sabato 30 aprile 2011

SOURCE CODE (USA, 2011) di Duncan Jones


Due film sono sufficienti per 'consacrare' un autore? Per quanto tempo bisogna aspettare un regista prima di poterlo annoverare tra i cineasti 'cult' ? Le risposte, e il relativo dibattito, le lascio volentieri a voi. Per me il signor Duncan Jones, inglese, classe 1971 nonchè illustre figlio d'arte (è il figlio di David Bowie, ma con grande coraggio ha deciso di non 'adottare' il nome paterno) può essere a buon diritto considerato un regista con i contro-fiocchi: dopo il folgorante esordio di due anni fa con Moon, piccolo film indipendente e 'filosofico', erano in molti ad aspettarlo al 'varco' della seconda prova, con una produzione ad alto budget e le sirene di Hollywood a ronzargli intorno...

Ebbene, dopo aver visto Source Code possiamo dire tranquillamente che un nuovo Autore (con la 'A' maiuscola) è in circolazione. Un grande regista è colui che riesce a far diventare avvincenti le cose più facili, e Jones incarna alla lettera questa teoria: la sua opera seconda è ancora un film di fantascienza, di stampo classicissimo, che attinge a piene mani da due filoni che più classici e inflazionati non si può: il viaggio nel tempo e la 'realtà parallela'. Eppure Source Code riesce ad incollarci alla sedia per almeno 80 dei 93 minuti di pellicola, e sono emozioni forti: dimenticatevi infatti le atmosfere sospese e riflessive di Moon, qui siamo diametralmente all'opposto. Source Code è un robusto film d'azione che non scade mai nella superficialità e nell'overdose di effetti speciali: il segreto è nella portentosa sceneggiatura del romanziere Ben Ripley e nella capacità del regista di tenere sempre alta la tensione, pur in presenza di un meccanismo ripetitivo e rischiosissimo dal punto di vista cinefilo.

Ovviamente non vi dirò molto sulla trama, per non privarvi del gusto della visione: vi basti sapere che il film inizia con il soldato americano Colter Stevens (Jake Gyllenhaal), attaccato ad uno strano marchingegno che gli consente di andare a ritroso nel tempo per soli otto minuti e solo in un momento particolare del passato, che rimane sempre lo stesso. La sua missione è quella di scoprire l'identità di un attentatore che ha fatto esplodere una bomba su un treno di pendolari... La 'macchina' non ha il potere di mutare gli eventi, ma effettuando continui viaggi nel tempo, sempre di soli otto minuti ciascuno, Stevens potrà assicurare alla giustizia un pericoloso terrorista, che per una volta non è... quello che di solito immaginano gli americani.
Il film è bello, teso, adrenalico e spettacolare. Jones lo appesantisce solo un po' verso la conclusione, con qualche finale di troppo e l'abbozzo di una storia d'amore non indispensabile ai fini della vicenda. Ma è il prezzo minimo da pagare per chi si affaccia a Hollywood da novizio. E comunque, avercene di film 'commerciali' fatti in questo modo!

VOTO: * * * *

martedì 26 aprile 2011

L'ALTRA VERITA' (G.B., 2011) di Ken Loach


Ammetto che per il sottoscritto recensire un film di Ken Loach non è mai facile: perchè, di getto, vorrei sempre scrivere tutto il bene possibile di questo regista idealista e coraggioso, forse l'ultimo dei cineasti 'militanti', che utilizza il cinema come strumento di denuncia verso tutte le ingiustizie e le contraddizioni della società contemporanea. Il cinema di Loach è storicamente cinema d'impegno civile, mai rinnegato e sempre coerente con i propri principi, sia quando realizza pellicole più 'leggere' e ironiche (come il precedente Il mio amico Eric) sia quando torna a cimentarsi con temi drammatici e attuali come in questo L'altra verità, pamphlet appassionato e chiaramente schierato contro il conflitto iracheno.  Il problema (e il dubbio) per il recensore è sempre lo stesso: fin dove spingersi con la simpatia e il plauso per l'impegno e dove, invece, criticare lo spessore strettamente cinematografico dell'opera, non sempre all'altezza della situazione.

L'altra verità è l'esempio lampante di questo dilemma: film importante, solido, coraggioso, assolutamente lodevole nell'intento ma piuttosto abborracciato in fase di realizzazione. Loach racconta la storia di due amici d'infanzia e di vita che, per sbarcare il lunario, decidono di diventare 'contractors', vale a dire quei soldati appartenenti a società private che vengono assoldati dietro lauto compenso per affiancare in svariati fronti di guerra le truppe 'regolari'. Dei mercenari moderni, insomma, pronti a fare armi e bagagli per sparare addosso ad altra gente esclusivamente per tornaconto personale. La posizione del vecchio Ken è chiara, evidente e, ovviamente, condivisibile: le guerre 'moderne' non vengono combattute con spirito ideologico e patriottico, ma trattate come opportunità commerciali, specchi atroci di una società capitalistica e malata. 

Il simbolo di questa deriva sono ovviamente i due ragazzi protagonisti del film: giunti in Iraq per fare soldi facili e scappare in fretta col malloppo, sperimenteranno sulla loro pelle il cinismo e la tragica stupidità di un conflitto portato avanti solo per interessi economici e logiche di potere. E quando 'apriranno gli occhi' e cercheranno di tornare indietro sarà ormai troppo tardi...
L'altra verità è una pellicola che sta a metà tra un documentario e un film d'azione, senza però affondare mai i colpi nè in un senso nè nell'altro: troppo lento e macchinoso per appassionare, troppo ideologico e retorico per indignare davvero. L'intento come detto è lodevole, ma la sceneggiatura firmata dal fido Paul Laverty divide troppo nettamente i 'buoni' dai 'cattivi', e non risulta credibile teorizzando smaccatamente l'Occidente come causa di ogni male.

E' probabile che 'Ken il Rosso', ormai arrivato al traguardo delle 75 primavere, abbia esaurito la 'rabbia' feroce, propulsiva e dirompente dei tempi migliori, per conservare solo uno sguardo cinico e disilluso verso un mondo che non capisce più, trovando però ancora la forza di reagire, come e ben più di tanti altri. Per questo stiamo con lui 'a prescindere', gli vogliamo bene e gli perdoniamo 'quasi' tutto. Anche film imperfetti come questo. Meriterebbe due stelle, ma la terza gliela diamo per quanto appena detto.

VOTO: * * *

sabato 16 aprile 2011

HABEMUS PAPAM

(id.)
di Nanni Moretti (Italia, 2011)
con Michel Piccoli, Nanni Moretti, Margherita Buy


Habemus Moretti. E teniamocelo stretto, adesso e per molti anni ancora. Non sarà un mostro di simpatia, e nemmeno una persona 'accomodante', ma il suo lavoro lo sa fare eccome. Quello del regista, intendo. E pazienza se ancora qualcuno rifiuta di vedere i suoi film 'a prescindere', solo perchè politicamente schierato. Peggio per lui. Anche perchè il Moretti regista è immensamente più grande del Moretti 'politico', e non vedere Habemus Papam sarebbe davvero... un peccato originale!

Lasciate quindi a casa i pregiudizi e le antipatie personali, e correte al cinema a vedere il più bel lungometraggio del cineasta romano dai tempi di Caro Diario: un film che, restando in tema, è quasi un 'miracolo' per la leggerezza, la  leggiadria, il rispetto e la fermezza nel trattare un argomento che, di questi tempi, è quasi rivoluzionario.  Habemus Papam è, infatti, un film sull'inadeguatezza, sulla consapevolezza dei propri limiti, sul coraggio di avere paura. E in un mondo dominato dall'arrivismo, dalla competizione spietata, dalla voglia di prevalere sull'altro a qualsiasi costo, questa riflessione schietta, sincera e commovente sulla natura umana strappa applausi a scena aperta.

Questo film mi ha riportato alla memoria un lontanissimo ricordo d'infanzia: era il 1976, il sottoscritto aveva quattro anni e si ricorda ancora di quelle immagini televisive in bianco e nero, sfocate, accompagnate dalle imprecazioni abbastanza colorite di mio babbo, che mostravano lo svolgimento dell'ultima gara del Mondiale di Formula Uno di quell'anno. C'era Niki Lauda, su Ferrari, che a poche settimane dal terribile incidente subìto al Nurburgring (dove aveva visto la morte in faccia, restando quasi carbonizzato), era risalito in macchina e stava viaggiando verso la conquista del titolo: al pilota austriaco sarebbe bastato arrivare in fondo alla corsa per laurearsi campione, e sarebbe stato un miracolo considerato che aveva ancora sul viso le bende che lo proteggevano dalle ustioni ancora fresche. I media già preparavano i titoloni: un'impresa eroica, un risultato straordinario, epico... A un certo punto però sul circuito del Fuji, in Giappone, si abbatte un vero e proprio nubifragio. Tutti i piloti rientrano ai box per cambiare le gomme, anche Lauda. Che però non riparte, si slaccia le cinture e scende dall'auto. La sua dichiarazione è tanto laconica quanto sconvolgente: 'Ho paura'. Lo staff del Cavallino cerca disperatamente di convincerlo a ripartire: gli fanno capire che anche andando alla velocità di un tassista vincerebbe il campionato senza correre alcun rischio... ma il pilota austriaco è irremovibile: 'per me la corsa finisce qui'. Ironia della sorte, dopo pochi minuti sulla pista tornerà il sole. Inutile dire che quel 'gran rifiuto' sconvolse il mondo sportivo...

Ecco, il protagonista di Habemus Papam mi ha ricordato molto Niki Lauda. Il cardinale Matisse viene eletto Papa a dispetto di tutte le previsioni. Ma il pover'uomo non riesce a sopportare il peso dell'investitura: viene assalito da un sacro terrore, dalla paura di non farcela, crolla miseramente prima dell'annuncio alla cristianità, dal balcone su Piazza S.Pietro. Invano si cerca di farlo ragionare: viene 'convocato'  lo psicanalista Brezzi ('il più bravo di tutti', come lui stesso si definisce) ma c'è poco da fare. L'ultima chance è quella di accompagnare il neo-pontefice dall'ex-moglie del luminare, sotto il suo stesso consiglio, in quanto donna e fautrice della teoria del 'deficit di accudimento' (vedere il film per capire...). Ma durante il viaggio nel centro storico di Roma, l'uomo riesce a eludere la sorveglianza degli accompagnatori e si getta in mezzo alla folla...

Melville non è un pavido, e nemmeno pazzo. E' semplicemente una persona umile che capisce subito di non essere all'altezza del ruolo che deve ricoprire. Ed è costretto a fuggire proprio per l'incapacità del mondo intero a capire una cosa del genere. Un uomo che rifiuta il potere più grande che possa capitargli nella vita è un'assioma impossibile da digerire nella società contemporanea, dove tutti sono disposti a tutto pur di conquistarsi un posto al sole. Ecco perchè Habemus Papam è un film rivoluzionario,  perchè 'violenta' lo spettatore obbligandolo a ragionare su un concetto che ormai è andato perduto, e cerca di fargli capire che nella vita, certe volte almeno, anche 'dire no' può essere un atto di grande responsabilità e saggezza, e non necessariamente indice di debolezza.

Habemus Papam è un film 'morettiano' al 100%, di stampo felicemente 'antico', che stilisticamente ci riporta ai primi lavori del regista, permeato di quell'ironia di fondo, grottesca, surreale ed efficace che negli ultimi film di Moretti era stata colpevolmente (a mio modo di vedere) accantonata. Girato sotto forma di commedia, è una pellicola delicata e toccante, sincera e preziosa, profonda eppure divertentissima, interpretata da un Michel Piccoli assolutamente straordinario e da un manipolo di attori tutti bravissimi, anche nei piccoli ruoli: su tutti il regista polacco Jerzy Stuhr, esilarante come 'portavoce' del pontefice. Il film rappresenterà l'Italia a Cannes e, da parte nostra, la Palma d'Oro ha già un autorevolissimo candidato.

domenica 10 aprile 2011

LA FINE E' IL MIO INIZIO (Germania, 2011) di Jo Baier


Una scommessa persa in partenza, e non poteva che essere così. Trasformare in un  film un libro inclassificabile, intimo e personale come La fine è il mio inizio era una 'missione impossibile' a priori, e destinata a rimanere tale. Ci sono libri che si prestano molto a un adattamento cinematografico, che sembrano scritti apposta (e a volte lo sono per davvero), e ce ne sono altri invece, come questo, la cui trasposizione risulta ardua non solo dal punto di vista 'tecnico' , ma soprattutto per l'impossibilità di rappresentare degnamente e concretamente attraverso le immagini lo spirito e l'anima del  grande reporter toscano.

La fine è il mio inizio è un film debole e irrisolto, di una noia mortale. E anche totalmente inutile: chi conosce, apprezza e condivide la filosofia di vita e la visione del mondo di Tiziano Terzani, troverà in questa pellicola un confuso e trito collage di citazioni e rimandi al testo letterario, che nulla aggiungono a quanto già sa. Chi invece cercherà di avvicinarsi attraverso il film alla figura di Terzani in realtà ne capirà ben poco, in quanto nei 90 minuti di girato non si capisce praticamente nulla del personaggio, colpa anche di una regia miope e pretestuosa che trasforma il grande giornalista in una specie di predicatore new-age capace di raccontare solo ovvietà trite e sconcertanti, ignorando totalmente l'aspetto 'spirituale', filosofico, divulgativo e avventuroso della sua persona.

Il regista Jo Baier compie infatti una scelta stilistica coraggiosa, ma assolutamente controproducente: rinuncia del tutto ai flashback (e, di conseguenza, a mostrarci immagini e testimonianze di viaggio del protagonista) per concentrarsi esclusivamente sul potere evocativo della parola, puntando tutto sulla sceneggiatura e sull'interpretazione di un attore carismatico e di lungo corso come il 70enne Bruno Ganz. Peccato però che la partitura scritta dal figlio di Terzani, Folco (interpretata sullo schermo da un dimesso Elio Germano) e dal tedesco Ulrich Limmer si riduca a una lunga e piatta chiacchierata che non rispecchia nemmeno lontanamente lo stile ammaliante, impetuoso e coinvolgente del libro. Lo stesso Ganz, inoltre, evidentemente a disagio, gigioneggia in modo stucchevole e vuoto in una recitazione fin troppo teatrale e sopra le righe (alla quale, va detto, non giova nemmeno il brutto doppiaggio italiano, che fa parlare Terzani con un ruvido e irreale accento toscano, assolutamente non credibile).

Il film si riduce così ad una lunga e noiosa intervista, inframezzata da inutili dettagli intimi, a metà strada tra documentario e fiction, che finisce per scontentare tutti. Ma quello che più risulta difficile da capire è il senso stesso di questo lungometraggio, che pare avere come unico scopo quello di offrire a spettatori distratti e sprovveduti una specie di 'bignami' del Terzani-pensiero, quasi a volerli sollevare dalla 'fatica' di leggere i suoi libri. Un prodotto piatto e monocorde, fatto più per platee televisive che per i veri estimatori del giornalista e scrittore toscano. Più che un'occasione sprecata, uno spreco di pellicola.

VOTO: * *

sabato 9 aprile 2011

DAVID: Martone in pole position, nonostante tutto...


Con l'annuncio delle candidature entra nel vivo la corsa per i David di Donatello, ribattezzati in pompa magna 'gli Oscar italiani', anche se in verità hanno ben poco da spartire con il dorato mondo hollywoodiano: le cerimonie sgangherate, raffazzonate e cialtrone degli ultimi anni, infatti, non hanno certo contribuito a promuovere il nostro cinema (perfino la Rai, proprio per manifesta sciatteria, ha soppresso la diretta della premiazione 'relegandola' sul digitale terrestre). Ma aldilà di questo, quello che a noi interessa sono i film in gara, e allora vediamo di parlare un po' di queste candidature che, mai come quest'anno, sembrano avere un vincitore già scritto.

Il vincitore, annunciato, è ovviamente Mario Martone e il suo magnifico film Noi Credevamo. Nell'anno dei 'festeggiamenti' per i 150 anni dell'Unità d'Italia sarebbe davvero clamoroso se la grandiosa epopea sul Risorgimento firmata dal regista napoletano  non dovesse trionfare: innanzitutto perchè è un capolavoro assoluto (come questo blog ha sempre sostenuto, fin dalla proiezione 'veneziana'), un po' perchè è 'opportuno' che vinca (per le celebrazioni di cui sopra), un po' perchè... diciamo la verità, non c'è proprio gara: mi rifiuto di credere che una commediola provincialotta e nazional-popolare (seppur divertentissima, non lo nego) come Benvenuti al Sud possa venire premiata come miglior film italiano dell'anno... c'è un limite a tutto!

Il discorso che bisogna fare semmai è un altro: com'è possibile che un film come Noi Credevamo, meritevole di ben 13 candidature, accolto entusiasticamente dalla critica 'seria' e non militante, unico vero kolossal italiano di inizio millennio, abbia avuto un riscontro al botteghino così modesto? I numeri apparentemente sono impietosi: nemmeno 2 milioni di euro incassati a fronte dei 30 di Benvenuti al Sud! E qui dobbiamo fare un discorso politico, che a molti magari non piacerà ma che è l'unica spiegazione possibile. Semplicemente, il film di Martone è una dura presa di posizione contro il retorico trionfalismo di questi giorni, e getta uno sguardo spietato, ipercritico e fortemente polemico sulla nostra nazione: basta vedere il finale, con lo sguardo sconsolato e attonito di Luigi LoCascio sul Parlamento vuoto per capire il pensiero del regista. L'Italia è stata fatta, ma non ancora gli italiani. Siamo rimasti un popolo diviso, egoista, classista, mercenario, oggi come 150 anni fa. Questo è il 'rischio' che si corre, da parte di certi governi, a 'commissionare' certi film a registi capaci e 'non allineati' come Martone, che magari ti regalano perle di grande valore ma non utilizzabili come strumento propagandistico...

Ed ecco che allora si scopre che i pessimi incassi del film sono tutti da attribuirsi alla scarsa distribuzione, e non certo al gradimento del pubblico: la media incassi/schermi di Noi Credevamo è, infatti, superiore al 90% delle pellicole fin qui proiettate in tutto il 2011. A riprova che il film è stato 'scientificamente' boicottato, e perfino disconosciuto dagli stessi produttori: la 01 Distribution (vale a dire mamma Rai) lo ha distribuito in tutto in una trentina di sale (quasi tutte piene), senza uno straccio di pubblicità e tagliato di mezz'ora. Perfino nell'edizione in dvd il film è stato massacrato: uno scarno cofanetto contenente la versione 'tagliata' passata al cinema, senza extra e senza sottotitoli. Cose tipicamente italiane.

Diamo ora uno sguardo veloce alle nominations: dando per scontata la vittoria di Martone per film, regia e produzione, i pronostici sono per Elio Germano (La nostra vita) come miglior attore, pur con la forte concorrenza di Kim Rossi Stuart (Vallanzasca), e Alba Rohrwacher (La solitudine dei numeri primi) tra le attrici. Stupisce la clamorosa assenza di Toni Servillo, pur con ben tre film interpretati (Una vita tranquilla, Gorbaciof e lo stesso Noi Credevamo). Forse per manifesta superiorità? Tra i non protagonisti, lotta tra Battiston, Bova e Siani tra gli uomini, mentre la bellissima Valentina Lodovini dovrà guardarsi bene dalla 94enne Valeria DeFranciscis Bendoni, 'star' di Gianni e le donne. Ottimi, comunque, i risultati di  Una vita tranquilla, 20 sigarette, il divertentissimo e surreale Basilicata coast to coast, nonchè lo stupendo (e invisibile, ahimè) Le quattro volte di Michelangelo Frammartino.
Appuntamento al 6 maggio.

QUI tutte le candidature.

mercoledì 6 aprile 2011

BORIS - IL FILM (Italia, 2011) di Luca Vendruscolo, Mattia Torre, Giacomo Ciarrapico


Premessa doverosa: non ho mai seguito la serie televisiva e perciò il mio giudizio riguarda esclusivamente la versione cinematografica. Visuale ristretta dunque, e non ho problemi ad ammettere la mia limitata conoscenza della 'materia', che senz'altro pesa in sede di commento. Accetto dunque qualsiasi critica o integrazione da parte di chi ne sa più di me e voglia 'erudirmi' riguardo il fenomeno-Boris. Che, lo dico subito, non mi ha colpito più di tanto.

Intendiamoci: non stiamo parlando di un cattivo prodotto, tutt'altro. Anzi, Boris è una commedia che fa ridere davvero, e non è un'affermazione alla Catalano... si ride con gusto, in maniera non sguaiata, divertendoci con una comicità pungente e mai volgare, sicuramente al di sopra della media degli ultimi prodotti 'made in Italy'. Il problema è che il livello attuale delle nostre commedie è, appunto, talmente infimo da far apparire come 'geniale' qualsiasi cosa appena appena superiore. E di questi tempi bisogna accontentarsi.

Boris è una commedia che vorrebbe parodiare e far riflettere sullo stato pietoso del cinema italiano, attraverso una sceneggiatura che prende di mira tutti gli storici 'vizi italici', applicati al mondo della settima arte: lo spunto è dato da un'immaginaria casa di produzione che acquisisce i diritti del libro La casta (anch'esso un cult), e cerca un regista che, con poca spesa e molta rapidità d'esecuzione, giri il film prima della scadenza dei diritti d'autore.  Le riprese iniziano, sotto la direzione di un ex-regista di soap opera, ma gli innumerevoli contrattempi che di volta in volta si presentano rischiano di far saltare tutto:  sceneggiatori snob e fannulloni, attori raccomandati, imposizioni da parte dei finanziatori, compromessi con la produzione, lungaggini burocratiche...

Il risultato, come detto, non è da disprezzare. Ma da qui a dire che Boris sia un film innovativo, caustico, irriverente e 'alternativo' ce ne corre. Di pellicole volte a mettere in evidenza le brutte abitudini e le malefatte degli italiani ne sono state fatte tante, e molte con esiti enormemente superiori. Perchè, senza voler mancare di rispetto a nessuno, i tre registi di Boris non valgono un'unghia di gente come Monicelli, Risi, Zampa, Comencini o Steno. E Pannofino, ottimo doppiatore e anche discreto comico, non è certo il nuovo Alberto Sordi. Non scherziamo.
Accontentiamoci, quindi. E facciamoci pure due sane risate. Ma Boris è uno di quei film che, una volta usciti dalla sala, non puoi che commentare col più classico e inutile degli aggettivi:  'carino'!

VOTO: * * *

domenica 3 aprile 2011

NON LASCIARMI (G.B., 2011) di Mark Romanek


Quanto vale una vita umana? E quanta percezione abbiamo del dolore e della sofferenza che vediamo intorno a noi, che i media cinicamente ci propinano a ogni ora del giorno e della notte? Vediamo dappertutto scene di disperati che fuggono da teatri di guerra, persone che lottano contro la furia selvaggia della natura, gente semplice che vede il loro futuro minacciato da catastrofi ambientali provocate proprio dagli uomini stessi. Siamo così abituati a vedere la morte intorno a noi che ormai non ci facciamo più caso, assistiamo a queste stragi pasteggiando davanti alla tv, ascoltando distrattamente il freddo rumore di fondo della cronaca. Siamo assuefatti e passivi, e quello che abbiamo irrimediabilmente perso è la consapevolezza della tragedia, che ci rende insensibili e innegabilmente dis-umani.
E proprio la consapevolezza è la chiave di lettura di Non lasciarmi: quella stessa consapevolezza che regola l'esistenza di tre ragazzi con un destino segnato, e che tanto fa più male a noi spettatori proprio per la nostra disabitudine alla sofferenza e all'ineluttabilità, ingenuamente inconsapevoli dell'effimera consistenza delle nostre vite.

Tratto da un romanzo di Kazuo Ishiguro, sceneggiato da Alex Garland (quello di 28 giorni dopo) e portato sullo schermo da Mark Romanek, Non lasciarmi è la storia di una profonda amicizia fra tre giovani cresciuti in un austero collegio della campagna britannica, isolato dal mondo,  e dove alcuni alunni  'speciali' vengono 'indirizzati' verso un misterioso, inconsapevole e tragico futuro, che sarà loro furtivamente svelato da un'insegnante anticonformista e coraggiosa.
Da quel momento in poi, per tutto il film il nostro desiderio, il nostro istinto è quello di urlare con rabbia ai protagonisti di ribellarsi al loro destino, di convincerli a fuggire, di spronarli a gettare via il braccialetto di riconoscimento e sospingerli alla ricerca di un qualsiasi posto dove poter costruirsi una vita vera, da persone 'normali'. Ma non succederà. Perchè forse quella 'terra promessa' non esiste, o forse perchè è davvero impossibile scappare e rifiutare una sorte che altri hanno già stabilito e 'pianificato' passo passo, e di cui i ragazzi stessi sono, appunto, 'consapevoli' di non poter modificare.

Non lasciarmi è tecnicamente un film di fantascienza, ma è ambientato nel ventennio che va dagli anni '70 agli anni '90, immaginando perciò un presente 'alternativo', sulla falsariga di Fahrenheit 451. Come dire: quello che accade sullo schermo sta GIA' succedendo, e la mancanza di ribellione, di lacrime, di totale opposizione al destino sta a volerci avvertire che dietro i colori grigi, asettici, impersonali, plumbei del countryside inglese  si nasconde l'ultima possibilità per l'essere umano di essere padrone di se stesso. Il film è bello, toccante, recitato magistralmente da tre giovani e bravissimi attori: Carey Mulligan (già vista in An education), Andrew Garfield (lo ricordate in The Social Network?) e la 'star' Keira Knightley. Un film senz'altro da vedere, ma che non vorrete rivedere per molto tempo. Perchè in questo film c'è tutta la sofferenza del mondo moderno.

VOTO: * * * *