domenica 26 settembre 2010

MANGIA PREGA AMA (USA, 2010) di Ryan Murphy

Ci sono dei film che spesso amiamo o detestiamo a seconda del tempo, inteso come momento di vita. Film che magari ci piacevano e che che sono "invecchiati" male o che, viceversa, non ci avevano entusiasmato alla prima visione ma che rivalutiamo dopo averli rivisti. Ecco, Mangia Prega Ama è un film che se lo avessi visto una decina di anni fa avrei detestato profondamente. Dieci anni fa, non ancora trentenne, energico, speranzoso e con i capelli in testa, avrei dileggiato e preso ferocemente per i fondelli questa pellicola "insulsa e involontariamente malin-comica" su una tardona che ha smarrito il desiderio e crede di ritrovarlo andando in giro per mezzo mondo...

Invece, avendolo visto oggi alle soglie dei fatidici 'anta', Mangia Prega Ama è un film che ti fa per forza riflettere, anche se non vuoi e in cuor tuo fai finta di non pensarci. Perchè, volente o nolente, sei arrivato a quell'età in cui è fisiologico cominciare a fare un bilancio della tua vita, su quello che è andato bene o meno, su quello che avresti voluto (o potuto) fare e che è andato diversamente, su quanto, davvero, ti senti felice e realizzato. I quarant'anni sono un'età in cui, forse, ti fai troppe domande e ti arrabatti nel tentativo di rispondere, ben consapevole che le risposte, tante (troppe?) volte potrebbero farti male.

La Julia Roberts del film è una quarantenne che si pone queste domande, ed è ovvio che mentre sorridiamo delle sue peripezie ci viene naturale fare un parallelo con le nostre vite, rendendoci conto che siamo giunti ad un punto del nostro percorso dove è sempre più difficile fare delle scelte: perchè a quarant'anni non si è più tanto giovani e incoscienti per mollare tutto e ricominciare (non siamo dalle parti di Into the Wild, e il paragone NON è blasfemo) e, soprattutto, ci portiamo dietro quel fardello di ferite e di esperienze che inevitabilmente hanno segnato la nostra anima e che alimentano le paure (tutte, non solo quella di amare ma anche, più banalmente, di compiere tutte quelle azioni che siano minimamente 'trasgressive'...).
Per questo Mangia Prega Ama non è un film stupido. Potrà non piacere, potrà risultare falso, macchiettistico, noioso, troppo lungo (due ore e mezza sono una durata spropositata per una commedia) ma di sicuro è un film che ti entra dentro e che ti fa pensare e ripensare. Questa recensione (se così vogliamo chiamarla, me ne scusino i critici 'veri') mi è venuta di getto e qualcosa vorrà pur dire.

E voglio dire qualcosa anche sui famigerati 'stereotipi' di cui è piena questa pellicola. Non capisco perchè tanta gente si 'indigni' nel vedere il modo in cui gli americani ci rappresentano. Possibile che siamo diventati così permalosi? E, soprattutto, siamo sicuri NOI di essere sopra le parti, senza pregiudizi? Gli stereotipi ce li abbiamo tutti, e scagli la prima pietra chi sostiene il contrario! Non abbiamo forse sempre dipinto, ad esempio, gli svizzeri come orologiai e cioccolatari? O i russi come ubriaconi e attaccabrighe? O gli stessi americani come ignoranti e obesi? La Roma del film è una città da cartolina, dove i suoi abitanti sono amanti della bella vita, della buona cucina, caciaroni, romantici e perditempo. Sinceramente, è davvero un ritratto così lontano dalla verità? E, ancor più sinceramente, l'immagine che le vicende (politiche e non) di questi giorni stanno dando del nostro paese è davvero migliore di come ci vedono gli altri?

VOTO: * * *

sabato 18 settembre 2010

Venezia 67 / TIRANDO LE SOMME


E' finita così, dunque. Con Tarantino che premia la sua ex-fidanzata e il suo ex-produttore... se proprio vogliamo buttarla sul gossip. Come sempre i verdetti della Mostra suscitano polemiche, risentimenti e battute. Fin qui tutto normale. La cosa meno normale è che un Ministro della (in)cultura "minacci", in pieno delirio fascista, che il prossimo anno "metterà il naso" nella scelta dei giurati in quanto "i risultati di quest'anno risentono della formazione elitaria, relativista e snobistica del suo Presidente". Parole che non varrebbero nemmeno la pena di essere commentate... il problema, però, è che siamo in Italia e anche una 'fregnaccia' come questa rischia di essere presa terribilmente sul serio. Chi ha orecchie intenda, altrimenti il prossimo anno saremo qui, di questi tempi, a festeggiare la Coppa Volpi di Noemi Letizia e Luca Barbareschi!
L'ira del Camerlengo di Arcore era dovuta, ovviamente, al fatto che nessun film italiano in gara avesse ricevuto lo straccio di un premio. E qui (guardate cosa mi tocca dire!) devo ammettere a malincuore che sono d'accordo con Bondi... per carità, lasciamo stare proclami e minacce, la giuria ha emesso i suoi verdetti ed essi vanno accettati. Però nulla mi farà cambiare idea sul fatto che Noi Credevamo fosse il 'vero' Leone d'Oro di questa edizione: il film di Martone è uno straordinario, immenso, appassionante, epico affresco su una pagina storica fondamentale del nostro Paese. In quasi quattro ore il regista napoletano riscrive a suo modo il nostro Risorgimento, che forse non fu proprio così 'glorioso' come abbiamo studiato a scuola, e che forse
ancora oggi fa sentire le proprie conseguenze. Il perchè non abbia vinto è facilmente spiegabile: il film racconta vicende e fatti molto particolari della Storia Italiana, che risultano assai incomprensibili agli occhi di una Giuria Internazionale: è sempre lo stesso (annoso) problema del cinema italiano, che ha sempre grosse difficoltà a produrre opere di respiro 'universale' e non circoscritte alle nostre quattro mura...

Sarà per questo che la vittoria di Somewhere tutto sommato non è fuori da ogni logica: pur non essendo il film più bello della Mostra, quella di Sofia Coppola è una storia che indubbiamente 'funziona' in tutte le latitudini, ed è costruita in modo garbato e impeccabile. Niente da dire, insomma, sulla confezione. Sul fatto poi che la più talentuosa figlia d'arte di Hollywood faccia sempre lo stesso film... il dibattito è aperto! Ma il Leone d'oro non è assolutamente uno scandalo.
Certo il sottoscritto aveva altre preferenze: mi dispiace non vedere assegnato nessun premio al bellissimo Post Mortem di Pablo Larrain, mentre lo splendido e cerebrale Road to Nowhere del 'mitico' Monte Hellman ha senz'altro scontato la dichiarata stima e riconoscenza di Quentin Tarantino nei confronti del suo 'mentore'. Hellman comunque si è rifatto col premio "al complesso della sua opera" e può essere soddisfatto, mentre tutti ci auguriamo che il film possa arrivare presto nelle nostre sale perchè merita davvero.

Non stupiscono invece i riconoscimenti a Balada triste de trompeta di Alex De La Iglesia: ve lo avevo già detto in sede di recensione che questo era il film più 'tarantiniano' di tutti, oltre che di pregevole fattura, e non era difficile prevedere che avrebbe entusiasmato il buon Quentin.
Meritate anche le due Coppe Volpi per le migliori interpretazioni: sul Vincent Gallo attore (a differenza di quello regista) non c'erano dubbi e la sua performance in Essential Killing non poteva passare inosservata. Più controverso invece il premio femminile, andato alla greca Ariane Labed protagonista del discusso Attenberg: il film non è un granchè, e molti davano per sicura vincitrice la Yahima Torres di Venus Noire: opera dura, terribile e violenta di Abdel Kechiche. A conti fatti, però, la vittoria ci sta.

La cosa più importante però, alla fine, è constatare l'ottimo livello complessivo dei film in concorso. Raramente in passato avevamo assistito ad un livello qualitativo così alto come quest'anno: sono tante, infatti, anche le opere non premiate ma di assoluta qualità. Cito, solo per fare degli esempi, il cinese Il fossato di Wang Bing, il francese Potiche, il russo Silent Souls... per non dimenticare anche gli altri tre film italiani in competizione: il carinissimo La Passione di Mazzacurati, La Pecora Nera di Celestini (ottima opera prima) e il discusso ma a mio avviso dignitosissimo La Solitudine dei Numeri Primi di Saverio Costanzo: era il film più rischioso del concorso e il regista romano ha vinto la scommessa. Bravo.
E bravo di conseguenza anche a Marco Muller, "direttorissimo" della Mostra che una volta di più è riuscito, con pochi mezzi e molta, molta competenza, ad allestire una rassegna vitale, dinamica e interessante. Muller è a fine mandato e dice di essere stanco ma felice. Noi ci auguriamo che possa restare ancora a lungo al timone della sua 'creatura', che in questi otto anni ha decisamente compiuto un salto di qualità, posizionandosi sullo stesso livello di altri festival (Cannes e Toronto) molto più ricchi e potenti. Il lavoro di Muller è stato prezioso, e merita la prosecuzione.
Con buona pace di Bondi.

IL PALMARES DI VENEZIA 67:

http://www.labiennale.org/it/cinema/news/premi-venezia-67.html

mercoledì 15 settembre 2010

Venezia 67 / ROAD TO NOWHERE (USA, 2010) di Monte Hellman

Le malelingue si sprecavano, e del resto anche il vecchio Hellman lo aveva candidamente dichiarato: se Quentin Tarantino avesse fatto vincere trionfare al Lido Road to Nowhere sarebbe accaduto il finimondo. Figuriamoci: il presidente di giuria che premia il suo ex-produttore e talent-scout! Ed è un peccato, perchè se escludiamo il capolavoro di Martone (film immenso ma, come temevamo, assolutamente incomprensibile a una giuria internazionale), la pellicola del vecchio Hellman aveva tutti i requisiti per portarsi a casa il Leone d'Oro: confezione impeccabile, sceneggiatura di ferro (forse anche troppo!), ottimi attori, buon ritmo.
Hellman gira un noir avvincente e cerebrale che prende spunto da un fatto di cronaca nera realmente accaduto: una troupe cinematografica sta girando un film sul misterioso 'caso' di due amanti che escogitano una truffa ai danni di un'assicurazione, uccidono un poliziotto e si dileguano, come dice il titolo, nel nulla... durante le riprese, lavorando sulla sceneggiatura, vengono fuori nuovi inquietanti interrogativi sull'accaduto, tanto che a un certo punto è davvero difficile per i protagonisti distinguere la realtà dalla finzione. E naturalmente anche per lo spettatore. Aggiungete poi che il regista si innamorerà perdutamente della bella protagonista (una magnifica Shannyn Sossamon, perfetta nel ruolo di 'femme fatale') che assomiglia in maniera inquietante alla vera truffatrice... e il cerchio si chiude.

Road to Nowhere è un'opera difficile da digerire ('da rivedere almeno due volte', dice il regista stesso), ma innegabilmente affascinante nonostante il canovaccio non proprio originalissimo: il meta-film, infatti, cioè l'escamotage del 'cinema nel cinema' non l'ha certo inventato Hellman... ma vedere passare sullo schermo quelle immagini seducenti e maliziose (vogliamo dirlo? prettamente 'lynciane') e constatare lo scorrere, impeccabile e inesorabile, di una trama complicatissima, genera sensazioni assolutamente positive, da incorniciare.

Forse non proprio per tutti, o forse proprio per questo, decisamente da non perdere.

VOTO: * * * *

Venezia 67 / BARNEY'S VERSION (USA, 2010) di Richard J. Lewis


Tanto tuonò che piovve! Qui al Lido da una settimana non si parlava d’altro: tutti in fila per aspettare Barney’s version, additato dai soliti ‘bene informati’ come il film-evento della Mostra, quello che doveva dare lo ‘scossone’ al Concorso, e che avrebbe dovuto scombinare le carte per il Leone d’Oro (non a caso era stato programmato nell’ultimo giorno). Di conseguenza biglietti esauriti da giorni, file chilometriche degli accreditati per ottenere il ‘visto’ di entrata in Sala Grande, attesa oltre ogni misura. Risultato… una delusione tremenda!
Premetto, a scanso di equivoci, che non ho letto il famoso romanzo omonimo di Mordecai Richler da cui è tratto il film (che mi dicono essere un libro di culto, anche se in sala quelli che l’avevano letto si contavano sulle dita una mano…). E spero proprio che la versione letteraria sia effettivamente graffiante, brillante, ‘cattiva’, irriverente e non-convenzionale: lo dico perché se il registro del libro è uguale a quello del film si tratterebbe di un bluff clamoroso! Altro che cult-book!
Barney’s version è una semplice e convenzionalissima commedia romantica americana, ben fatta ma tremendamente scontata e prevedibile: è la storia di un ebreo benestante e donnaiolo, dalla vita sentimentale tumultuosa,a cui il destino riserva una vita fatta di innumerevoli alti e bassi a livello umano e professionale... Niente da dire sull'interpretazione degli attori: Paul Giamatti è perfettamente credibile e 'in parte', Dustin Hoffman è esilarante nel ruolo dell'anziano padre di Barney, così come Rosamund Pike in quello dell'amante-futura moglie.
Il problema però, come detto, è che tutto si risolve in una commediola all'acqua di rose, dalla regia piatta e dal registro che non sfora mai i limiti del 'politically correct'.
Sinceramente ci aspettavamo molto, molto di più.

VOTO : * *

venerdì 10 settembre 2010

Venezia 67 \ LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI (Italia, 2010) di Saverio Costanzo


I numeri primi sono quelli divisibili solo per se stessi e per l’unità. Sono unici. Non hanno simili, sono diversi e, soprattutto, sono pochi. Pochi in confronto agli altri, all’universo della ‘normalità’.
Alice e Mattia sono due ‘numeri primi’, due persone complesse ma ‘speciali’. Hanno subito traumi infantili che hanno segnato la loro esistenza e ora portano dentro di sé tutto l’orrore e il peso dei ricordi. Hanno problemi a relazionarsi col mondo esterno, con le persone ‘normali’, e vivono una realtà fatta di complessi e paure, che frena le le loro ambizioni e le loro qualità: Alice potrebbe essere un’ottima fotografa se non avesse così timore di chi le sta intorno, Mattia è un genio dei numeri e valente matematico, ma non riesce nemmeno ad uscire di casa. I due si incontrano a una festa di scuola, alla quale sono quasi ‘costretti’ a partecipare. Si conoscono, si trovano, e da quel momento cercheranno sempre di aiutarsi: perché due numeri primi sono difficili da trovare, di solito non si incontrano mai…
Il film di Saverio Costanzo è un gioco degli equivoci: NON è ‘l’ennesimo film sul disagio giovanile’, come molti hanno sentenziato (Alice e Mattia sono e saranno UNICI per tutta la vita, non perderanno mai le loro caratteristiche). NON è assolutamente una storia d’amore (i due si cercano perché sono SOLI, non perché sono innamorati). E soprattutto NON è un film scontato e facilmente inquadrabile come molta critica cinica e prevenuta ha fatto. La solitudine dei numeri primi è un film che parla di sofferenza, di infelicità, di sentimenti repressi, di orrore trattenuto e mai elaborato. E’ la storia di due persone belle ma speciali, coraggiose, che cercano di sopravvivere in un mondo che le ignora e le ghettizza semplicemente in quanto ‘non omologate’, senza che abbiano la possibilità di rendersi conto di quanto questa possa essere una fortuna…
Tratto da un romanzo best-seller di Paolo Giordano, la pellicola di Costanzo ha oggettivamente un grosso difetto: è troppo ‘commerciale’ e troppo manieristica per ciò che racconta. Una storia così complessa e delicata avrebbe forse meritato un tono più intimista e più dimesso, sussurrato, più in linea con i personaggi. Il regista invece ne ha ricavato un thriller psicologico, sincopato, con personaggi sopra le righe, sequenze quasi horror e musiche tanto accattivanti quanto ‘ruffiane’. Ma il risultato, è giusto dirlo, non è comunque da disprezzare: alla fine la storia e i personaggi rimangono, restano loro stessi. E ci fanno capire che i ‘numeri primi’ esistono davvero, e meritano amore e rispetto.

VOTO: * * *

Venezia 67 \ 13 ASSASSINS (Giappone, 2010) di Takashi Miike

Certe volte ai critici cinematografici bisognerebbe proprio dare delle bastonate in testa! Non si capisce, infatti, come gli stessi critici che poche ore prima avevano sonoramente stroncato (con tanto di fischi e ululati) la proiezione di un film impefetto ma dignitoso come La solitudine dei numeri primi, si siano poi spellati le mani dagli applausi per questo fumettone iper-violento e stupidotto firmato da Takashi Miike.
Intendiamoci: il regista giapponese ha frotte di estimatori in tutto il mondo e merita rispetto, ma oggettivamente ci chiediamo che cosa possa portare in un concorso come quello veneziano un film come questo, se non il gusto della provocazione… ma bisognerebbe chiederlo a Muller.
Noi limitiamoci a parlare di 13 Assassins, anche se in verità c’è molto poco da dire. Il cinema di Takashi Miike ormai lo conoscono anche i sassi: storie di cappa e spada in costume, piene di samurai nobili e cattivissimi tiranni, con i primi che cercano di abbattere i secondi e far trionfare la pace: in questo caso c’è un signorotto deposto che assolda 13 valenti samurai per sterminare l’esercito del despota di turno e fermare la sua scalata al potere. La scena iniziale, appena dopo i titoli di testa, mostra senza problemi un guerriero che fa harakiri. Nella scena successiva vediamo il tiranno cattivo che con la spada stacca la testa di netto ad un servo. Passano altri cinque minuti e lo stesso cattivone si accanisce con archi e frecce sui corpi di una famiglia intera condannata a morte per chissà cosa… si va avanti così per due ore al ritmo di un morto ogni trenta secondi circa. Nelle scene di battaglia (interminabili) sembra di avere tra le mani un joystick e divertirsi a giocare a un videogame per vedere chi abbatte più nemici.
Si ha un bel dire che la violenza mostrata in modo così ingenuo e surreale non fa del male a nessuno, e che solo uno stupido (o in malafede) possa ritenerla dannosa e pericolosa, ma anche in questo caso ci si continua a chiedere quale sia il senso di certe produzioni.
Col massimo rispetto, solo ed esclusivamente per appassionati.

VOTO: *

mercoledì 8 settembre 2010

Venezia 67 \ NOI CREDEVAMO (Italia, 2010) di Mario Martone


“Noi credevamo che il sangue versato dai nostri patrioti avrebbe fatto nascere il paese che sognavamo”. “Noi credevamo che questo paese sarebbe potuto diventare una Nazione vera”. Sono due frasi pronunciate a 150 anni l’una dall’altra, ma che potrebbero tranquillamente interscambiarsi tra le due epoche. In queste due frasi si racchiude il film di Mario Martone, un affresco imponente, tragico, beffardo e meravigliosamente calzante sul Risorgimento e sul nostro assurdo presente, cosa che fa incazzare molti ‘benpensanti’ di oggi. Un ritratto amarissimo e “rivoluzionario” dell’Italia e del suo non-popolo, visto dagli occhi di chi cercò, rischiando la pelle, di costruirlo e plasmarlo.
Questo, e molto, molto di più è lo straordinario film di Martone: un’opera la cui importanza va ben oltre il semplice aspetto cinematografico, e che ci costringe a ragionare e riflettere sulla fragile democrazia che stiamo vivendo. E tutto questo, provocatoriamente, proprio nell’anniversario di quell’Unità d’Italia che, guarda caso, è un tema che dà ancora fastidio a molti e rinfocola polemiche che credevamo appartenere al secolo scorso…
Noi credevamo racconta la nascita di una Nazione vista dagli occhi di tre giovani rivoluzionari, idealisti e coraggiosi, che si iscrivono alla ‘Giovine Italia’ mazziniana convinti di poter cambiare le cose e costruire un paese migliore. Faranno tutti una brutta fine, rendendosi conto, amaramente, che al di sopra delle loro teste ci sono spietate logiche di potere che da sempre contraddistinguono la gente italica, generate da enormi disparità sociali, insanabili differenze di lingua, cultura, razza e soprattutto portafoglio. L’Italia di oggi, come quella di ieri, è fatta da gente che pensa solo al proprio tornaconto personale, infischiandosene cinicamente di tutto il resto. Martone è spietato nel mostrare come i trasformismi politici (vedi la figura di Crispi, ma anche dello stesso Mazzini), l’avidità e l’ignoranza dei potenti, gli enormi condizionamenti dei ‘poteri forti esterni’ (Vaticano in primis), abbiano creato sconforto e disillusione nella gente ‘normale’ che, oggi come allora, è diffidente, pavida e rancorosa verso la propria classe dirigente. Noi credevamo, in quasi quattro ore di grande cinema, mette a nudo tutte le grandi contraddizioni di un piccolo Paese, regalandoci un manifesto impietoso e avvincente, commovente e doloroso, provocatorio e necessario. Era dai tempi de Il mestiere delle armi di Olmi che non si vedeva al cinema un film ‘così’ incredibilmente epocale , di una potenza e un’importanza di cui appaiono ben consapevoli per primi gli attori protagonisti (tutti meravigliosamente ‘ispirati’ e in parte), convinti di partecipare ad un qualcosa che ‘resterà’ e (forse) smuoverà le coscienze.
Noi CI crediamo.
VOTO: * * * * *

Venezia 67 \ BALADA TRISTE DE TROMPETA (Spagna, 2010) di Alex De La Iglesia


Eccolo qui il vero candidato al Leone d’Oro. Vedrete che se non vincerà ci andrà molto vicino. Lo diciamo perché il Tarantino presidente di Giuria non potrà non amare questo film (e infatti vi garantisco – ero in sala a pochi metri da lui – che alla comparsa dei titoli di coda il prode Quentin era in brodo di giuggiole…). L’ultima opera di Alex De La Iglesia è infatti un ‘concentrato’ di tutto quello che è la ‘summa’ del cinema tarantini ano: azione, violenza, sesso, orrore, morte, humor nero…
Balada triste de trompeta è una pellicola a tinte fortissime, volutamente macabra, sempre costantemente sopra le righe e sempre eccessiva, un autentico ‘delirio’ visivo di indiscutibile potenza e temerarietà. E ha avuto coraggio anche Marco Muller a portare in Concorso un titolo così particolare, a metà strada tra il fumetto e l’horror, sicuramente non per tutti (si allontanino coloro che sono ‘di bocca buona’ e amanti del cinema iper-autoriale… insomma, astenersi perditempo!).
Un avvertimento, però, anche ai fan di Tarantino: non aspettatevi di vedere un videogame pieno di morti e sangue a ritmo di musica come un ‘Kill Bill’ o un ‘Machete’ qualsiasi: qui la violenza, seppure in quantità industriale, non è gratuita e non è fine a se stessa. E, soprattutto, il film è inserito in un contesto storico particolare, che ha un’importanza e una morale fondamentale per la sua comprensione.
La storia è quella di due artisti circensi che, nella Spagna franchista (attenzione a questo ‘piccolo’ dettaglio…), si contendono l’amore di una bella trapezista. I due sono totalmente diversi per carattere e idee: Sergio, capo-clown, è sanguigno, tirannico, ubriacone e donnaiolo. Javier, pagliaccio triste, è timido e compassato, ma dentro di sè ha un insaziabile desiderio di vendetta verso il regime e i despoti in generale, e questo in seguito alla morte violenta del padre, ucciso dalle truppe governative. I due si trovano ben presto in conflitto tra di loro, reclamando entrambi il cuore della donna: una gelosia che li farà impazzire, massacrandosi a vicenda in modo così cruento da far rivoltare lo stomaco anche degli spettatori più smaliziati, e riducendosi a due penosi ‘freaks’ che faranno inorridire anche la persona amata.
La morale è evidente, ma non banale: le dittature e i regimi totalitari possono trasformare e far impazzire chiunque, anche la gente ‘normale’, forse la più incapace di comprendere i motivi di tanta rabbia, odio e orrore, e quindi più vulnerabile di altri…
E’ curioso notare che a questa Mostra del Cinema è presente anche un’altra pellicola (da noi recensita) che ha moltissime similitudini con questa, pur essendo stilisticamente ben diversa: si tratta di Post Mortem di Pablo Larrain: anch’essa infatti ‘parla’ spagnolo, ha una rivoluzione sullo sfondo (quella cilena, e anche l’anno è lo stesso: il 1973!) , e tratta di una persona apparentemente ‘normale’ che gli eventi trasformano tragicamente. Due modi diversi di fare cinema, ma che conducono allo stesso fine.
Anche questo è il bello dei Festival.

VOTO: * * * *

martedì 7 settembre 2010

Venezia 67 \ VALLANZASCA, GLI ANGELI DEL MALE (Italia, 2010) di Michele Placido

Se fossi in Michele Placido, non darei assolutamente peso alle polemiche che hanno accompagnato la creazione e la distribuzione del suo Vallanzasca-Gli angeli del male, che approda (finalmente) fuori concorso alla Mostra del Cinema. Intanto, perchè è tutta pubblicità gratuita (e credo che Placido, cineasta ormai navigato, sotto sotto se la rida sotto i baffi). E poi perché non ha davvero nulla da rimproverare alla sua coscienza, in quanto sarebbe assurdo crocifiggere un regista per aver girato una fiction su un bandito. Come se film di gangster non ne fossero mai stati girati. Come se non si sapesse che, da quando esiste il cinema, i personaggi ‘belli e dannati’ hanno sempre affascinato le platee, senza per questo essere emulati o glorificati dal pubblico. E come se gli americani, tanto per fare u e finirla qui, accusassero Michael Mann per aver diretto Nemico Pubblico, il film che racconta le ‘gesta’ di John Dillinger… via, siamo seri!
L’unica preoccupazione, per noi cinefili, era semmai cosa aspettarsi da questo film, in quanto il Placido regista è un personaggio più double-face del dottor Jekyll, capacissimo di alternare pellicole belle e di spessore (Del Perduto Amore, Un Eroe Borghese, Romanzo Criminale) a indicibili pasticci (vedi il tremendo Ovunque Sei o l’irrisolto Il Grande Sogno). Nessun problema, invece. Vi dico subito che Vallanzasca è un buon film. Una pellicola di genere che ricorda i film ‘poliziotteschi’ italiani degli anni ’70, pieni di ritmo, sparatorie, azione e sgommate. E prima che possiate obiettare qualcosa… sappiate che in questo caso tutto ciò non è un difetto: non siamo di fronte, infatti, né a un trattato sugli anni di piombo, né a un’apologia del gangster come temevano i familiari delle vittime, ma ad un onestissimo prodotto medio che ricostruisce molto bene sia la figura del bandito che il clima dell’epoca senza perdersi in meandri storico-sociologici. Non aspettatevi, insomma, un altro Romanzo Criminale: questa è, semplicemente, la storia di un uomo che ha scelto (pur non avendone la necessità, come da lui stesso dichiarato) di stare dalla parte sbagliata.
Inutile dire che buona parte della riuscita del film va attribuita a Kim Rossi Stuart, che è grandioso nella sua intepretazione del ‘bandito più bello d’Italia’ (come Vallanzasca veniva definito all’epoca): lo ricalca perfettamente, in maniera impressionante per portamento, sguardo, fisionomia e parlata… peccato che il film sia fuori concorso, altrimenti la Coppa Volpi avrebbe già un padrone.

VOTO: * * *

Venezia 67 \ LA PASSIONE (Italia, 2010) di Carlo Mazzacurati

Carlo Mazzacurati è uno di quei registi italiani che appartengono alla categoria degli ‘impalpabili’, nel senso che, nonostante una più che onesta carriera cinematografica, non vengono mai notati né incensati come dovrebbero. Forse perché i suoi film sono sempre così ‘piccoli’, ‘esili’, ‘carini’, un po’ ‘timidi’ (come lui stesso, del resto) che non arrivano mai al grande pubblico. Ma questo non è necessariamente un difetto…anzi! Noi che conosciamo il buon Carlo fin dal suo bell’esordio (Il Toro, era il 1994) siamo contenti così, e ben vengano altre pellicole come La Passione, che ci riconciliano con la commedia all’italiana e non smettono di farci sorridere una volta usciti dalla sala. E scusate se è poco.
La Passione è un filmino agile e godibilissimo, intepretato da attori tutti bravi e in stato di grazia (non solo il ‘solito’ Silvio Orlando, ma anche il simpaticissimo Giuseppe Battiston, esilarante nel ruolo di un Cristo ‘appesantito’ e un po’ blasfemo) che riesce ad ottenere due risultati niente affatto scontati: costruire una storia e una sceneggiatura capaci di far ridere senza volgarità e doppi sensi, e di scadere nella banalità. Avercene di commedie così!
VOTO: * * *

Venezia 67 / ESSENTIAL KILLING (Polonia, 2010) di Jerzy Skolimowski


Homo homini lupus. Essential Killing è, fondamentalmente, un film sulla sopravvivenza, sulla natura animalesca e primordiale dell’essere umano, capace di spingersi oltre i propri limiti più estremi pur di restare attaccato alla vita. E’ un film sul ritorno alle origini, volto a dimostrarci come anche l’”essere più progredito dell’universo” può, se costretto, tornare ad essere belva feroce, sadica e spietata. Forse l’autore (un redivivo Jerzy Skolimowski) vuole svelarci una propria personalissima spiegazione all’apparente insensatezza della guerra, vista come un virus latente della bestialità umana.
Forse. Certo è che Essential Killing non è un film che lascia indifferenti: negli 83 minuti di pellicola si assiste ad una snervante caccia all’uomo che, metaforicamente, diventa una riflessione sulla malvagità e la paura del ‘diverso’, e sul valore decisamente relativo della vita, così preziosa eppure così vacua e insignificante al cospetto dell’immensità della natura.
La storia è quella di Mohamed (Vincent Gallo), talebano catturato dagli americani, deportato in Nord Europa come prigioniero, che riesce a sfuggire ai propri carcerieri grazie ad un colpo di fortuna: la macchina che lo trasporta in prigione ha un incidente e lui si ritrova solo, ferito, stanco e affamato in mezzo alla foresta gelida e coperta di neve, un ambiente decisamente diverso rispetto a quello cui era abituato. Da qui comincia la sua fuga, disperata e senza speranza, che lo porterà necessariamente a “rimuovere” (capirete come) tutti gli ostacoli che gli si presentano lungo il cammino, nella speranza di una salvezza impossibile.
Forse non piacerà a chi si aspettava un film ‘politico’, una presa di posizione sul conflitto afgano. Il regista si mantiene piltatescamente equidistante, concentrando la vicenda esclusivamente sulla fuga. Ne viene fuori un film d’azione avvincente e disperato, forse un po’ improbabile in alcune scene-madri, ma decisamente insolito. Vincent Gallo offre un’interpretazione ‘fisica’ e coraggiosa, prestando il proprio corpo alla sofferenza estrema quasi come un Messia ‘eretico’ e allucinato. Non tutto funziona, ma è decisamente da vedere.

VOTO: * * *

Venezia 67 / Meek's Cutoff (USA, 2010) di Kelly Reichardt

L’attesa c’era, inutile negarlo. E il menù era sfizioso: un western diretto da una donna non capita tutti i giorni, e per giunta nel concorso principale! Oltretutto se la regista è Kelly Reichart, cineasta super-indipendente che si è fatta le ossa nella produzione ‘indie’ con ottimi risultati.
Attesa però, diciamolo subito, immediatamente delusa. Delusione cocente.
Tanta era, infatti, la curiosità di vedere come una donna avrebbe affrontato il genere cinematografico americano per eccellenza, per giunta il più ‘macho’ di tutti (anche se non maschilista): ci si aspettava un tocco di originalità, un approccio diverso al genere, diciamo un altro ‘punto di vista’.
Invece niente di tutto questo. Meek’s Cutoff è l’ennesimo e stanco tentativo di ‘demistificare’ il western, sulla falsariga di tutti i titoli ‘revisionisti’ che si sono succeduti a Unforgiven di Eastwood (1992), pietra miliare del filone. Ma il film della Reichardt più che altro annoia, trattandosi di una pellicola praticamente senza trama, senza slanci, senza spessore e incredibilmente soporifera. Viene il sospetto che la regista si sia talmente premurata di voler togliere il ‘respiro epico’ dalla sua opera, da ottenere esattamente l’effetto opposto: una noiosissima e scialba istantanea di viaggio che non emoziona mai, non coinvolge e non si sa bene dove vada a parare, ammesso che davvero voglia andare a parere da qualche parte…
Non bastano i paesaggi mozzafiato, la fotografia scintillante, i costumi ricercati a fare un western. Perché il western non è una moda, né tantomeno un filone: è IL genere americano per eccellenza, e ha precisi canovacci da seguire, che non consistono nel mettere in scena un prodotto esteriormente appetitoso ma dai contenuti pressoché inesistenti. Peccato.

VOTO: * *

Venezia 67 / POST MORTEM (Cile, 2010) di Pablo Larrain


Mario Cornejo è un umile impiegato alle dipendenze del dottor Castillo, medico luminare specializzato in analisi autoptiche: in pratica, il compito di Mario è quello di redigere i verbali delle autopsie praticate dal proprio insigne superiore. Un lavoro insignificante e sgradevole, imbarazzante da descrivere, specialmente quando il protagonista s’innamora di Nancy, ballerina non eccelsa e ormai da tempo senza più i riflettori addosso, prigioniera della solitudine.
Siamo nel Cile del 1973 e una sera, all’improvviso, i cadaveri da esaminare aumentano a dismisura, il piccolo obitorio dell’ospedale viene invaso da centinaia di corpi di morti ammazzati, addirittura si vocifera che sotto uno di quei lenzuoli possa esserci nientemeno che la salma di Salvador Allende. E’ il caos, il Cile si consegna nelle mani di Pinochet, e con la morte della democrazia si disintegra anche l’effimera storia d’amore di Mario…
Post Mortem è un film duro, violento, sgradevole, eppure incredibilmente poetico: è l’ideale prosecuzione del precedente Tony Manero, con lo stesso regista e lo stesso protagonista maschile (uno straordinario Alfredo Castro). E’ il compimento di un percorso volto a buttare giù una volta per tutte ogni muro sul colpo di stato più cruento che la storia sudamericana ricordi. Una rabbiosa, disperata, sconcertante escalation di violenza e orrore che lascia sgomenti tanto gli spettatori quanto i personaggi della pellicola, a loro volta travolti dalla follia di una sanguinosa guerra civile. E la scena dell’autopsia di Allende è quanto di più terrificante e emotivamente disturbante possa offrire il film: eppure è un modo assolutamente originale, intimo e pertinente per mostrarci la Storia.
Commovente e agghiacciante insieme è il modo in cui Mario e i suoi colleghi cerchino di rendere ‘normale’ e professionalmente impeccabile la situazione di quelle drammatiche ore, anche a costo di rimetterci la vita. Ma quando, ormai, tutto ciò che sta ‘fuori’ è privo di senso, anche la dignità e la carità cristiana vengono meno: la dittatura rende tutti crudeli e tutti colpevoli, questo è il messaggio amaro che il regista intende comunicare. E lo fa con un’opera di indicibile durezza, ma che a conti fatti ti fa ammettere che ‘questa storia’ non potesse essere raccontata nient’altro che così.
Post Mortem è un film coraggioso, appassionante, disperato e terribilmente bello. Il primo autorevole candidato al Leone d’Oro.
VOTO: * * * *

domenica 5 settembre 2010

Venezia 67 / SOMEWHERE (USA, 2010) di Sofia Coppola


Si sentivano già, all'uscita dalla sala, i commenti dei delusi. “Sofia Coppola fa sempre lo stesso film”, era la frase più ricorrente. E allora? Lo dicono anche di Clint Eastwood e Ken Loach, e loro giustamente se ne fregano. Da anni.
Non c'è niente di male a ripetersi, purchè lo si faccia in maniera intelligente e avendo rispetto per lo spettatore. Ognuno di noi ha le proprie regole di vita, i propri convincimenti, i propri dubbi e le proprie piccole fisime, spesso ancestrali e ricorrenti, che magari cerchiamo di esorcizzare raccontandole ogni volta a chi ci sta vicino, come per scacciarle il più lontano possibile.

Somewhere è ancora un film sulla solitudine, argomento caro alla regista e ormai innegabilmente autobiografico. E nel personaggio della dolcissima Elle Fanning (che brava! altro che l'insopportabile sorellina Dakota!!!) è fin troppo facile riconoscere la piccola Sofia, sballottata da un set all'altro, durante l'infanzia, da un padre forse troppo famoso e troppo occupato per essere anche “presente”.
La Fanning interpreta Clèo, figlia undicenne della star hollywodiana Johnny Marco (un convincente Stephen Dorff), che un giorno entra di forza nella vita del padre bolso e vitellone, in quanto la madre (separata) ha deciso di prendersi “del tempo per pensare”... il problema è che Johnny Marco non ha una vita propria, è una vittima consapevole e cosciente dello star system: vive in un albergo di lusso, gira in Ferrari, trascorre le sue giornate tra sesso, droga e videogames. Ma ormai nemmeno queste fanno più effetto: una notte lo vediamo togliere le mutandine alla starlette di turno, capitata nel suo letto, e addormentarsi miseramente. La sua esistenza, depurata dalla mondanità, si riduce al vuoto pneumatico e alla grettezza di una vita senza affetti e senza interessi.

A sorpresa, però, l'arrivo della figlia non “destabilizza” Johnny, anzi: gli offre una nuova ragione di vita, lo responsabilizza, lo aiuta a riallacciare i fili con quel mondo che credeva di avere lasciato per sempre fuori dalla sua suite. E scoprirà, amaramente, che non è facile diventare “adulto”.
Somewhere è una pellicola delicata, minimalista ed eterea. La regista, come sempre, lavora per sottrazione e cerca di entrare nei nostri cuori in punta di piedi, riuscendoci. E' l'ormai sperimentato “tocco di Sofia”, che tanto piace ai propri fan così come fa imbufalire i propri detrattori, che la accusano di essere “superficiale” e inconcludente. Ma basta vedere la scena, ormai famosa, della “consegna dei Telegatti” per capire la genialità di questa talentuosa figlia d'arte che, con grazia e disincanto, riesce a mostrare l'orrore della nostra tv senza scadere nella volgarità più bieca. Una sequenza straordinaria e terrificante, che serve più di mille film come “Videocracy” a farci vergognare.

Ma, aldilà delle apparenze e della “carineria” della confezione, va detto che Somewhere è un film triste e dolente. Non possiede la meraviglia e la leggiadria di Marie Antoinette, né la poesia di Lost in Translation: è un affresco disperato e disumano di una società che va disgregandosi nelle mani del dio denaro, entità diabolica che fagocita e tritura ogni sentimento e passione. Senza rendersi conto, in fondo, che la salvezza è a un passo. Lì, “da qualche parte...”
VOTO: * * * *

Venezia 67 / MIRAL (GB/Israele 2010) di Julian Schnabel


Ci sono certi film che, malgrado i loro nobili contenuti, sono semplicemente insopportabili. O forse lo sono proprio per questo. Lo sono perchè risultano falsi lontano un miglio davanti alla visione, come fossero artefatti, preconfezionati, senza cuore, costruiti ad arte per emozionare lo spettatore ricattandolo moralmente. Ecco, Miral è uno di questi.
Il suo creatore, Julian Schnabel, è un pittore americano di fama planetaria, ebreo, ricchissimo, che ogni tanto si diletta a dirigere film, credo più per sconfiggere la noia che per effettiva vena creativa. Qualcuno però, ogni tanto, dovrebbe avere il coraggio di dirgli che il cinema è una cosa seria, e che non ci si improvvisa registi dalla sera alla mattina, come del resto non si diventa pittori imbrattando una tela bianca con due colpi di pennello...
Miral è un film con un argomento serio, drammatico, ma realizzato in maniera imbarazzante. Vorrebbe essere un pamphlet storico sulla condizione dei profughi palestinesi in Israele, una specie di 'storia ufficiale' vista dalla parte degli oppressi raccontata attraverso gli occhi di una donna coraggiosa. E' tratto dal romanzo omonimo (e autobiografico) della famosa giornalista televisiva Rula Jebreal, compagna di vita del regista, che ha fortemente voluto questo film: gli intenti, come dicevamo, sarebbero anche apprezzabili, ma la messinscena è a dir poco sconfortante!
Un'accozzaglia clamorosa di luoghi comuni, personaggi stereotipati e tagliati con l'accetta, dialoghi inascoltabili e verbosi, edulcorati, che rendono inguardabile una pellicola enfatica e sopra le righe, ipocrita e ricattatoria, piena di 'scene madri' che puntano solo a far piangere lo spettatore senza spiegare assolutamente nulla di quella che è, davvero, la questione palestinese.
Ci sono state altre pellicole in passato degne di ben altro rispetto e meritevoli quantomeno di essere viste, anche senza voler per forza prendere posizione sul tema: penso a Il giardino di limoni, Free Zone, o l'italianissimo Private di Saverio Costanzo. Pellicole importanti, sulle quali ci si può confrontare e discutere, oltre che apprezzarne la visione.
Per Miral, invece, restano soltanto il vuoto pneumatico e la tristezza di un'occasione perduta.
VOTO: *