venerdì 26 marzo 2010

HOLLY HUNTER

E' l'unica attrice al mondo ad aver vinto un Oscar senza mai pronunciare una parola in tutto il film... e basterebbe questo per dimostrare la straordinaria versatilità di questa piccola, grande donna: l'anno era il 1993 e il film Lezioni di piano, diretto da Jane Campion. Un'interpretazione sconvolgente, disturbante, sublime, che fa conoscere al mondo questa attrice minuta, dalla labbra sottili e dal profilo appuntito.
Holly Hunter ha ormai varcato da tempo la soglia dei 50 anni, ma se la vedi pensi che sia uno scherzo: sembra ancora la ragazzina stralunata di Arizona Junior: ha una faccia furbetta, espressiva, radiosa, un fisico esile esile e uno sguardo intelligente e malizioso. Eppure, a dispetto dei suoi requisiti estetici, la Hunter ha un carattere schivo e riservato: mai un'indiscrezione su di lei, un capriccio da diva, un pettegolezzo sulla sua vita privata. Si sa solo che ha è stata sposata col cineoperatore Janus Kamiski (da cui si è separata nel 2001) e che è diventata madre di due gemelli (a 47 anni!) avuti col nuovo compagno Gordon MacDonald. Di lei parlano "solo" le sue grandissime interpretazioni: oltre ai due film già citati, la ricordiamo nel simpaticissimo Dentro la notizia di James L.Brooks, nei melanconici e strappalacrime Always (sotto la guida di Spielberg) e Once Around , nello sconclusionato Una vita esagerata di Danny Boyle, nel torbido e sballato Thirteen. Ruoli diversissimi tra loro, a testimonianza della bravura e della grande personalità di questo scricciolo dal carattere d'acciaio.

E' amica stretta di Jodie Foster, e del resto le due si assomigliano anche molto, sia dal punto di vista fisico che caratteriale. Jodie l'ha voluta a tutti i costi nel suo secondo film da regista, A casa per le vacanze, e per la Hunter è stato il ruolo della vita (insieme a Lezioni di piano, ovviamente): mai stata così bella, così sexy e così brava come in questa godibilissima e dolceamara commedia familiare. Lei interpreta Claudia, restauratrice precaria che torna a casa dai genitori per il Thanksgiving Day, mentre la figlia quattordicenne sta per perdere la verginità con un compagno di classe dall'altra parte dell'oceano... un tripudio di gag, risate, sospiri e anche lacrime che, per chi ha avuto la fortuna di vedere questo film, fanno subito innamorare a prima vista della sua splendida protagonista.

Che, se vogliamo dirla tutta, resta una delle attrici più sottovalutate di Hollywood. Ed è un vero peccato che la sua carriera non sia mai decollata "davvero", quasi che nel patinato mondo hollywoodiano non ci sia troppo spazio per le donne con testa "pensante" e pure belle, ma non della bellezza che va bene per lo star-system. Pazienza.
Holly Hunter è oggi madre felice e per niente nostalgica del passato: nonostante i due bambini, continua a recitare e far fruttare il suo talento in film indipendenti oppure in piccoli ruoli: l'abbiamo vista in Fratello, dove sei? dei Coen, in Nine Lives, in The Big White. Ultimamente si è pure data in pasto alla tv, nel ruolo di protagonista della fortunata serie Saving Grace, più bella e scattante che mai. E se un giorno, vedendo magari la sua faccia in qualche dvd, vi verrà da chiedervi "ma questa dove l'ho già vista"... ricordatevi di questo post!

domenica 21 marzo 2010

IL PROFETA (Francia, 2009) di Jacques Audiard


"In questo film la prigione è una metafora della Francia. Con questo non voglio dire che essere liberi o carcerati è la stessa cosa. Voglio dire che in prigione si ricreano, esasperati, i meccanismi sociali, psicologici, etnici, religiosi, di classe che condizionano la nostra vita sociale..." Parole di Jacques Audiard, regista di questo Il Profeta, filmone presentato a Cannes (dove ha vinto il Gran Premio della Giuria), trionfatore assoluto ai recenti Cesar e ora, finalmente, approdato anche nelle nostre sale. Beh, diciamo subito che i francesi con le metafore ultimamente ci sono un po' fissati: l'anno scorso fu la volta del sopravvalutatissimo e stereotipato La Classe di Cantet, che sfruttava l'universo scolastico come spaccato di una società ormai irrimediabilmente multirazziale. Questa volta tocca al talentuoso Audiard cimentarsi col difficile tema dell'integrazione in uno dei paesi più multietnici d'Europa, e stavolta il registro utilizzato è quello del thriller carcerario: il giovane Malik, immigrato magrebino solo e disperato, finisce in carcere per una stupidata e viene subito catapultato all'inferno. Analfabeta, taciturno, senza amici nè famiglia, vessato dagli altri detenuti, il ragazzo non sopravviverebbe se il bandito corso Luciani, delinquente incallito, non lo "assumesse" sotto la sua protezione, prima sfruttandolo come servo e poi, piano piano, dandogli consigli di sopravvivenza sulla vita da dietro le sbarre: inutile dire che Malik imparerà molto in fretta la lezione, diventando lui stesso a sua volta uno spietato boss che poi, ovviamente, finirà con lo scontrarsi contro il suo vecchio "mentore"... Come si vede, la trama non brilla certo per originalità, come del resto anche l'aspetto "metaforico" della pellicola, piuttosto scontato: le parole di Audiard oltre che per la Francia potrebbero andare bene per mille altre situazioni (un esempio? gli stadi di calcio) e mille altri luoghi. Difficile quindi trovare spunti di dibattito che non siano già stati affrontati in almeno un altro centinaio di film sullo stesso tema... è proprio il caso di dirlo: il dibattito no! Semplicemente, è inutile.

Tuttavia, sfrondato dall'aspetto filosofico e sociologico, bisogna dire che Il Profeta è un ottimo film di genere (carcerario, appunto) che merita sicuramente la visione: è la cronaca di una metamorfosi (violenta) di una pagliuzza che si trasforma in un tronco di rovere pronto anche a far male, se necessario, pur di garantirsi rispetto e deferenza. Il tutto in una drammatica escalation di violenza e paura che coinvolge lo spettatore mettendolo anche a dura prova per tensione e ritmo. Certe scene, girate in presa diretta e con notevoli virtuosismi di macchina, fanno serrare le palpebre per la loro durezza e il loro pathos, decisamente impreziosite dalla recitazione in stato di grazia degli interpreti, tutti davvero bravissimi. Forse non saremo ai livelli del grandioso L'ultima missione di Marschal, per capirci, ma la regia asciutta, essenziale, senza fronzoli (lo diciamo? Alla Eastwood!!) di Audiard ci regala due ore e mezza di ottimo cinema.
VOTO: * * *

sabato 13 marzo 2010

amori cinefili / JODIE FOSTER


La definizione più bella di lei l'ha data Jon Amiel, il regista di Sommersby: "Se esistesse una perfetta macchina per recitare, questa assomiglierebbe a Jodie", e in effetti in ogni film (bello o brutto che sia) si resta stupiti dalla professionalità, dalla bravura, dalla classe di questa immensa attrice, il primo "amore cinefilo"della mia vita... e pertanto non potevo non aprire questa rubrica con la mia "attrice del cuore", che mi ha accompagnato fino ad oggi regalandomi emozioni uniche, e pagine di celluloide di rara bellezza.
L'abbiamo vista tante volte Jodie, e ci ha sempre fatto palpitare: l'abbiamo vista col terrore negli occhi ne Il silenzio degli innocenti, aggrappata cocciutamente a un sogno impossibile e romantico in Contact, mutilata di capelli, anima e pietà in Sotto Accusa... l'abbiamo vista già a tre anni col culetto nudo e maliziosamente scoperto da un cagnaccio nella pubblicità della Coppertone, e quello stesso culetto (ben più sodo e stretto da striminziti hot-pants) pochi anni dopo in Taxi-Driver, dove aveva stregato perfino il guru Scorsese. E ancora, sorprendentemente e appassionatamente erotica in Ore Contate, filmaccio sconclusionato e "maledetto" di Dennis Hopper, e sporca, imbruttita e selvaggia in Nell, il suo ruolo più estremo. E come non ricordarla, raggiante, spiritosa e stronzetta in Maverick, accanto al gigione Mel Gibson, o ancora "adulta" e glaciale in Inside Man e Panic Room? Film diversissimi tra loro, non tutti memorabili, qualcuno assolutamente brutto, ma tutti tenuti a galla dalle straordinarie performance di questo scricciolo di soli 165 centimetri ma dotato di una tempra d'acciaio.

Jodie Foster è una delle attrici più potenti e stimate di Hollywood, e ormai può permettersi di tutto, perfino di scegliersi i ruoli che vuole (prerogativa riservata a pochissimi eletti, speciamente in campo femminile), i personaggi da lei interpretati hanno tutti un comune denominatore: sono donne coraggiose, indipendenti, risolute e, soprattutto, sole. E la solitudine, come vedremo, sarà una costante della sua vita.
Jodie nasce a Los Angeles nel 1962, figlia di un padre violento e di una madre lesbica e sciroccata: sarà lei che dopo essere stata abbandonata dal coniuge "convincerà" la figlia, a soli tre anni, a girare spot pubblicitari per mandare avanti la baracca. E Jodie comincia così la sua carriera, sbattuta precocemente sopra un palcoscenico dal quale non si staccherà più: reclutata dalla Disney, che ha visto lungo sulle potenzialità della ragazzina, a tredici anni ha già girato 22 film. A quattordici ottiene il ruolo della vita: in Taxi Driver, Scorsese la fa recitare accanto a DeNiro facendole (s)vestire i panni di Easy, la baby-prostituta che batte il quartiere che Travis Bickle ha deciso di ripulire. La produzione, preoccupata, la fa affincare da uno psicologo, ma lei tranquillissima afferma che "so distinguere benissimo la realtà dalla finzione". E' la prima nomination all'Oscar, che la lancia nell'olimpo di Hollywood. Eppure la piccola non si monta la testa: a differenza di tanti altri baby-colleghi, caduti in disgrazia perchè travolti da una notorietà improvvisa e devastante, Jodie si muove nello star-system col piglio di una veterana: comincia ad amministrare i suoi affari da sola, staccandosi dalla mamma-manager scroccona e possessiva e dalle grinfie di un fratello invidioso e mediocre, e diventa una stella di prima grandezza, capace di far perdere la testa a registi e produttori. E non solo: nel 1980 un maniaco paranoico spara al presidente Reagan, motivando l'assurdo gesto come un modo per farsi notare dalla nostra Jodie, della quale è perdutamente innamorato...

"Non ho mai avuto un'infanzia, un compagno di giochi, un fidanzatino... non ho avuto il tempo". E' una frase che la Foster ripete stesso, senza vergogna ma con gli occhi velati di malinconia. Ha avuto una vita senza respiro, problematica, travolgente, faticosa, e lo spettatore più attento non può non coglierne le tracce nei ruoli che interpreta nei suoi film: tutte parti di donne tese, caparbie, nevrotiche e, come dicevamo, drammaticamente sole. Una vita al massimo, come direbbe Vasco, nella quale non si è fatta mancare nulla, trovando il tempo perfino di imparare il francese e l'italiano (proprio così!), nonchè di laurearsi per ben DUE volte a Yale, naturalmente con il massimo dei voti... Fioccano le proposte, i premi, i film importanti: Sotto Accusa, del 1988, le regala il primo Oscar, seguito a ruota dal secondo, nel 1991, con Il silenzio degli innocenti, dove interpreta il personaggio forse più famoso della sua carriera, quello di Clarice Starling, giovane recluta dell'Fbi costretta a scendere a patti col crimanale-cannibale Hannibal Lecter, che le chiederà in cambio i suoi segreti più intimi: è un'interpretazione leggendaria per temperamento, magneticità, attrattiva. Solo Anthony Hopkinns le starà al passo, ma resterà prigioniero del ruolo per tutta la vita. Jodie invece proseguirà ancora, regalandoci altre interpretazioni memorabili (Contact su tutte, film straordinario e sottovalutatissimo) e diventanto addirittura regista, dirigendo due film deliziosi e importanti come Il mio piccolo genio e il "gioiellino" A casa per le vacanze (purtroppo sconosciuto in Italia). All'età di trent'anni Jodie Foster ha già ottenuto tutto ciò che un attore sogna di ricevere in una carriera intera.









Da qui il desiderio di fermarsi, di dedicarsi a quella vita privata che non ha mai avuto. La sua decisione di avere due figli con l'inseminazione artificiale, senza rivelare il nome del padre, suscita scandalo nell'America benpensante e bacchettona, ma lei se ne frega altamente. Riservatissima sul proprio conto, solo molti anni più tardi farà "outing" rivelando di essere omosessuale, e prediligendo sempre compagne molto più grandi lei, quasi per non farsi mancare quell'amore materno, filiale, del quale non ha mai potuto godere... Jodie adesso è madre felice di due ragazzi, ormai quasi adolescenti, e si dedica al cinema solo per passione: sceglie i film in base al ruolo da interpretare e a ciò che gli trasmette il personaggio, compatibilmente con le sue esigenze di genitore: nessuno meglio di lei sa cosa vuol dire essere bambina-prodigio, con tutte le conseguenze che occorrono. Lunga vita, cara Jodie.

DISTRICT 9 (S.Africa, 2009) di Neill Blomkamp


di Neill Blomkamp (Sudafrica, 2015)
VOTO: * * * *

Gli alieni sbarcano sulla Terra e sono brutti, sporchi, ma non cattivi. E sono pure troppi: più di due milioni. Altro che Independence Day o Mars Attaks! O anche solo E.T. o Incontri ravvicinati... Le “creature” scese su Johannesburg non sono né “invasori” spietati e guerrafondai, né entità superiori e romantiche come quelle spielberghiane: sono solo poveri diavoli spaventati e denutriti, arrivati fin qui con una “carretta” spaziale, che vengono confinati dalle autorità sudafricane in baraccopoli orride e fatiscenti, privati di qualsiasi dignità. Trascorrono il loro tempo elemosinando scatole di cibo per gatti e carne putrefatta, rovistano nell'immondizia, sono ripudiati e derisi dagli esseri umani che li chiamano “gamberoni” e li trattano alla stregua di bestie. Logico quindi che , dopo vent'anni di (non) pacifica convivenza, si verifichino i primi episodi di intolleranza e guerriglia. Ed ecco che il governo decide di provvedere allo sgombero forzato del “ghetto” alieno, trasferendo questi ospiti indesiderati un un immenso CPT lontano dalla città...

Vi dice niente questa storia? Beh, sarebbe un attentato all'intelligenza di chi legge spiegare gli ovvi riferimenti alla realtà quotidiana... Quello che invece mi preme dirvi, eccome, è di non perdervi assolutamente questo bellissimo film di Neill Blomkamp: una goduria per gli occhi e la mente di chi scrive e per tutti gli appassionati di fantascienza. District 9 è un film splendidamente classico, che attinge a piene mani dalla fantascienza “politica” e contestatrice degli anni '50, rispolverando un assioma vecchio quanto il mondo ma che, da sempre, è il punto di forza di tutte le pellicole di “sci-fi”: utilizzare il futuro per parlare del presente, sfruttare l'allegoria per mostrare alla gente le storture della società contemporanea. Un'opera dal respiro antico, dunque, ma straordinariamente attuale e “progressista”, che fa riflettere e discutere, sul “come eravamo” e sul “come siamo diventati”, sul destino di una specie umana costituzionalmente violenta e xenofoba.

 La forma è quella del falso-documentario (unica concessione, forse, al cinema di oggi: ormai la moda del “mockumentary” è planetaria): veloce, spiazzante, convulsa, con l'utilizzo (per una volta doveroso e efficace) della camera a spalla e dello stile-reportage tipo CNN che conferiscono al film un aspetto crudo e realistico. Innumerevoli le citazioni cinefile, tutte sincere e circostanziate: da Transformers, a Robocop, a Starship Troopers... fino alla più ovvia e importante, quella de La Mosca, che si esplicita nella figura di Wikus VanDeMerve, un odioso, raccomandato e insignificante burocrate che, incaricato dal governo di dirigere le operazioni di sgombero, viene infettato dal sangue alieno durante una colluttazione. L'inevitabile “mutazione” corporea del malcapitato si accompagnerà a quella spirituale, facendogli prendere coscienza di quello che sta succedendo intorno a lui. Come dire: l'ultima speranza della specie umana è quella di diventare aliena a se stessa.

lunedì 8 marzo 2010

L'OSCAR E' DONNA


Forse era destino. Proprio in coincidenza con l'otto marzo, per la prima volta in 82 anni di storia una donna trionfa a Hollywood: basterebbe questo per far capire la portata della vittoria di Katrhyn Bigelow e del suo film The Hurt Locker all'Oscar 2010: onestamente non se lo aspettava nessuno (nemmeno il sottoscritto, basti vedere il post di ieri), qualcuno magari ci sperava, ma era davvero contronatura ipotizzare che il plurimiliardario Avatar subisse una sconfitta così clamorosa. Intendiamoci, il clamore non è dato soltanto dal fatto che abbia vinto una donna (pur riconoscendo che l'impresa è notevole) ma, soprattutto, perchè questo risultato sconfessa senza appello lo star-system hollywoodiano e la sua stessa idea di cinema, punendo pesantemente un film-baraccone insulso, goffo e malato di gigantismo come Avatar, che è l'emblema della potenza di fuoco degli Studios, e certificando così che l'industria cinematografica americana è ormai alle prese con una crisi di idee forse irreversibile... La vittoria va così ad un piccolo film indipendente, uscito ben due anni fa (!) semisconosciuto in patria, dove ha faticato perfino per trovare un distributore, e praticamente ignorato in Italia, avendo realizzato un incasso ai limiti del ridicolo: circa 130mila euro, vale a dire quello che incassa Avatar in mezza giornata.


I VINCITORI
The Hurt Locker, dunque, si porta a casa sei statuette: oltre alle due principali (miglior film e miglior regia) anche quelle per sceneggiatura, montaggio, suono ed effetti sonori: forse troppa grazia per un film che, come ho detto e ripetuto in tempi non sospetti, è impeccabile dal punto di vista stilistico ma, opinione personalissima, assolutamente discutibile sul piano etico: la regista è convinta (sicuramente in buona fede) di aver realizzato un'opera pacifista e illuminante sull'insensatezza della guerra, peccato però che il suo film non prenda assolutamente posizione sul conflitto iracheno, considerandolo un atto dovuto e necessario, e mostrandoci in ogni scena le atrocità dei "terroristi" indigeni contro le valorose truppe di liberazione yankee... Di Katrhyn Bigelow ho apprezzato molto di più opere passate come Point Break o Strange Days, pellicole di genere, adrenaliniche e coinvolgenti, senza troppe implicazioni "filosofiche" ma tutt'altro che stupide. Comunque, se vogliamo leggerlo come premio alla carriera, questo Oscar per la coriacea ex-moglie di James Cameron ci sta tutto.
Per il resto, nessuna sorpresa tra gli attori: Jeff Bridges e Sandra Bullock hanno trionfato tra i protagonisti, mentre per gli interpreti "di supporto" (come dicono a Hollywood) scontate le vittorie del bravissimo Christoph Waltz (unico premio per Bastardi senza gloria) e la cabarettista televisiva Mo'nique di Precious (che ha vinto anche l'Oscar per la sceneggiatura). Altrettanto scontate (ma meritatissime) anche le statuette per Up (miglior cartone e colonna sonora) e per la costumista Sandy Powell, per gli abiti di The Young Victoria.

GLI SCONFITTI
Non ci sono solo Avatar e James Cameron tra i delusi di questa edizione (e comunque vincitori di tre premi, pur se minori: fotografia, scene ed effetti speciali). Sono rimasto personalmente malissimo per il mio film preferito, Tra le nuvole, che non ha vinto nemmeno l'Oscar per la sceneggiatura non originale (che sembrava sacrosanto e invece è andato a Precious), a conferma che le commedie non fanno mai presa tra i giurati-parrucconi dell'Academy... gli stessi che nutrono un'evidente antipatia personale verso Quentin Tarantino, rimasto a bocca asciutta per l'ennesima volta.

LE SORPRESECorsivo
Beh, certamente la vittoria di The Hurt Locker è la sopresa più grande! Tuttavia ci sono anche altri pronostici che sono saltati nella serata di ieri notte: il più clamoroso è il premio come miglior film straniero allo sconosciuto lungometraggio argentino El segreto de sus ojos, che a questo punto ci auguriamo possa arrivare presto anche in Italia. Rimangono così a bocca asciutta i due grando film-rivali di questa annata: l'austriaco Il Nastro Bianco e il francese Un prophète, comunque già abbondantemente carichi di premi in molte competizioni internazionali. Sorpresa anche per gli unici due VERI film indipendenti di questa edizione: Precious e Crazy Heart che vincono due statuette a testa: era difficile chiedere di più.

Ecco, comunque, l'elenco completo dei vincitori:

domenica 7 marzo 2010

And the Oscar goes to...


L'Oscar per gli americani è un po' come il Festival di Sanremo per noi... e non occorrerebbe dire altro. Insomma, se Sanremo è Sanremo, L'Oscar è l'Oscar. Punto. Come ho sempre detto in questi casi, le premiazioni dell'Academy non vanno prese troppo sul serio, del resto nemmeno in America c'è qualcuno che si straccia le vesti per la mancata vittoria di questo o quel candidato: la Notte delle Stelle è l'avvenimento televisivo dell'anno (e già questo la dice lunga), e i telespettatori in poltrona amano più che altro il glamour, la moda, lo star-system, il divismo, la competizione, gli sguardi assassini tra i contendenti... è un pubblico fatto di casalinghe, pensionati, persone di medio-bassa cultura a cui interessa davvero relativamente chi sarà il Miglior Film dell'anno, non fosse altro per il fatto che tutti i film in gara, ormai, sono già passati in sala e la loro sorte al botteghino è già stata decretata, nel bene o nel male. Tuttavia bisogna riconoscere, incontestabilmente, che la statuetta dorata riveste ancora un grande fascino tra gli addetti ai lavori: l'Oscar, infatti, è il premio dell'industria cinematografica americana, e siccome i giudici sono gli stessi protagonisti che si votano tra di loro (attori, registi sceneggiatori, montatori, scenografi, ecc...) ecco che un Oscar diventa un premio molto ambito, sia in termini di prestigio personale che, soprattutto, in termini di denaro da spuntare nel prossimo ingaggio. Del resto senza Hollywood non esisterebbe la Magia del Cinema, e la Notte degli Oscar è la sublimazione del Potere degli Studios: possiamo storcere il naso quanto vogliamo su questa baracconata festivaliera, ma onestamente è difficile immaginare di poterne fare a meno.
Diverso invece il discorso per noi europei, dove il nome Oscar fa ancora gola (e molto) agli esercenti cinematografici, e dove una statuetta in aggiunta al titolo del film può valere (forse) parecchi quattrini in più, magari rilanciando una pellicola passata inosservata qualche mese prima e che, una volta glorificata dall'Academy, può "risorgere" in sala e portare nuovi incassi: si pensi, tanto per fare un esempio, a un film come The Hurt Locker, da noi meteora al botteghino e che ora potrebbe invece beneficiare di un'eventuale vittoria...
Insomma, che ci piaccia o no ignorare la serata di stasera è difficile. E allora tanto vale parlarne, magari per giocare un po' sui pronostici e le curiosità del premio. Vediamo dunque, categoria per categoria, come "potrebbe" andare e quali sarebbero, invece, le intenzioni del sottoscritto se avesse lui (seee... ti piacerebbe!) in mano la possibilità di far vincere i premi.
Sognare, del resto, non costa nulla...

MIGLIOR FILM.
Beh, qui c'è poco da dire. Avatar è il "caso" cinematografico dell'anno, e poco conta se sia stato "montato" ad arte o meno. Lo spettacolare (ma anche banalotto) giocattolone iper-tecnologico firmato James Cameron ha incassato finora qualcosa come due miliardi e mezzo di dollari in tutto il mondo, a fronte dei 500 milioni spesi per realizzarlo (anche questo è un record), e ha sdoganato una tecnologia (il 3D) che ha di fatto riportato la gente nelle sale allontanando la pirateria: a fronte di tutto ciò è davvero molto difficile ipotizzarne la sconfitta... C'è chi sostiene che l'Academy non ami la fantascienza e nemmeno Cameron (inviso e invidiato da molti per la sua megalomania) e potrebbe preferirgli il pamphlet bellico The Hurt Locker, ma onestamente ci credo poco: è vero che il film della Bigelow è molto più amato dalla critica cinematografica, ma non dimentichiamoci, per l'ennesima volta, che l'Oscar è il premio dell'industria (non dei critici): è Hollywood che premia se stessa e non penso che volterà le spalle a Avatar, vorrebbe dire sconfessare minare le proprie fondamenta, e non accadrà.
Praticamente nulle le possibilità degli altri film, a dimostrazione che l'allargamento a dieci nominations è stata soprattutto una boutade televisiva, un espediente per acchiappare l'audience: faccio il tifo per il delizioso Tra le nuvole di Reitman (commedia amara, nostalgica e terribilmente attuale sulla società moderna), o per il gioiellino fantascientifico District 9. Non hanno speranze, ma è già importante che ci siano...
Vincerà: AVATAR
Il mio preferito: TRA LE NUVOLE

MIGLIOR REGIA
Qui il discorso è diverso. La regia è una categoria "strana": sinceramente non ho mai capito bene che differenza ci sia, per l'Academy, tra miglior regia e miglior film, in quanto mi sembrerebbe ovvio che se un film è il più bello dell'anno la stessa cosa debba dirsi anche per il suo regista... e in effetti, guardando l'albo d'oro dei vincitori, vediamo che le due categorie coincidono spesso, diciamo otto volte su dieci. Forse lo sdoppiamento è un escamotage per assegnare un'Oscar anche al produttore, chissà... A ogni modo, come dicevo, quest'anno il discorso è interessante: perchè a contendersi la statuetta ci sono un'uomo e una donna, e si dà il caso che la donna sia nientemeno la ex-moglie dell'uomo... insomma, per James Cameron e Kathryn Bigelow sarà sfida in famiglia, stile Guerra dei Roses, e non è azzardato sostenere che, contrariamente a quanto detto sopra, potrebbe spuntarla proprio la coriacea signora Bigelow, molto più amata a Hollywood dell'ex-marito. Intanto, perchè The Hurt Locker è sicuramente molto più bello di Avatar (nonostante la morale guerrafondaia e trita, per me inaccettabile), e quindi il premio alla Bigelow sarebbe una specie di "risarcimento", e poi perchè in 82 anni mai nessuna donna è riuscita a portarsi a casa la stauetta per la regia... insomma, secondo me ce la può fare. Anche qui, inutile farsi illusioni su un possibile outsider: Tarantino e i suoi Bastardi dovranno solo applaudire, stessa cosa per il bravo Jason Reitman di Tra le Nuvole e Lee Daniels, autore della sorpresa Precious.
Vincerà: KATHRYN BIGELOW
Il mio preferito: JASON REITMAN

MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA
Competizione ad altissimo livello, come non si vedeva da anni. Jeff Bridges potrebbe finalmente farcela, dopo una carriera intera, a vincere l'Oscar per la sua brillante interpretazione di un cantante country alcolizzato e disilluso in Crazy heart, una specie di fotocopia de Il Grande Lebowski, il suo ruolo più celebre. Tuttavia dovrà guardarsi bene da George Clooney, commovente e mai così bravo in Tra le nuvole, e da Morgan Freeman, convincente Nelson Mandela in Invictus di Eastwood. Ma il mio cuore batte, inesorabilmente, per l'immenso Colin Firth di A single man, straordinario interprete di un ruolo complicato e gravoso... per me ha già vinto, indipendentemente dalle scelte di stasera. Solo "ornamentale" dovrebbe essere la presenza di Jeremy Renner, protagonista di The Hurt Locker.
Vincerà: JEFF BRIDGES
Il mio preferito: COLIN FIRTH

MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA
A differenza dei colleghi maschietti, poco pathos invece per le migliori attrici, a conferma che a Hollywood i ruoli femminili da un po' di tempo a questa parte scarseggiano. Delle cinque interpreti in gara, infatti, nessuna ha un ruolo memorabile: potrebbe vincere Sandra Bullock, la candidata più "glamour", mai nominata prima e in corsa con The blind side, una delle sorprese della stagione a stelle e strisce. Ma dovrà guardarsi da due attempate signore di Hollywood, peraltro già "oscarizzate" in passato: Helen Mirren (The last station) e l'eterna Meryl Streep (Julia & Julia), arrivata addirittura alla sedicesima nomination! La rivale più pericolosa per la Bullock, però, potrebbe essere l'esordiente (!) Gabourey Sidibe: fino a un anno fa non faceva nemmeno l'attrice, poi dopo aver risposto ad un annuncio sul giornale è stata scritturata per Precious e da lì è cominciato il suo sogno (molto americano). L'Academy ha sempre tenuto in considerazione certe "favole"... Platonica, invece, la candidatura della giovane Carey Mulligan (An education) che però è la vera rivelazione dell'anno: ha una faccina pulita, furbetta e molto espressiva. Ce ne ricorderemo.
Vincerà: SANDRA BULLOCK
La mia preferita: CAREY MULLIGAN

MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA
Qui non c'è proprio gara: Christoph Waltz, nel ruolo dello spietato "cacciatore di ebrei" di Bastardi senza gloria è il vincitore annunciato, e non potrebbe essere che così. Il sottoscritto non ama particolarmente Quentin Tarantino, ma gli va dato merito di aver scritto per questo 53enne austriaco il ruolo della vita. Un personaggio fantastico, di quelli che ti capitano una volta nella vita. Chapeau. Nessuna speranza per gli altri, anche se lo Stanley Tucci di Amabili Resti è un degno avversario.
Vincerà: CHRISTOPH WALTZ
Il mio preferito: CHRISTOPH WALTZ

MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA
Anche qui il pronostico sembra chiuso: la conduttrice televisiva Mo'nique, già partecipante di svariati reality, promotrice negli USA dell'ironica teoria del "grasso è bello", non dovrebbe aver problemi nel portarsi a casa l'Oscar. La sua performance in Precious è di quelle che colpiscono l'Academy, e poi è il premio più abbordabile per il piccolo film di Lee Daniels, sorpresa cinematografica dell'anno, che "deve" vincere qualcosa per tenere a galla il cinema indipendente. Peccato per le due brave interpreti di Tra le nuvole, Anna Kendrick e la bellissima Vera Farmiga. Per Penelope Cruz, già premiata lo scorso anno, e Maggie Gyllenhaal la nomination è gia un premio.
Vincerà: MO'NIQUE
La mia preferita: VERA FARMIGA

MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE
Teoricamente, nessuno può competere con Quentin Tarantino: il suo verbosissimo Bastardi senza gloria è "il" film di sceneggiatura per eccellenza, ed è il logico favorito in questa categoria. Però... se le cose dovessero andare in un certo modo (cioè bene) per Kathryn Bigelow, nel senso di una pioggia di statuette che la incanalerebbero verso il trionfo (poco probabile), The Hurt Locker potrebbe giocare un brutto scherzo al regista di Knoxville, mai troppo amato dall'Academy. Anche se però, alla fine, la migliore sceneggiatura in assoluto è quella del bellissimo cartone Up, che però temiamo dovrà accontentarsi del premio per l'animazione. Peccato.
Vincerà: BASTARDI SENZA GLORIA
Il mio preferito: UP

MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE
Questa è la categoria dove ci sono le cose migliori di questa annata cinematografica, a cominciare dallo script del sorprendente District 9 di Neill Bloomkamp, coraggioso e geniale film di fantascienza sudafricano che sfrutta l'immaginazione per parlare di problemi più che attuali della nostra società: il razzismo, l'apartheid, l'immigrazione, la sovrappopolazione... una bella pagina di cinema. Molto leccato ma tutto sommato ben scritto l'inglese An Education, molto "british" (scusate il gioco di parole) e in questo caso non è una parolaccia. Ci sono poi le sorprese Precious (di cui abbiamo già ampiamente parlato) e lo sconosciuto In the Loop, ancora inedito in Italia. Però questa è la categoria di Tra le nuvole, decisamente il più bel film tra quelli in gara quest'anno, e pieno di candidature senza speranza. Questa è l'unica realisticamente possibile, e nessuno gliela deve togliere, sennò mi arrabbio!
Vincerà: TRA LE NUVOLE
Il mio preferito: TRA LE NUVOLE

MIGLIOR FILM STRANIERO
Anche qui confronto serratissimo, probabilmente all'ultimo voto: si rinnova il duello tra l'austriaco Il nastro bianco di Michael Haneke e il francese Un Prophète, di Jacques Audiard. Finora in tutte le occasioni (Festival di Cannes, Golden Globes, EFA) ha sempre prevalso il primo, ma i 5.800 giurati dell'Academy potrebbero considerare troppo autoriale il film austriaco e "dirottare" le loro preferenze sulla ben più commerciale pellicola francese. Tuttavia, per il sottoscritto, l'opera di Haneke è notevolissima e merita un Oscar sacrosanto. Vedremo.
Vincerà: IL NASTRO BIANCO
Il mio preferito: IL NASTRO BIANCO

LE ALTRE CANDIDATURE
Restano le briciole... dando per scontato che Avatar dovrebbe fare incetta di tutte le candidature tecniche (effetti visivi, sonori, suono, fotografia, scene, musica), a The Hurt Locker potrebbe toccare la statuetta per il miglior montaggio (Tarantino permettendo), mentre appare scontata (e meritata) la vittoria di Up nei cartoni animati. Desta curiosità la candidatura dei nostri Signoretti e Sodano per Il Divo nella categoria del miglior trucco (ma sarà difficile battere Star Trek). Il pronostico per i migliori costumi va a The Young Victoria della pluripremiata Sandy Powell, mentre per la miglior canzone originale il premio non dovrebbe sfuggire alla bella "Take it all", forse l'unico motivo per vedere il deludentissimo Nine.

SHUTTER ISLAND (USA, 2009) di Martin Scorsese


"La caduta degli Dei"... così potremmo ricordare questo weekend, agognato per l'uscita di due filmoni tanto attesi, che poi si sono rivelati due "flop" clamorosi, a testimonianza che non bisogna mai dare giudizi a scatola chiusa, nemmeno se gli autori si chiamano Tim Burton o Martin Scorsese. Ad "aggravare", diciamo così, la posizione di questi due mostri sacri di Hollywood è il fatto che entrambi si sono cimentati con opere che, per così dire, erano pane per i loro denti: Burton avrebbe dovuto essere davvero a suo agio nella rilettura di Alice in Wonderland, storia bizzarra e fantasmagorica, di quelle che piacciono tanto a lui, mentre Scorsese non avrebbe potuto trovarsi meglio in questo Shutter Island, thriller cupissimo e nero come tanti titoli su cui ha costruito la propria carriera. E invece, quello che è successo a Burton (vedi post precedente), si è ripetuto anche per il "maestro" Martin, al quale le cose, stavolta, non sono girate proprio per il verso giusto, almeno per il sottoscritto.

Tratto dal romanzo omonimo di Dennis Lehane, il film del celebre regista italo-americano è un'opera decisamente irrisolta e incoerente, cosa che non ci aspettavamo da un cineasta capace di sfornare in tanti anni di carriera numerosi capolavori proprio di questo genere: Shutter Island è un modesto incrocio tra giallo, thriller, noir, horror e paranormale, un discutibile calderone di generi che scade nella confusione e nella banalità, molto convenzionale e decisamente prevedibile: nonostante le buona prova degli attori (DiCaprio su tutti, ancora una volta) la trama è piatta, banale e poco incisiva. Non si azzarda a riflessioni difficili e scottanti sul tema della detenzione, dei manicomi, della rieducazione delle vittime (niente a che vedere, per capirci, con Qualcuno volò sul nido del cuculo), e nemmeno si concentra troppo sulla suspance: ne viene fuori uno strano "B-Movie", dignitoso e "cattivo" quanto basta nella prima parte (dove perlomeno ritmo e tensione sono su livelli accettabili), ma che poi naufraga clamorosamente nella parte finale, virando verso un epilogo che più scontato e sconfortante non si può...

Cast stratosferico, confezione extra-lusso, gran dispendio di soldi e energie: Scorsese, dopo l'Oscar con The Departed, ormai può permettersi di tutto, anche film brutti e senz'anima come queto ma che portano svariati milioni di dollari nei botteghini americani. Ci auguriamo solo che non si sia venduto anche l'anima.
VOTO: * *

sabato 6 marzo 2010

ALICE IN WONDERLAND (USA, 2009) di Tim Burton


Basta leggere il mio profilo qui di fianco per capire che sono un fan di Tim Burton, da sempre. L'ho sempre amato per la sua folle "sregolatezza", per la sua capacità di rendere "eroi" i diversi, gli emarginati, coloro che non si ritrovano in questo mondo dove non c'è posto per chi non è omologato alle masse, globalizzato nell'anima... logico dunque che mi aspettassi molto da questo Alice in Wondeland, sulla carta il film "ideale" per il geniaccio di Burbank: una storia bizzarra, onirica, surreale, un'incrocio tra una fiaba per ragazzi e un racconto "dark", dolente e malinconico per chi ha qualche anno in più. Se tra voi qualcuno ha visto La Sposa Cadavere o Edward Mani di Forbice capisce a cosa mi riferisco. E invece, con mio grande rammarico, sono costretto ad ammettere che Alice in Wonderland è una grossa fregatura, un clamoroso passo indietro per un regista che ci aveva abituato (fin troppo bene, forse) a cullarci nei nostri sogni e a condurci mano nella mano in universi "paralleli" che, sotto la sua guida, diventavano assolutamente mirabolanti e fantasmagorici.

Ma questa trasposizione del classicissimo libro di Lewis Carroll è quanto di meno burtoniana potrebbe essere: sembra incredibile, ma se non sapessimo che è stata girata proprio da lui lo scambieremmo per un film di un onesto mestierante qualsiasi, di un anonimo artigiano del cinema chiamato controvoglia a dirigere una produzione tanto ambiziosa quanto convenzionale e asettica. L'Alice di Burton ci sembra una minestra riscaldata, un noiosissimo prodotto preconfezionato, una pellicola su commissione girata senz'anima e senza trasporto. Non sapremo mai se il regista non la sentisse davvero "sua", o se al contrario la sentisse fin troppo, la desiderasse così ardentemente tanto da cadere in "ansia da prestazione" (un po' come successe a Benigni con il suo "Pinocchio" riveduto e corretto). Certo è che questa versione è talmente fedele all'originale da farci davvero rimpiangere il libro di Carroll: tutti noi lo abbiamo letto da bambini e tutti ci siamo spaventati e divertiti ad immaginare, con la fervida mente di adolescenti, i vari personaggi e mostriciattoli che via via si presentano. E possiamo scommettere che di sicuro la nostra immaginazione avrebbe creato figure molto più belle e originali di quelle del film, seppellite da chili di trucco pesantissimo e sgradevole alla vista (non è un caso se una produzione così mastodontica non abbia ricevuto neanche la nomination per il make-up ai prossimi Oscar, che tutti davano per scontata). Per non parlare poi della sbagliatissima (a posteriori) decisione di "gonfiare" il film in 3D per sfruttare la nuova tendenza del momento, un inutile dispendio di effetti speciali che non solo non portano nessun valore aggiunto al film, ma lo appesantiscono a dismisura rendendolo ancora più noioso e stucchevole.
Ma, aldilà dei tecnicismi, ciò che deude profondamente in Alice in Wonderland è l'assoluta mancanza di caratterizzazione dei personaggi principali: il Cappellaio, lo Stregatto, il PincoPanco e compagnia, anzichè farci inquietare e riflettere come dovrebbero, lasciano invece posto solo agli sbadigli e alla noia: Johnny Depp, ormai attore-feticcio di Burton, ce la mette tutta per sembrare "in parte", ma le sue smorfie, i suoi balletti, le sue mossette lo rendono più ridicolo che divertente, finendo per risultare insopportabile e manieristico come il film. Si ha un bel dire che questo è un film "commerciale", voluto dalla Disney per speculare sul merchandising, ma anche i film commerciali possono essere belli o, quantomeno, dignitosi. E questo, ahimè, è molto sotto la media.
VOTO: * *