lunedì 28 febbraio 2011

L'Oscar di Sua Maestà


Niente Facebook, siamo inglesi. L'83. edizione degli Oscar non ha riservato particolari sorprese, confermando più o meno tutti i pronostici della vigilia. E così Il discorso del Re, patinata ricostruzione storica sulle difficoltà oratorie di Sua Maestà Giorgio VI d'Inghilterra, si porta a casa le statuette più importanti: quelle per miglior film, regia, attore protagonista e sceneggiatura originale.

Un verdetto annunciato, dunque, ma che lascia un po' l'amaro in bocca a noi cinefili d'oltreoceano che speravamo in un palmares ben diverso e più rispettoso dei nostri 'gusti' occidentali.
Intendiamoci: non che Il discorso del Re sia un brutto film, tutt'altro. Ma è un film che deve il suo appeal esclusivamente alle perfomances degli attori protagonisti: per il resto è il classico 'film da Oscar', costruito apposta per vincere: gran confezione, leccatissimo, convenzionale, politicamente corretto e ruffiano al punto giusto. Tutti ingredienti che hanno facilmente fatto breccia nei giurati dell'Academy, da sempre orientati verso un conservatorismo di maniera e sempre restii a premiare le opere più innovative e disturbanti. Una giuria che ha così celebrato oltre i propri meriti la pellicola di Tom Hooper (lui stesso inopinatamente premiato anche per la regia, decisamente piatta e senza sussulti).

Dispiace però che a farne le spese sia stato The Social Netwok, spietato ritratto della società contemporanea firmato David Fincher, che prende come pretesto la 'genesi' di Facebook per condurci in un cinico e durissimo pamphlet sul disgregamento dei valori morali nell'epoca della comunicazione 2.0. Per noi The Social Network è il film più bello e significativo di questo inizio millennio, e probabilmente lo resterà per molti anni ancora: un film 'epocale' nel senso letterale del termine, capace di tenerci col fiato sospeso per tutta la sua durata, come un thriller, e capace di farci riflettere e rabbrividire sulla nostra condizione una volta terminato. Le tre stauette conquistate (miglior sceneggiatura adattata, montaggio e colonna sonora) sono solo un 'contentino' che non rende giustizia alla grandezza di questa pellicola.

Tutto come previsto anche sul fronte degli interpreti: Colin Firth si è aggiudicato a mani basse l'Oscar per il migliore protagonista, mentre Natalie Portman ha trionfato tra le attrici. Due vittorie largamente 'annunciate' ma, questa volta, ampiamente meritate. Bello soprattutto il trionfo della Portman, radiosa col suo pancione da mamma in attesa e quasi 'dispiaciuta' di aver battuto quattro colleghe di grande bravura: Annette Bening, Nicole Kidman, Michelle Williams e Jennifer Lawrence. Quest'anno la competizione femminile era di altissimo livello, e ognuna di queste attrici, senza retorica, avrebbe potuto essere premiata senza che nessuno storcesse il naso (a differenza dell'anno scorso quando, tra mille polemiche, venne premiata Sandra Bullock). Tra i non protagonisti trionfa invece The Fighter, ennesima storia di pugilato portata sul grande schermo da David O. Russell, che vede premiati sia Christian Bale (era l'ora!) che Melissa Leo.

Quanto al resto, fanno notizia i quattro riconoscimenti a Inception nelle categorie tecniche (fotografia, suono, effetti visivi e sonori), a parziale risarcimento dell' 'ostracismo' dell'Academy nei confronti dell'incompreso Christopher Nolan. Scontati anche i riconoscimenti a Toy Story 3 come miglior film d'animazione e migliore canzone, e le statuette a Alice in Wonderland per costumi e scenografia. Vittoria per la danese Suzanne Bier nella categoria dei film stranieri col suo In un mondo migliore. E per concludere una curiosità: la settima vittoria (!) in carriera per il truccatore Rick Baker, ormai un 'mito' per l'Academy Awards. Stavolta vincitore grazie al make-up di Wolfman.
Arrivederci al prossimo anno!

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venerdì 25 febbraio 2011

Ancora poche ore...


Mancano poco più di quarantott'ore all'apertura delle buste e la 'febbre da Oscar' sale. E' inutile fare gli snob o i menefreghisti: chiunque sia appassionato di cinema non potrà non buttare lo sguardo a quello che succederà domenica prossima dentro il Kodak Theatre di Los Angeles. Perchè volente o nolente il cinema non può fare a meno di Hollywood, e gli Oscar sono la festa in cui Hollywood celebra se stessa: una ricorrenza pacchiana, pachidermica, kitsch, obsoleta quanto volete ma da sempre indicativa sulle mode e sulle tendenze cinematografiche del momento. Perchè non dimentichiamoci che gli Oscar sono i premi dell'industria, e quello che viene fuori dalla notte delle stelle è sempre un ideale 'termometro' per saggiare la capacità creativa e commerciale degli Studios. E quest'anno a maggior ragione le competizione è indicativa sullo stato di salute delle major, perchè si sfidano oltre che due film in lotta tra di loro, due modi diametralmente opposti di fare cinema, che suscitano negli spettatori interessi e reazioni diversi.
Ma vediamo dunque, nel dettaglio, chi saranno i protagonisti dell'Oscar 2010. Cimentandomi, come sempre, nel giochino dei pronostici e delle candidature che mi diverte tantissimo (sì... ognuno si diverte come può).
Vediamole dunque:

MIGLIOR FILM
Come detto, due concezioni totalmente diverse e in antitesi di fare cinema. Sulla base delle candidature ricevute, è chiaro che Il discorso del re è il favorito numero uno. Sia per il numero di nominations ottenute (ben dodici) che per il tipo di pellicola. Il film di Tom Hooper è infatti, sulla carta, il classico prodotto fatto apposta per vincere la statuetta: è politicamente corretto, patinato, algido, in confezione extralusso e consente delle straordinarie 'prove d'attori': su tutte quella di Colin Firth, che quest'anno è ben deciso ad agguantare quel premio sfuggitogli di un soffio l'anno passato. Oltretutto è un film inglese, e si sa che oltremanica sono maestri nel produrre opere silisticamente perfette (ma spesso abbastanza povere di contenuti) che tanto piacciono agli 'stagionati' giurati dell'Academy. Si pensi a Shakespeare in Love, Ragione e Sentimento, Casa Howard, Espiazione...
Dispiace però che a doverne fare le spese sia una pellicola destinata a rimanese impressa nella testa delle persone ancora per molti anni a venire. Il vero Quarto Potere del secolo in corso, e di sicuro il più cruento e veritiero affresco della società contemporanea. Sto parlando, ovviamente, di The Social Network, per il quale il sottoscritto non si vergogna certo di fare un tifo spudorato: il film di David Fincher è il miglior film di questo inizio di millennio, e chissà per quanti anni lo sarà ancora. Un'opera 'epocale' (nel senso stretto del termine), che ci mostra l' (in)voluzione dell'essere umano e dei rapporti sociali e relazionali, attraverso quella che è considerata l'invenzione più influente (e remunerativa!) degli ultimi anni. E al quale questo blog ha dedicato largo spazio (vedi qui e qui). Certo, sarà difficile convincere i 'parrucconi' dell'Academy della portata di questo titolo, considerando che si tratta di membri perlopiù anziani e poco restii alle pellicole 'innovative' e d'inchiesta. Ma spesso agli Oscar si entra papa e si esce cardinale (vedi Avatar lo scorso anno), e allora la speranza è l'ultima a morire. Pochissime chanche invece per gli altri titoli in gara: l'aver aumentato a dieci il numero dei film candidati alla statuetta più ambita non si è rivelato (per ora) garanzia di qualità: l'unico vero, possibile outsider potrebbe essere il coeniano Il Grinta (bello e 'classico' come piace agli americani, oltretutto girato da una coppia di registi che da sempre rientra tra le 'preferenze' dei giurati). Per gli altri, davvero, solo briciole.
VINCERA':  IL DISCORSO DEL RE
IL MIO PREFERITO:  THE SOCIAL NETWORK 


MIGLIOR REGIA
Qui nessuno può togliere il premio a David Fincher. Altrimenti mi arrabbio! The Social Network è un film solido, magistrale, impeccabile, geniale. Ci sono virtuosismi di macchina e certe trovate stilistiche che non hanno paragoni col patinatissimo film di Tom Hooper (al solito, l'altro antagonista) che punta decisamente sulla parte attoriale che non sulla 'costruzione' delle scene. Qualsiasi altro risultato sarebbe un furto bello e buono. Con buona pace dei Fratelli Coen (già ampiamente premiati in  passato), David Aronofsky e David O. Russell. Vedremo.
VINCERA':  DAVID FINCHER
IL MIO PREFERITO:  DAVID FINCHER


MIGLIOR ATTORE
Il vincitore è già scritto: Colin Firth, dopo aver sfiorato la statuetta l'anno scorso con A single man di Tom Ford, è praticamente già sicuro del premio. Gli allibratori neanche accettano più scommesse su di lui. E tutto sommato questo premio ci va bene: sia perchè è un giusto riconoscimento alla carriera del bravo attore britannico, sia perchè effettivamente la sua performance ne Il discorso del re è 'maestosa' (scusate il gioco di parole). Oltretutto in un anno dove, stranamente, non c'è una gran concorrenza: poco più che 'ornamentali' le candidature di James Franco, del 'solito' Javier Bardem, del giovane Jesse Eisenberg e del sempre più gigione Jeff Bridges, vincitore 'uscente'.
VINCERA':  COLIN FIRTH
IL MIO PREFERITO:  COLIN FIRTH

MIGLIORE ATTRICE
Contrariamente a quanto accade di solito, quest'anno la competizione femminile è di altissimo livello, molto più dei colleghi maschi. Grossa incertezza: Natalie Portman, splendida interprete di un brutto film come Il cigno nero dovrebbe farcela, ma su di lei incombe la pesante 'ombra' di Annette Bening, bravissima e anche lei mai premiata malgrado le numerose nomination, e pure molto brava ne I ragazzi stanno bene. Sarà una bella lotta, e in ogni caso ne uscirà una degna vincitrice. Ma attenzione anche alle altre: Michelle Williams ha impressionato in Blue Valentine, mentre Nicole Kidman (Rabbit Hole) è ormai un'habituè del Kodak Theatre. Anche se alla fine la più brava di tutte è la giovanissima (e tosta) Jennifer Lawrence, grande protagonista di Un gelido inverno, film indipendente e durissimo, distante anni luce dalle logiche hollywoodiane. Non vincerà, ma state certi che ne risentiremo parlare.
VINCERA':  NATALIE PORTMAN
LA MIA PREFERITA:  NATALIE PORTMAN

MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA
Come sempre, grande incertezza. Christian Bale è uno dei miei attori preferiti: l'ho amato in The Prestige e ne Il cavaliere oscuro, e ora con The fighter potrebbe arrivare alla statuetta. Ma se Il discorso del re dovesse fare man bassa di premi (come temo), ecco che Geoffrey Rush gioverebbe sicuramente dell'effetto-domino. intendiamoci: sarebbe un degnissimo vincitore. Già premiato dall'Oscar con Shine, è perfetto anche nel ruolo del fidato logopedista di Re Giorgio, dove tiene benissimo testa al 'predestinato' Colin Firth (vedi sopra).
VINCERA':  GEOFFREY RUSH
IL MIO PREFERITO:  CHRISTIAN BALE

MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA
Già vista in Frozen River, Melissa Leo è apprezzata interprete di un film non memorabile come The fighter. Potrebbe spuntarla, anche se onestamente dubito che un film come Il Grinta, ottimo western (genere amatissimo dagli americani, e quindi dai giurati dell'Acedemy, anzianotti e 'nostalgici') resti a mani vuote. E allora ecco profilarsi la possibile vittoria della giovanissima Hailee Steinfeld (appena quattordicenne), energica e battagliera nella pellicola firmata dai Coen, e capace di non scomparire al cospetto di 'mostri sacri' come Jeff Bridges e Matt Damon. Sapete che vi dico? Io punto su di lei...
VINCERA':  HAILEE STEINFELD
LA MIA PREFERITA:  HAILEE STEINFELD

MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE
La sceneggiatura è la categoria dove, di solito, vengono premiate le idee più originali e 'coraggiose' dell'anno, e dove i giurati dell'Academy (spesso con la coda di paglia) si rifugiano per assegnare un contentino a quelle opere che 'dovrebbero' essere premiate ma che sono spesso 'politicamente scorrette' oppure troppo distanti dai canoni hollywoodiani per aspirare al traguardo del miglior film. Un premio, insomma, spesso assegnato all'insegna del 'vorrei ma non posso',  e che in passato ha avuto illustrissimi vincitori.
E infatti anche quest'anno tra le nominations per il miglior script troviamo la coppia Lisa Cholodenko-Stuart Blumberg, in gara con lo 'scorrettissimo' I ragazzi stanno bene e, soprattutto, Christopher Nolan con Inception. Inutile dire che la sua è la sceneggiatura più bella tra quelle in gara, senza alcun dubbio. Inception è un film che, in verità, non mi ha toccato il cuore, nel senso che è troppo freddo e 'cerebrale' per i miei gusti, ma il lavoro sulla sceneggiatura da parte del talentuoso regista londinese è superlativo. Nolan però non è troppo amato dall'Academy: forse per la sua (troppa?) consapevolezza di essere bravo, o forse perchè non si è mai piegato alle logiche di potere di Hollywood. Fattostà che dopo la clamorosa esclusione dalla cinquina dei migliori registi, i giurati potrebbero preferigli la convenzionalissima sceneggiatura de Il discorso del re, specie se si verificherà quell'effetto-cascata di cui parlavamo prima.
VINCERA':   IL DISCORSO DEL RE
IL MIO PREFERITO:  INCEPTION

MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE
Qui non c'è proprio gara. E se anche le cose dovessero andare male per The Social Network, è francamente impossibile che la sceneggiatura di Aaron Sorkin non venga premiata: il punto di forza del film di David Fincher è proprio lo script, fatto di dialoghi velocissimi, snervanti, cinici, incredibilmente efficaci. Un lavoro straordinario che sarà ricordato ai posteri come un vero manuale di sceneggiatura, e che non potrà temere confronti dai pur buoni adattamenti de Il Grinta, Toy Story 3, 127 ore e Un gelido inverno.
IL MIO PREFERITO:  THE SOCIAL NETWORK
VINCERA':  THE SOCIAL NETWORK

LE ALTRE CATEGORIE
Poco da dire sulle altre candidature: l'incertezza regna sovrana sul miglior film straniero, sempre foriero di sorprese: il favorito parrebbe essere Biutiful di Inarritu, con Javier Bardem, ma anche Suzanne Bier col suo Un mondo migliore  ha buone chances, e si dice un gran bene anche de La donna che canta, visto a Venezia. Per il resto, facile prevedere la vittoria di Toy Story 3 tra i cartoni e quella del 'maestro' Roger Deakins per la fotografia de Il Grinta, mentre sinceramente non faccio previsioni per le categorie tecniche e per le musiche, sempre moltro particolari. Poche speranze infine per l'unica candidatura italiana: i costumi di Antonella Cannarozzi per Io sono l'amore hanno poche possibilità di stravolgere il pronostico che vede favorita la 'leggendaria' Colleen Atwood (già vincitrice di due Oscar) con Alice in Wonderland.   

IL CIGNO NERO (USA, 2010) di Darren Aronofsky


Di una cosa bisogna dare atto a Darren Aronofsky: è un ottimo direttore di attori, capace di tirare fuori il meglio dagli interpreti dei propri film. Era già successo con Mickey Rourke in The Wrestler e adesso è il momento di Natalie Portman, che con questo ruolo vola dritta a vele spiegate verso l'Oscar e, malgrado tutto con merito (vedremo poi perchè). Con una differenza però: se per Rourke quello di Randy 'The Ram' Robinson era il ruolo della vita, in un film dichiaratamente autobiografico e quindi estremamente 'sentito',  la giovane attrice israelo-americana ha offerto in passato prove ben più significative rispetto a Il cigno nero (basti pensare a V per Vendetta, Closer o il sottovalutato My Bluberry Nights).

Questo per dire che i meriti del regista si fermano qui.
Perchè a mio modestissimo parere Il cigno nero è un film assolutamente mediocre, di una banalità sconcertante: la storia è quella di Nina, giovane ballerina classica che ha come unico scopo nella vita quello di diventare la stella della compagnia, sperando di essere scelta per interpretare la parte principale ne 'Il lago di cigni' di Tchaikovskij. Per avere la parte è disposta a tutto, anche a sacrificare la propria vita, che comunque non è delle migliori: a causa di una madre paranoica e iper-protettiva, la sua esistenza si divide tra il palcoscenico e la propria cameretta, trascurando tutto il resto: non ha un fidanzato, non ha amici, non ha altri interessi ed è sessualmente repressa, cosa che non gioca a suo favore avendo un insegnante palestrato e donnaiolo, tenacemente convinto che per interpretare il ruolo del 'cigno nero' dell'opera sia necessaria una forte componente erotica da parte della protagonista (mah...). Nina in un primo momento sembra essere prescelta ma quando in seguito un'altra giovane allieva, meno brava tecnicamente ma assai più scaltra sotto le lenzuola, sembra capitata lì apposta per soffiargli la parte, le cose immancabilmente precipitano...

Il cigno nero è la cronaca di un'ossessione: quella verso la perfezione assoluta, nel ballo come nella vita.  Tema alquanto abusato che genera una serie di luoghi comuni, tutti ampiamente stravisti: la competitività e l'arrivismo presenti nel mondo dello spettacolo, l'invidia verso il prossimo, la degenerazione dei valori (ottieni la parte solo se vai a letto col 'capo'... non l'abbiamo già sentita questa storia????). Ma fin qui non ci sarebbe tutto sommato niente di male, non è detto che un film banale debba per forza essere anche brutto. Il problema è che Aronofsky enfatizza a dismisura i toni drammatici del film precipitando nel trash più infimo: per mostrare le turbe psichiche della protagonista ricorre ad un registro orrorifico di pessimo gusto, con effettacci speciali tanto pacchiani quanto ridicoli, dimostrando di non avere nè il senso della misura nè la profondità d'animo per rappresentare il disagio della ragazza, e finendo per ottenere esattamente l'effetto opposto: suscitare l'indifferenza (se non l'ilarità) dello spettatore anzichè creare tensione e presa di coscienza del dramma.

Tutto questo però non mette in secondo piano la prova della bravissima Natalie Portman. Come dicevamo all'inizio, la sua prestazione è di tutto rispetto e merita di farle vincere la statuetta più preziosa: la Portman offre un'intepretazione 'estrema', sgradevole, quasi disturbante: la vediamo mangiarsi le unghie, strapparsi via la pelle, grattarsi fino a sanguinare, tormentare il suo corpicino da eterna adolescente risultando comunque sempre credibile in un film che, altrimenti, rischierebbe davvero di cadere nel ridicolo.
E' proprio il caso di dire che è lei che salva (in parte) il film. Ma mentre vedevo le immagini scorrere sullo schermo non ho potuto non farmi una domanda, tra me e me: e se questa pellicola l'avesse diretta un genio come Alfred Hitchcock cosa ne sarebbe stato?

VOTO: * *

lunedì 21 febbraio 2011

IL GRINTA (USA, 2010) di Ethan e Joel Coen


Attenzione al fuorviante titolo italiano. Siamo in Arkansas, 1870 circa. L'America è ancora un Paese per vecchi, e la quattordicenne Mattie Ross deve ricorrere a tutto il suo straordinario cipiglio per tenere testa a uomini rudi e ignoranti, senza legge nè scrupoli. E' sua la 'vera grinta' del titolo originale, e non certo quella di Roster Cogburn, cacciatore di taglie spietato e ubriacone che viene 'ingaggiato' dalla ragazzina affinchè catturi e consegni alla giustizia l'assassino del padre. Già da qui si capisce che questo western girato dai fratelli Coen è molto meno 'classico' di quello che vuole apparire: sono rarissimi infatti i casi di film western in cui il ruolo della donna è così importante e marcato, e non confinato a quelli 'soliti' di mogliettina obbidiente o, ancora peggio, prostituta.

Mattie Ross è una giovanissima donna spinta dal desiderio di giustizia, ma che nel selvaggio west troppo spesso fa rima con vendetta: la 'piccola' intende catturare e processare il fuorilegge Tom Chaney, obbligandolo a una condanna che non sia diversa dall'impiccagione. Ma ben presto capirà che non sarà facile far rispettare la legge in un mondo dove dominano l'arroganza, l'ignoranza, la prepotenza e il rumore delle pistole.

Ci si chiede il perchè i Coen abbiano deciso di realizzare un film western, un western 'vero', fatto di paesaggi arsi dal sole, luride uniformi, sparatorie e duelli. In realtà la risposta è semplice, per non dire ovvia: il western E' l'America, ne è l'essenza, la Storia e il cuore pulsante di questa nazione relativamente giovane e multietnica. E non c'è da stupirsi dunque se la famosa coppia di registi, che in ogni film ci ha mostrato un aspetto diverso di quella terra, decida di cimentarsi nel genere 'americano' per antonomasia, adattandolo e rielaborandolo però al loro modo di fare cinema.

Perchè non c'è dubbio che Il Grinta, a dispetto delle apparenze, è un film 'coeniano' a tutti gli effetti: lo dimostrano la beffarda e cinica ironia di fondo della pellicola, la caratterizzazione estrema e macchiettistica dei personaggi (in primis quella di Cogburn, un Lebowski ante-litteram, caricaturale e ridicolo, lontanissimo dall' 'originale' interpretato dal 'mitico' John Wayne), e soprattutto la 'solita' pessimistica, catartica visione di una società che non concede alcuno spazio alla ragione e alle regole di convivenza. Lo testimoniano lo strisciante razzismo della pellicola (si veda la scena dell'impaccagione dei tre banditi, dove all'indiano non è concessa la possibilità di parlare) e l'evidente confronto temporale con il nostro presente, fatto di intolleranza e progressiva perdita di valori e memoria storica: quando, quarant'anni dopo la vicenda, la 'zitella' Mattie Ross si rimetterà sulle tracce di Cogburn scoprirà che i superstiti di quella 'leggendaria' epopea sono ormai ridotti a fenomeni da baraccone che vanno in giro per il paese a raccontare, come in un circo equestre, le imprese dei tempi andati. E come, ancora, non riconoscere nella 'rude' alleanza tra Cogburn e il ranger LeBoeuf, la solidarietà e il rispetto (non necessariamente la stima) tra individui con carattere e ideali del tutto diversi, ma comunque pronti a venirsi incontro nel momento del bisogno, evidente critica all'individualismo esasperato del mondo di oggi.

In ogni caso, senza essere obbligati a cogliere certi aspetti, va detto che Il Grinta è uno splendido film di genere, magistralmente interpretato da (quasi) tutti gli attori (su Matt Damon, grasso, imbolsito e capelluto abbiamo molte riserve...), impreziosito da una confezione impeccabile e di classe. Certo, chi ama i Coen troverà che il loro stile è, paradossalmente, l'unico punto debole del film: chi va a vedere Il Grinta non troverà altro fuorchè ciò che si aspetta da una pellicola come questa. Ma è l'unico peccato veniale di un film grandioso, coinvolgente, sentito e splendidamente 'epico'. Avercene.
 
VOTO: * * * *

UN GELIDO INVERNO (USA, 2010) di Debra Granik

Un consiglio per veri cinefili: tra le molteplici uscite di queste settimane non lasciatevi sfuggire Un gelido inverno, opera seconda della regista Debra Granik e vincitrice di numerosi riconoscimenti, non ultima l'accoppiata miglior film - migliore attrice all'ultimo Torino Film Festival dove ha letteralmente incantato critica e pubblico. Una pellicola fieramente indipendente, lontana anni luce dal cinema degli Studios e capace di risvegliare l'anima selvaggia, libera e avventurosa di un continente arcigno e un tempo leggendario.


Un gelido inverno è un western dei giorni nostri, che ha come splendida protagonista una ragazzina neppure ventenne di cui è fin troppo facile prevedere un grande futuro: Jennifer Lawrence è strepitosa nel farsi carico dell'intero film e regalarci un'interpretazione degna di una star. La sua Ree, diciassettenne spigolosa e risoluta, dall'indole resa aspra dalle avversità familiari, è uno di quei personaggi che non corri il rischio di dimenticare: i suoi occhi azzurri, la feroce determinazione, le parole rare e smozzicate, la rabbia immagazzinata in tanti anni di sofferenze la fanno assurgere al ruolo di assoluta protagonista di questo film bello e durissimo, fatto di solitudine, panorami mozzafiato, terre avare e inospitali, legami familiari resi impossibili dalle asperità della vita quotidiana. Per una curiosa coincidenza, Un gelido inverno arriva nelle sale negli stessi giorni de Il Grinta, western 'd'annata' firmato dai fratelli Coen e guardacaso (altra coincidenza?) anch'esso con protagonista una ragazzina giovanissima e risoluta, quasi a voler sottolineare una continuità con la Storia breve di un popolo che ormai, da tempo, ha rinunciato agli eroi.
 
VOTO: * * * *

lunedì 14 febbraio 2011

Ecco la 'TASSA SUL CINEMA' : i fondi per lo Spettacolo li pagano i contribuenti.


Vi ricordate la famosa scena di Non ci resta che piangere, con Benigni e Troisi che s'imbattono in una solerte guardia di confine che, al muovere di ogni loro passo, pretende di riscuotere la 'gabella' di 'un fiorino'? Ecco, direi che mai tale sequenza fu più profetica rispetto a quello che il nostro Governo ha riservato agli appassionati di cinema a partire dalla prossima estate. Per chi ancora non lo sapesse, infatti, informiamo che l'Esecutivo, attraverso un emendamento al decreto 'milleproroghe', ha disposto che a partire dal prossimo 1. luglio (e per la durata di due anni e mezzo) il costo dei biglietti del cinema aumenterà arbitrariamente di un euro: questo per consentire alle disastrate casse statali di rimpinguare i fondi a disposizione del settore Cultura e Spettacolo, drasticamente oggetto di indiscriminati tagli nelle ultime due leggi finanziarie.


La vendetta è un piatto che si consuma freddo. Questo deve aver pensato il ministro della in-cultura Sandro Bondi dopo aver respinto la mozione di sfiducia parlamentare presentata dall'opposizione, che gli chiedeva le dimissioni dopo il crollo dei siti di Pompei: il Gran Ciambellano di Arcore ha organizzato la sua rivalsa in grande stile, rifacendosi con gli interessi verso quella teppaglia vetero-comunista che, a parere suo, ha osato contraddire la gestione dei fondi ministeriali negli ultimi due anni... 'Mi accusate di aver tagliato risorse allo spettacolo? E allora da ora in avanti i soldi ce li mettete voi!' . Questa, in sintesi, la 'ricetta' governativa per rispondere alle continue lamentele di quei 'rompiscatole' che ANCORA si ostinano a fare Cinema nel nostro paese.

Ironia a parte, non credo ci sia bisogno di spiegare ulteriormente la vergognosa e sciagurata decisione assunta da Palazzo Chigi, ancora una volta sprezzante verso il mondo della Cultura e la dignità dei cittadini. Nonostante gli slogan a effetto, infatti, questa è l'ennesima tassa introdotta dal governo Berlusconi che va a gravare sulle tasche dei contribuenti in un periodo difficile come quello che stiamo vivendo, e che dimostra ancora una volta come ci sia la precisa volontà da parte di chi abita nelle stanze del potere di 'imbarbarire' e anestetizzare un popolo ormai assuefatto praticamente a tutto.

Non ci vuole molto a capire che la 'tassa sul cinema' produrrà effetti devastanti su tutto il settore, proprio in un periodo in cui il cinema italiano stava vivendo la sua stagione d'oro, con incassi da capogiro e un domino incontrastato nelle classifiche che non si registrava da decenni. Aumentare il prezzo del biglietto significa solo tre cose:
a) scoraggiare la gente a recarsi nelle sale. Proprio quando, come detto, c'erano segni evidenti di ripresa. Questo ovviamente tutto a scapito dei ceti più poveri. Demagogia? Beh, vi dico solo che con questo 'ritocchino' il prezzo dei biglietti arriverà ad aggirarsi intorno ai 9-10 euro (12-13 per i film in 3D) , contribuendo così a far cadere lo status che voleva il cinema ormai unico divertimento 'popolare' e a portata di tutte le tasche (considerando i costi astronomici di teatro, lirica e musica leggera).
b) uccidere definitivamente le piccole sale cinematografiche a vantaggio dei multiplex. A questo contribuisce non poco l'iniquo aumento arbitrario del prezzo: se per le grandi strutture l'aumento comporterà mediamente un rincaro del 12-13% nelle sale di provincia questo potrà arrivare fino al 25% (ad un costo del biglietto di 4 euro). Per non parlare poi della solita, ODIOSA eccezione: l'aumento non si applica per le sale parrocchiali, a testimonianza della squallida sudditanza di questo governo verso il potere ecclesiastico... e allora perchè non i circoli ARCI? E i Cineforum? E le migliaia di salette d'essai sparse in tutta Italia?
c) dare un decisivo contributo all'aumento della pirateria. Copie masterizzate, scaricate da internet, film in streaming 'visionati' direttamente via web. Questo e chissà quanto altro ci sarà da aspettarsi dopo questa 'furbata': anche perchè, in nome di questa tassa-rapina, ci sarà adesso molta più gente che si sentirà 'autorizzata' a guardare film illegalmente.

Ma, aldilà di tutto questo, la cosa che più fa rabbia è constatare la totale insensibilità di questa classe dirigente verso tutto ciò che risponde al nome di Cultura, nel nome di un disegno prestabilito, come già detto poc'anzi. Siamo nell'anno delle Celebrazioni per l'Unità d'Italia, ma se guardiamo attorno a noi, a quel che resta di una nazione una volta ricca e maestra nelle Arti e nell'Ingegno, non posso fare a meno di citare una frase di Michael Moore che calza a pennello per questa sciagurata vicenda
Ma come abbiamo ridotto questo paese?

domenica 13 febbraio 2011

BURLESQUE (USA, 2010) di Steve Antin


C'è musical e musical. Proprio ieri sera sono andato a vedere la versione teatrale di Flashdance e mi sono divertito tantissimo: una produzione giovane, frizzante, fresca, con un cast affiatato e ben assortito. Nessun nome noto, ma tanta energia e tanto ritmo che non fanno assolutamente rimpiangere la versione originale cinematografica.

Che cosa c'entra tutto questo con Burlesque, mi state chiedendo? Semplice. Come dicevo, c'è musical e musical: Flashdance è la dimostrazione che si possono affrontare 'temi' seri e importanti (disoccupazione, mondo operaio, disagio giovanile, precarietà) ANCHE con un genere cinematografico apparentemente 'frivolo' e poco incline all'impegno. Insomma: il musical non è un genere a se stante, e non è assolutamente vero che sceneggiatura e contesto siano componenti 'marginali', in secondo piano rispetto a canzoni e coreografie. Se esistono musical con queste caratteristiche, sono semplicemente dei brutti musical.

Ecco, Burlesque non è altro che un brutto film. Un film noiosissimo, superficiale, patinato e decisamente inutile, oltre che tremendamente banale: non è sufficiente infatti mettere davanti alla cinepresa decine di ballerine in abiti succinti per catalizzare l'attenzione dello spettatore, così come non ci si può non stancare nel vedere sempre la formosa protagonista sculettare e esibire in ogni scena le proprie 'grazie' senza una benchè minima forma di passione e convinzione in quello che sta facendo.
Burlesque è un film di una piattezza e di una mediocrità spaventose: una storia risibile e melensa (l'ennesima 'puntata' della giovincella giovane e senza soldi, novella Cenerentola, che abbandona capra e cavoli per trasferirsi in città alla ricerca di gloria...), 'arricchita' (si fa per dire) del contributo di due star che recitano ben al di sotto del minimo sindacale, ed essenzialmente per rilanciare le loro rispettive carriere.

Un baraccone chiassoso e vuoto, soporifero e snervante, che è offensivo e ridicolo paragonare a Cabaret, film al quale il regista videoclipparo Steve Antin dice di essersi 'ispirato': ecco, sappiate che tra il capolavoro di Bob Fosse e questa scemenza c'è la stessa differenza, a livello estetico, che c'è tra Monica Bellucci e Anna Mazzamauro. Paragone volgarotto, ma in linea con il livello del film.
 
VOTO: *

lunedì 7 febbraio 2011

SULLA MORTE DI MARIA SCHNEIDER, E SUL PESO DI (CERTE) PAROLE...


Mi ha fatto molta impressione e ovviamente anche molta tristezza apprendere la notizia della morte di Maria Schneider. Le cronache ci dicono che si è lasciata andare, che aveva rinunciato a vivere ben prima che fosse aggredita dalla malattia. Un destino triste e in qualche modo annunciato quello che si è portato via una donna di 58 anni alla quale la vita ha riservato la fama, ma non la felicità.


Maria Schneider ha ballato per una sola estate, quella del 1972: un film, un ruolo, una condanna. Ultimo tango a Parigi ne fece allo stesso tempo la sua fortuna e la sua dannazione. In quello che è diventato oggi il mondo dello spettacolo, certe stelle e stelline farebbero carte false per diventare a vent'anni la donna più sexy del pianeta. La Schneider lo fu quasi suo malgrado, interpretando uno dei film più controversi e 'scandalosi' della storia del cinema e finendo per essere travolta da quel ruolo 'maledetto'.
Non c'è da stupirsene. Molti sono stati gli attori rimasti 'schiavi' di un personaggio, che ha condizionato per sempre la loro carriera: pensiamo solo a Anthony Perkins (Psyco), Malcom McDowell (Arancia meccanica) o Bela Lugosi (Dracula), le cui intepretazioni ebbero conseguenze pesanti anche sulla loro vita privata.

Ma per Maria Schneider il discorso fu diverso. Lei, ingenua e disincantata ventenne, non si rese subito conto leggendo il copione di quello che sarebbe stato il suo ruolo in 'Ultimo tango'. Accettò la parte con l'incoscienza e la sfrontatezza di chi vuole bruciare le tappe della carriera, e certo non immaginava il massacro mediatico e morale che le fu riservato dalla critica pervenista e bigotta degli anni '70. E non solo da quella... il film fu dichiarato blasfemo dai tribunali di buona parte del mondo, in Italia fu perfino condannato 'al rogo', come ai tempi della Santa Inquisizione. E la Schneider fu considerata alla stregua di una strega cattiva, da additare e marchiare come un esempio negativo, diventò la pietra dello scandalo in tutto il globo.

Le parole sono pietre, diceva Carlo Levi. E credo che la morte di Maria Schneider debba farci riflettere, una volta di più, su come vadano usate e sul peso che hanno quando si danno giudizi morali sulle persone. Da noi la povera Mia Martini è morta per questo, e moltissimi altri tuttora soffrono di questa assurda gogna mediatica. E la regola deve valere per chiunque scrive, dal più acclamato dei critici fino all'ultimo dei dilettanti come il sottoscritto. In un mondo massificato, dominato dai media, dove grazie al web una notizia fa in pochi secondi il giro del pianeta, l'uso della parola va doppiamente soppesato e pianificato, perchè nessuno di noi può disporre della vita di una persona, nemmeno con una penna (o tastiera) in mano.