sabato 16 giugno 2012

JODIE 50 - I FILM - Ore contate


 Il suo compleanno è il 19 novembre, ma noi cominciamo a festeggiarla adesso... perchè? Perchè Jodie Foster, al traguardo del mezzo secolo, è l'attrice 'moderna' che a nostro modestissimo parere ha meglio omaggiato il Cinema in tutti i suoi aspetti: l'abbiamo vista crescere (letteralmente) dietro la macchina da presa, l'abbiamo ammirata in ruoli sempre diversi a seconda delle stagioni della sua (e nostra) vita, l'abbiamo seguita in ogni sua trasformazione artistica. Sì, Jodie ci piace parecchio, non l'abbiamo mai nascosto... non sarà una 'moral guidance' (come ha fatto con Clint Eastwood il settimanale FilmTv), ma per noi rappresenta la bravura, la professionalità, l'incarnazione per un lavoro che fin da subito le è entrato dentro. Jodie è una perfetta 'macchina per recitare'. E noi la ricordiamo con i suoi film, che ci hanno accompagnato per mano. Crescendo insieme a lei.


ORE CONTATE (Backtrack, USA 1989) di Dennis Hopper


Un film 'maledetto' come il suo regista, sconclusionato, inverosimile, travagliatissimo: Dennis Hopper volle fare tutto di testa sua, scontrandosi frontalmente con la produzione che lo fece fuori appena finite le riprese. Distribuito in poche copie e col nome fittizio alla regia di Alan Smithee, la pellicola fu un fiasco colossale, sebbene annoverasse un cast che dire da capogiro è poco... oltre allo stesso Hopper c'erano John TurturroCharlie SheenJoe PesciDean Stockwell, e addirittura uno spaesato Bob Dylan!
E poi ovviamente c'era lei, Jodie. Che mai, in tutta la sua sterminata carriera, è stata così bella, sexy e provocante come in questo film. Per questo Ore Contate è un piccolo 'must' per noi 'fosteriani' incalliti: è il film che ci ha fatto ammirare Jodie, per una volta, nient'altro che per la sua bellezza. 

Jodie interpreta Anne Benton, artista pop losangelina che assiste  del tutto involontariamente ad una resa dei conti tra mafiosi. Accortosi di lei, il boss locale cerca in tutti i modi di ritrovarla e ucciderla, affinchè tenga la bocca chiusa. Si scatena così una 'caccia alla donna' in grande stile, viene perfino assoldato un sicario di professione, Milo (Hopper), che però una volta individuata la preda, finisce per innamorarsene perdutamente... 

La bella e il delinquente. La fuga. Gli inseguimenti. Gli spari. Il sesso. La strada. Il desiderio di rifarsi una vita anni luce più lontano. In Ore Contate c'è tutto e il contrario di tutto, un calderone di emozioni che mescola follia e sentimento, crudeltà e bontà d'animo, morte e poesia. E' una stralunata discesa agli inferi, talmente kitsch da risultare indimenticabile. Non si contano le scene da mandare a memoria: Jodie che si spoglia davanti al sicario, lui che le compra le paste alla fragola, il duello all'interno della centrale elettrica...

Non sarà mai ricordato in nessun dizionario di cinema. Ma per noi Ore Contate resterà per sempre davanti ai nostri occhi. Vedere per credere.

venerdì 15 giugno 2012

CINEMA DELLA CRISI

In principio fu Americani. Correva l'anno 1992, eravamo tutti esperti di borsa e mercati, il promotore finanziario era una delle figure più ambite della società, e qualunque titolo compravi la domanda non era 'se guadagnerà' ma 'quanto guadagnerà'. Erano i tempi, insomma, del boom finanziario e dei soldi facili, della speculazione folle che pareva essere la vera gallina dalle uova d'oro.

Eppure... eppure in quello stesso anno lo straordinario film di James Foley ci avvertiva che qualcosa non andava. Che non era tutt'oro quello che saltava agli occhi. Il capitalismo selvaggio porta alla competizione spietata, all'azzeramento sistematico di tutti i valori etici e morali, al cinico arrivismo di chi intende esercitare il Potere sulla classe dirigente. Ma pochi si rendevano conto che quell'economia strutturata sull'effimero era un gigante dai piedi d'argilla, una clamorosa bolla di sapone pronta a scoppiare di lì a un paio di decenni.

Vent'anni dopo, i nodi sono venuti al pettine. E il cinema, che segue inevitabilmente le tendenze, ha prodotto una serie di titoli che potremmo definire 'cinema della crisi'. Quasi un filone ormai, ovviamente acuitosi negli ultimi mesi, dove la stretta economica si fa sempre più drammatica. Per dirla alla Ricky Roma/Al Pacino:
"In questo mondo non c'è più posto per gli uomini. Questo non è un mondo per gente come noi [...] Non fa per noi. Non c'è più gusto. Siamo alla fine. Ecco cosa siamo, noi siamo una razza in estinzione!"


POSTI IN PIEDI IN PARADISO
Roma, XXI secolo. Padri separati, affitto arretrato, un appartamento da condividere e tanta, tanta solitudine. La commedia si adegua al nuovomondo, a suo modo. Un Verdone coraggioso e insolitamente sobrio. Film non riuscitissimo, ma lodevole.




TUTTI I NOSTRI DESIDERI
Dopo Welcome, un'altra ottima pellicola di Philippe Lioret, stavolta alle prese con banche e clienti dissanguati dalla crisi. Un dramma personale di una ragazza costretta a lottare contro una malattia tremenda e il cinismo della società. Tristemente plausibile.




COSMOPOLIS
Un viaggio travestito da incubo metropolitano e generazionale. La parabola di un giovane uomo d'affari che vede disgregarsi il suo impero, le sue certezze, la sua stessa vita. Tutto nel corso di una notte, dove rivoluzione e disgregazione (di valori e di fisico) convergeranno pericolosamente.


MARGIN  CALL
Il paradosso della new-economy: gigantesche multinazionali che si dissolvono nel giro di poche ore, stroncate da quello stesso circolo vizioso da loro innescato. Scatole vuote, imprese costruite sul nulla e che vendono il nulla, dove piccoli uomini si scannano a vicenda. Homo homini lupus.


L'INDUSTRIALE
In una Torino gelida, cupa, nebbiosa, livida, un imprenditore onesto e orgoglioso cerca di sopravvivere alla Tempesta finanziaria, come un novello Don Chishotte. Denaro che condiziona pubblico e privato, affetti e famiglia, con conseguenze inevitabili. 

giovedì 14 giugno 2012

L'INDUSTRIALE

(id.)
di Giuliano Montaldo (Italia, 2011)
con Pierfrancesco Favino, Carolina Crescentini, Francesco Scianna
VOTO: **

Ci sono film dei quali vorresti scrivere tutto il bene possibile, perchè la loro importanza spesso va oltre l'aspetto strettamente stilistico e ci aiutano a ragionare e riflettere sui nostri tempi. Una volta era sorto perfino un 'filone', quello del grande cinema italiano di impegno sociale, che aveva tra i propri esponenti autori come Elio Petri, Francesco Rosi, Damiano Damiani, Gillo Pontecorvo... grandi autori che producevano capolavori del genere.

Oggi, purtroppo, non è più così. Il grande cinema 'sociale' ha segnato il passo da tempo, lasciando troppo spazio alle produzioni mainstreaming e finendo relegato in posizioni di nicchia, spesso ai limiti della visibilità. Per questo quando escono film come L'industriale non possiamo che essere contenti e speranzosi che un certo cinema 'd'impegno civile' è ancora possibile. L'ultimo lavoro di Giuliano Montaldo getta uno sguardo duro e molto cupo sulla crisi economica (ma non solo) del nostro tempo: lo fa raccontando il dramma di un piccolo imprenditore torinese, affogato dai debiti e dalle banche, che tenta disperatamente di salvare la propria azienda e i propri dipendenti senza ricorrere a pratiche... diciamo poco edificanti.

Pierfrancesco Favino (ormai onnipresente) ce la mette tutta per rendere credibile il suo personaggio, quello di un uomo orgoglioso e onesto la cui vita pubblica e privata è messa a dura prova dalle vicende professionali. Il film però non riesce a sollevarsi da un registro piuttosto banale, di chiaro stampo televisivo, con una sceneggiatura alquanto 'scolastica' che appiattisce ogni tentativo di caratterizzazione dei protagonisti, i quali finiscono per risultare stereotipati e poco credibili, divisi troppo dozzinalmente tra 'buoni' e 'cattivi', alcuni quasi ai limiti della caricatura (vedi il personaggio della suocera megera, ricca e avida, senza un grammo di coscienza).

Giuliano Montaldo è un 'vecchio' autore che fa pochi film. Quasi tutti di livello. Il precedente, I demoni di San Pietroburgo, ci era piaciuto molto ma lo avevano visto in tre gatti... questo ci risulta stia andando decisamente meglio ai botteghini, a triste riprova che l'unico modo per 'fare pubblico' in Italia è quello di banalizzare le storie e 'spiegare' didascalicamente ogni cosa allo spettatore medio, sempre poco propenso a compiere anche un minimo sforzo critico. E certamente la bella fotografia gelida e sgranata di Arnaldo Catinari non basta a risollevare le sorti di una pellicola di una piattezza sconfortante. Peccato.

sabato 9 giugno 2012

ANOTHER EARTH

(id.)
di Mike Cahill (USA, 2011)
con Brit Marling, William Maphoter
VOTO: ****

Un altro mondo è possibile. E tutti hanno il diritto di ricominciare, di meritarsi una seconda possibilità. Chi ha paragonato Another Earth a Melancholia di Lars Von Trier probabilmente non ha visto uno (o nessuno) dei due film. Se nella dolente partitura del regista danese si parlava infatti della fine del mondo come catarsi della malvagità umana, in questa sorprendente opera prima del documentarista americano Mike Cahill il pianeta 'doppio' viene visto come un'alternativa possibile a un presente poco edificante. C'è, insomma, un messaggio di speranza e nello stesso tempo uno stimolo a rifare i conti con la propria vita, ad eludere una realtà che vorremmo tanto essere diversa.

Ma andiamo con ordine. Another Earth è la storia di Rhoda Williams, brillante studentessa di astrofisica che vede concludersi tragicamente una notte di baldoria tra amici: durante il rientro a casa la ragazza nota una stella nel cielo più brillante di altre, che cattura la sua attenzione e la fa andare a sbattere dritta contro un'altra macchina, ferendo gravemente il conducente e uccidendogli sul colpo il figlio e la moglie incinta. Da quell'istante Rhoda perde tutto: speranze, sogni, affetti, la propria libertà. Rinchiusa in carcere per quattro anni, ne uscirà per ricominciare dal gradino più basso della scala sociale, nonchè per andare a cercare l'uomo a cui ha distrutto la vita. Lo troverà, ma non avrà il coraggio di dichiararsi a lui...

Nel frattempo l'astro luminoso visto quella tragica sera è stato scoperto e identificato: si tratta di un pianeta 'gemello' al nostro, dove ognuno di noi potrebbe avere il suo 'doppione', un esatto duplicato che vive un'esistenza magari totalmente diversa... Another Earth è un film di fantascienza che in realtà ha ben poco di irreale: è evidente, infatti, che il pianeta 'doppio' è lo specchio delle nostre paure, un non-luogo in cui ci piacerebbe vivere serenamente e lontani dalle complessità del mondo. E dove, verosimilmente, vorremmo essere persone migliori di quello che siamo. Il film di Cahill è un invito ad accettarsi, a scavare dentro le nostre coscienze e liberarsi dalle fobie che ci fanno perdere di vista l'essenza vera della condizione umana. E questo, consentitecelo, non può non ricondurci ad un titolo che - guardacaso - è anche il titolo di questo blog. Citazione doverosa, insomma.

Another Earth è una pellicola profondamente umana e intimista, che ogni spettatore è giusto faccia sua e ci legga quello che 'sente' dentro di sè, indipendentemente dalle nostre interpretazioni. Noi ci limitiamo a rimarcarne la bellezza visiva e la bravura degli attori protagonisti, con una menzione speciale per la splendida Brit Marling (anche sceneggiatrice) di cui sentiremo senz'altro molto parlare. Fantascienza 'filosofica', dice qualcuno, che prosegue un filone di quel cinema indipendente che mostra una vitalità inusitata negli ultimi tempi: pensiamo, solo per fare degli esempi, a Moon, Non lasciarmi, Sunshine... opere che meriterebbero spazio e attenzione da parte soprattutto degli addetti ai lavori, a cui spetta il coraggio di 'credere' in questi film. E invece, a tutt'oggi, Another Earth viene proiettato in TRE-schermi-TRE in tutt'Italia. Vergogna!

martedì 5 giugno 2012

MOLTO FORTE, INCREDIBILMENTE VICINO

(Extremely loud and incredibly close)
di Stephen Daldry (USA, 2011)
con Thomas Horn, Max Von Sydow, Tom Hanks, Sandra Bullock, Viola Davis
VOTO: ****

"Se il sole esplodesse adesso noi ce ne accorgeremmo solo tra otto minuti, il tempo che impiega la luce per arrivare fin qui. Era passato un anno dalla morte di mio padre e sentivo che i miei otto minuti stavano per scadere..."

Oskar Shell ha undici anni ed ha visto morire il padre. Non importa come (per ora). Ha assistito inerte alla sua morte senza il coraggio di dirgli nulla, e adesso il rimorso non lo fa vivere. Tutto quello che gli resta del genitore è un vaso azzurro, scoperto per caso in camera sua, con dentro una chiave e un biglietto su cui è scritto sopra un solo nome. Anzi, un cognome: 'Black'. Oskar interpreta il fatto come l'ultimo tentativo del padre di comunicargli qualcosa, l'ultimo fragile legame prima del nulla. Da quell'istante l'unica ragione di vita del ragazzino sarà quella di contattare di persona, uno per uno, tutti i 472  signori 'Black' sparsi per New York, domandando loro se quella chiave apre qualcosa...

Da quell'istante inizia un pellegrinaggio per la metropoli americana che non è difficile paragonare ad una specie di viaggio iniziatico, al tentativo del piccolo Oskar di far pace con se stesso, di diventare finalmente una persona 'normale' (come promette disperatamente alla madre) attraverso una 'crociata' che è ai limiti dell'impossibile, ma che gli servirà per guardarsi dentro e scacciare le sue paure. Che sono quelle, poi, di una città, una nazione, un universo intero, scopertosi improvvisamente vulnerabile e impreparato alla tragedia. Ad aiutarlo nella sua missione ci penserà un misterioso signore anziano e muto, anch'esso con un pesante segreto sulle spalle, che ricorderà al piccolo esploratore (e a noi che 'vediamo' attraverso i suoi occhi) l'ineluttabilità della storia e il cinico ripetersi della stupidità umana.

A dodici anni di distanza da Billy Elliot, il regista Stephen Daldry torna a raccontarci una storia commovente e onesta, per niente ipocrita, di un bambino problematico eppure intelligentissimo, che grazie al suo candore e alla sua pazza determinazione riuscirà a scuotere le coscienze di una società insensibile e  votata all'egoismo e alla paura del 'diverso'. Molto forte, incredibilmente vicino (meno male che, per una volta, la distribuzione italiana non ha storpiato il titolo) è tratto dall'omonimo romanzo di Jonathan Safran Froer (quello di Ogni cosa è illuminata), che nelle mani dello sceneggiatore Eric Roth (lo ricordiamo in Forrest Gump) si concentra prevalentemente, riuscendoci, sulla vicenda privata del piccolo protagonista, restituendoci una storia che parla di una perdita insanabile e del tentativo di elaborarla, fatta di lunghi silenzi, frasi spezzate e molte domande, le quali hanno bisogno di tempo per ottenere una risposta che, forse, non arriverà mai.

Certo il film non è immune da difetti: un po' di retorica fisiologicamente ogni tanto affiora, la mediocre Sandra Bullock e un imbolsito Tom Hanks non sono troppo credibili nel ruolo dei genitori, la sceneggiatura a volte è tirata per i capelli (riesce difficile credere che un undicenne possa girare così tranquillamente per le strade della Grande Mela). Ma le lacrime che la pellicola inevitabilmente strappa sono tutte sincere, e siamo felici di versarle. Il film da noi non ha avuto una clamorosa accoglienza da parte della critica, specialmente (spiace dirlo) da quella 'sinistrorsa', imputando al regista la troppa indulgenza e la smaccata (?) simpatia verso l'America. Il motivo è presto detto: il papà di Oskar muore gettandosi nel vuoto dopo l'attentato alle Torri Gemelle... con tutto quello che ne consegue.

Ma valutare il film esclusivamente in funzione dell' Undici Settembre, onestamente non ha senso. Molto forte, incredibilmente vicino racconta una vicenda essenzialmente privata, in cui la tragedia Americana ha un peso specifico direttamente proporzionale alla capacità di intendere e di volere di un ragazzino undicenne che, semplicemente. scopre di aver perso un genitore e poco gli importa come. Speculare e suggerire intepretazioni politiche in questo film è un gioco che appassiona davvero il giusto.

Meglio, molto meglio, godersi le performances di uno strepitoso Thomas Horn, al suo debutto cinematografico assoluto e, quasi per contrappasso, dell'86enne Max Von Sydow nel ruolo del misterioso accompagnatore, al quale evidentemente la famosa partita a scacchi col diavolo ha portato solo bene. Il film diverte, incanta, commuove (molto). E pazienza per qualche caduta di ritmo e e i veniali difettucci che abbiamo elencato prima. Io lo giudico col cuore, e per questo gli assegno quattro stelle: ne meriterebbe tre, la quarta è per le emozioni che ci regala...  

lunedì 4 giugno 2012

MARILYN

(My week with Marilyn)
di Simon Curtis (GB, 2011)
con Michelle Williams, Eddie Redmayne, Kenneth Branagh, Julia Ormond, Emma Watson, Judi Dench
VOTO: **

Una settimana con Marilyn, recita il titolo originale, come al solito più preciso e significativo di quello italiano, oltretutto foriero di equivoci: il film di Simon Curtis infatti NON è la biografia della diva, bensì il resoconto di un episodio minore e poco conosciuto dai media, ovvero i sette giorni trascorsi da un giovane e ingenuo aiuto-regista fianco a fianco con la star, sul set del film Il principe e la ballerina, diretto da Laurence Olivier.

L'anno è il 1957, e il giovane Colin Clark è un ventitreenne di belle speranze, con un unico sogno nella testa: quello di sfondare nel cinema. La grande occasione arriva proprio grazie ad Olivier, (un guascone Kenneth Branagh) che lo vuole come assistente di regia sul set londinese dell'unica pellicola prodotta dalla Monroe, ovviamente anche protagonista. Scoprirà ben presto, però, che il carismatico attore-regista britannico se ne frega della sua preparazione: il suo unico scopo sarà quello di sorvegliare e accudire la volubile e fragile Marilyn, temporaneamente 'abbandonata' per impegni di lavoro dal fresco marito Arthur Miller.

La trama a questo punto è tanto scontata quanto inevitabile: il giovanotto sarà immediatamente e irrimediabilmente circuito dallo charme e la mostruosa carica sexy della sua 'protetta', che se ne servirà ben bene per scappare dalla routine della sua prigione dorata hollywoodiana, generando nel ragazzo sentimenti e aspettative per forza di cose destinati a rimanere platonici, e costringendolo a trascurare (con ovvie conseguenze) la sua relazione ben più 'normale' con la timida guardarobiera Lucy.(la 'potteriana' Emily Watson)

La bravissima Michelle Williams ce la mette davvero tutta nel rendere più 'vera' possibile la sua Marilyn, e va detto che ci riesce bene: rinunciando (giustamente) a priori ad un'impossibile immedesimazione fisica della star americana, si concentra invece sul suo aspetto intimo ed emozionale, strettamente privato, restituendo perfettamente l'idea di una celebrità dalla personalità fragile, insicura, nostalgica e drammaticamente infelice. Peccato però che la sua bella prova d'attrice venga vanificata da una partitura piatta e monocorde, che quasi mai riesce a toccare le corde dello spettatore.

La sceneggiatura di Adrian Hodges, infatti,  basata sui diari originali dello stesso Colin Clark (qui interpretato dal modello inglese Eddie Redmayne), è monotona e senza sussulti, e si trascina stancamente per i cento minuti scarsi di durata, in cui troppe volte si guarda l'orologio. La macchina da presa indugia con generosità sui momenti privati della diva, che rimangono però solo degli attimi fini a se stessi, mentre si cerca inutilmente la 'scintilla' che faccia decollare un film patinato, ben recitato, sapientemente fotografato e musicato, ma che non riesce mai ad accendersi. Un vero peccato, perchè una vita totalmente 'fuori dal comune' come quella di Marilyn meritava ben di più questa pellicola che è invece, ahimè, assolutamente 'ordinaria'.

venerdì 1 giugno 2012

HABEMUS PAPAM

Cari amici, siamo al secondo (e ultimo) appuntamento: questo pezzo partecipa (modestissimamente) al concorso organizzato dalla Mostra Internazionale del Cinema di Pesaro e riservato a tutti i blogger di ogni ordine e grado, allo scopo di rendere omaggio alle personalità illustri ospitate dalla rassegna nel corso della sua storia. 
Se vorrete votare il mio articolo (fatelo! non costa niente...) basterà che chiediate l'amicizia alla pagina Facebook ufficiale della rassegna (che sarà subito accettata, è fatta apposta per questo) e cliccate il 'mitico' tastino 'mi piace' sul post riguardante questo pezzo.  Vanno benissimo anche i commenti.
Quando? Da sabato 2 giugno (mattina) fino a martedi 5 giugno alle ore 19,00...
Vi ringrazio tutti quanti, in anticipo, per la collaborazione !!
 

Habemus Moretti. E teniamocelo stretto, adesso e per molti anni ancora. Non sarà un mostro di simpatia, e nemmeno una persona 'accomodante', ma il suo lavoro lo sa fare eccome. Quello del regista, intendo. E pazienza se ancora qualcuno rifiuta di vedere i suoi film 'a prescindere', solo perchè politicamente schierato. Peggio per lui. Anche perchè il Moretti regista è immensamente più grande del Moretti 'politico', e non vedere Habemus Papam sarebbe davvero... un peccato originale!

Lasciate quindi a casa i pregiudizi e le antipatie personali, e correte al cinema a vedere il più bel lungometraggio del cineasta romano dai tempi di Caro Diario: un film che, restando in tema, è quasi un 'miracolo' per la leggerezza, la  leggiadria, il rispetto e la fermezza nel trattare un argomento che, di questi tempi, è quasi rivoluzionario.  Habemus Papam è, infatti, un film sull'inadeguatezza, sulla consapevolezza dei propri limiti, sul coraggio di avere paura. E in un mondo dominato dall'arrivismo, dalla competizione spietata, dalla voglia di prevalere sull'altro a qualsiasi costo, questa riflessione schietta, sincera e commovente sulla natura umana strappa applausi a scena aperta.

Questo film mi ha riportato alla memoria un lontanissimo ricordo d'infanzia: era il 1976, il sottoscritto aveva quattro anni e si ricorda ancora di quelle immagini televisive in bianco e nero, sfocate, accompagnate dalle imprecazioni abbastanza colorite di mio babbo, che mostravano lo svolgimento dell'ultima gara del Mondiale di Formula Uno di quell'anno. C'era Niki Lauda, su Ferrari, che a poche settimane dal terribile incidente subìto al Nurburgring (dove aveva visto la morte in faccia, restando quasi carbonizzato), era risalito in macchina e stava viaggiando verso la conquista del titolo: al pilota austriaco sarebbe bastato arrivare in fondo alla corsa per laurearsi campione, e sarebbe stato un miracolo considerato che aveva ancora sul viso le bende che lo proteggevano dalle ustioni ancora fresche. I media già preparavano i titoloni: un'impresa eroica, un risultato straordinario, epico... A un certo punto però sul circuito del Fuji, in Giappone, si abbatte un vero e proprio nubifragio. Tutti i piloti rientrano ai box per cambiare le gomme, anche Lauda. Che però non riparte, si slaccia le cinture e scende dall'auto. La sua dichiarazione è tanto laconica quanto sconvolgente: 'Ho paura'. Lo staff del Cavallino cerca disperatamente di convincerlo a ripartire: gli fanno capire che anche andando alla velocità di un tassista vincerebbe il campionato senza correre alcun rischio... ma il pilota austriaco è irremovibile: 'per me la corsa finisce qui'. Ironia della sorte, dopo pochi minuti sulla pista tornerà il sole. Inutile dire che quel 'gran rifiuto' sconvolse il mondo sportivo...

Ecco, il protagonista di Habemus Papam mi ha ricordato molto Niki Lauda. Il cardinale Matisse viene eletto Papa a dispetto di tutte le previsioni. Ma il pover'uomo non riesce a sopportare il peso dell'investitura: viene assalito da un sacro terrore, dalla paura di non farcela, crolla miseramente prima dell'annuncio alla cristianità, dal balcone su Piazza S.Pietro. Invano si cerca di farlo ragionare: viene 'convocato'  lo psicanalista Brezzi ('il più bravo di tutti', come lui stesso si definisce) ma c'è poco da fare. L'ultima chance è quella di accompagnare il neo-pontefice dall'ex-moglie del luminare, sotto il suo stesso consiglio, in quanto donna e fautrice della teoria del 'deficit di accudimento' (vedere il film per capire...). Ma durante il viaggio nel centro storico di Roma, l'uomo riesce a eludere la sorveglianza degli accompagnatori e si getta in mezzo alla folla...

Melville non è un pavido, e nemmeno pazzo. E' semplicemente una persona umile che capisce subito di non essere all'altezza del ruolo che deve ricoprire. Ed è costretto a fuggire proprio per l'incapacità del mondo intero a capire una cosa del genere. Un uomo che rifiuta il potere più grande che possa capitargli nella vita è un'assioma impossibile da digerire nella società contemporanea, dove tutti sono disposti a tutto pur di conquistarsi un posto al sole. Ecco perchè Habemus Papam è un film rivoluzionario,  perchè 'violenta' lo spettatore obbligandolo a ragionare su un concetto che ormai è andato perduto, e cerca di fargli capire che nella vita, certe volte almeno, anche 'dire no' può essere un atto di grande responsabilità e saggezza, e non necessariamente indice di debolezza.

Habemus Papam è un film 'morettiano' al 100%, di stampo felicemente 'antico', che stilisticamente ci riporta ai primi lavori del regista, permeato di quell'ironia di fondo, grottesca, surreale ed efficace che negli ultimi film di Moretti era stata colpevolmente (a mio modo di vedere) accantonata. Girato sotto forma di commedia, è una pellicola delicata e toccante, sincera e preziosa, profonda eppure divertentissima, interpretata da un Michel Piccoli assolutamente straordinario e da un manipolo di attori tutti bravissimi, anche nei piccoli ruoli: su tutti il regista polacco Jerzy Stuhr, esilarante come 'portavoce' del pontefice.
Habemus Moretti. A prescindere.