Avatar... Il filmone di Cameron, comunque, dovrebbe fare incetta di premi nelle categorie tecniche (effetti visivi, sonori, montaggio, fotografia, scene) mentre, per quanto riguarda i film stranieri, il favorito d'obbligo è senz'altro Il nastro bianco di Michael Haneke, premiato a Cannes e ai Golden Globes, anche se dovrà guardarsi dal bel film francese Un prophete.
E l'Italia? per quest'anno poche soddisfazioni. Se l'esclusione di Baarìa era pressochè scontata (ebbasta con 'sto Tornatore!) desta curiosità la candidatura de Il divo nella categoria del make-up. Sogni di gloria anche per Mauro Fiore, direttore della fotografia in Avatar e il più accreditato a portarsi a casa una statuetta.

ecco l'elenco completo delle nominations:

http://www.filmzone.it/cinema-news/nomination-oscar-2010-in-diretta-tutti-i-candidati.html

TRA LE NUVOLE (USA, 2009) di Jason Reitman


Tra le nuvole è un film che parla soprattutto di apparenza. E', apparentemente, una commedia, salvo poi scoprire che ha un retrogusto amarissimo. E', apparentemente, un film sulla società moderna, cinica e spietata, salvo poi scoprire che si occupa soprattutto di rapporti umani. E', apparentemente, la biografia di un uomo felice e in carriera, salvo poi scoprire che dietro quel sorriso di plastica si nasconde una profonda tristezza... L'uomo in questione è Ryan Bingham (uno stra-or-di-na-rio George Clooney - bisogna proprio dirlo!), di professione "tagliatore di teste", un "sicario" figlio dei nostri tempi che gira in lungo e in largo l'America per licenziare il personale in esubero di aziende in piena crisi economica. Cinismo, freddezza e tanto pelo sullo stomaco: questi i "requisiti" che servono per svolgere un mestiere del genere, e Ryan è pienamente convinto di averne in dosi massicce: svolge il suo lavoro con professionalità e diligenza, saltando da un aereo all'altro, di check-in in check-in, senza fermarsi mai e senza MAI stringere legami affettivi con nessuno, andandone assolutamente fiero.

Per certi versi, Tra le nuvole è un film che assomiglia molto alla pellicola che dà il nome a questo blog: il protagonista vive in un mondo irreale, totalmente privo di rapporti umani, ignorando cosa significhi dare o ricevere affetto, beandosi della sua tremenda solitudine. Ma quando la vita, inesorabilmente, gli chiede il conto (sotto forma di due bellissime donne: una matura e quasi più cinica di lui, l'altra giovane, arrivista ma terribilmente ingenua) le sue certezze cominciano a vacillare, costringendolo a fare i conti con un'umanità di cui si era convinto, invano, di aver rimosso ogni traccia... E allora, come in Solaris, il protagonista capirà che non è scappando che si risolvono i problemi, che le proprie paure non si possono scacciare semplicemente mettendo due cose in valigia e un piede in aeroporto.

Tra le nuvole è un film che i nostri registi in erba dovrebbero prendere come esempio. Non è un capolavoro, ma un bellissimo esempio di quel "cinema medio" che in Italia ormai non si riesce più a fare. Da noi una storia del genere sarebbe sfociata nel dramma, nella disperazione più pura, ne sarebbe venuto fuori un pamphlet pesantissimo contro il "sistema"... invece la pellicola di Jason Reitman è un delicatissima e riuscita commedia dolceamara, brillante, ironica e riflessiva.
Assolutamente da non perdere.
VOTO: * * * *