mercoledì 26 settembre 2012

LA SCELTA GIUSTA

E' ufficiale: Cesare deve morire, il film di Paolo e Vittorio Taviani, vincitore dell'Orso d'oro a Berlino e di cinque David di Donatello, sarà il candidato italiano per l'Oscar 2012. La scelta non era facile, vista (per fortuna!) l'ultima felicissima stagione del nostro cinema, che annoverava concorrenti numerosi e di tutto rispetto: i Taviani l'hanno infatti spuntata, tra gli altri, su Reality di Garrone, Bella addormentata di Bellocchio, Diaz di Daniele Vicari. C'era davvero l'imbarazzo della scelta.

Scelta sofferta, dunque, ma a mio avviso ottima. Almeno sulla carta. Perchè Cesare deve morire è un film che ha tutte le carte in regola per piacere all'estero: perchè racconta una storia universale e quindi fruibile a tutti, perchè unisce cinema popolare e alta letteratura, perchè è un film emozionante, autoriale, elegante, raffinato ma non snob. Perchè è diretto da due autori già conosciuti al mondo e già molto premiati in passato. Perchè, soprattutto, ha già conquistato un palmarès internazionale e questo ha innegabilmente un peso.

Con questo non voglio dire che gli altri candidati non fossero meritevoli. Però Cesare deve morire era, a mio modestissimo parere, il film più adatto per competere per la statuetta. Era il nostro titolo più 'internazionale', il più vendibile, e la commissione ci ha visto giusto. Una volta tanto. Certo, a me sarebbe piaciuto vedere in gara Bella addormentata (il titolo italiano più bello dell'anno, almeno finora) ma abbiamo visto a Venezia che tratta un tema difficilmente 'esportabile'. Esattamente come Diaz, vicenda tristissima e sciaguratamente troppo 'italiana' per far breccia oltreoceano. Mentre Reality sconta probabilmente il fatto di non essere ancora uscito e di non aver acuto un riscontro di pubblico e gradimento

Auguri quindi ai Taviani. Come loro stessi hanno commentato, la strada sarà lunga e difficile. E sicuramente già in salita ancor prima di cominciare: il favorito d'obbligo, infatti, già esiste ed ha un nome e un cognome ben preciso, nella persona di Michael Haneke e del suo Amour, trionfatore a Cannes e in procinto di arrivare nelle nostre sale. Sarà difficile strappargli il premio, ma non è la prima volta che agli Oscar si entra papa e si esce cardinale... auguri, dunque, ai due 'toscanacci' ottuagenari che stanno rivivendo una stagione di grande spolvero: siamo con voi! 

sabato 22 settembre 2012

E' STATO IL FIGLIO / ACCIAIO / BELLAS MARIPOSAS

Tre film italiani, tre calci nel sedere ai disfattisti... E' un refrain macabro e ormai stantìo quello che ciclicamente annuncia la morte del cinema italiano, che poi guardacaso rinasce sempre dalle proprie ceneri come l'Araba Fenice. Viene il sospetto, quasi, che i primi nemici del cinema italiano siano proprio i critici, gli addetti ai lavori, tutti quelli cioè che col nostro cinema fanno lauti guadagni e poi sputano nel piatto in cui mangiano. Come spesso accade da noi.

Questo per dire che il caro vecchio cinema italiano, vituperato da tutto e tutti, in realtà offre molti segnali di risveglio e vitalità, più di quanti ne possiate immaginare. Ne sono la prova, ad esempio, questi tre film presentati a Venezia che, nel loro piccolo (nel senso di investimento produttivo), hanno fatto riflettere, pensare e divertire gli spettatori. E scusate se è poco.

'E' stato il figlio', di Daniele Ciprì
E' stato il figlio è il film che segna l'esordio di Daniele Ciprì come regista. Sepolti ormai i tempi (eroici) del sodalizio con Franco Maresco, questa opera prima del cineasta siciliano ha sorpreso un po' tutti per il formato surreale e grottesco con cui è stata realizzata: un uomo rozzo e ignorante seppellisce la propria figlia, uccisa a causa di una pallottola vagante. Neanche il tempo di asciugarsi le lacrime che una 'soffiata' gli fa balenare l'idea di chiedere i danni all'assicurazione. Esaltato dalla possibilità, l'uomo si dà alla bella vita, spendendo i soldi ancora prima di averli intascati. Ma ovviamente non sarà così semplice farsi rimborsare... Cronaca sarcastica e feroce dello squallore e la miseria della provincia italiana del Sud, con Servillo al solito gigantesco e con un manipolo di ottimi attori.

'Acciaio' di Stefano Mordini
Da  Venezia 69 è passato anche Acciaio, opera seconda di Stefano Mordini (che ci era piaciuto molto con il film d'esordio, Provincia meccanica). Tratto da un pessimo romanzo-bestseller della bolognese Silvia Avallone, il film di Mordini riesce (a differenza del libro) a dosare nel giusto modo l'aspetto'pruriginoso' (l'esistenza difficile delle due ragazzine protagoniste) e quello 'sociale' (il lavoro in acciaieria, le difficoltà della classe operaia), costruendo un buon film equilibrato e non ipocritamente morbosetto come il racconto della Avallone: ottime le prove delle due giovanissime protagoniste (Anna Bellezza e Matilde Giannini, debuttanti assolute), un po' meno quelle di Vittoria Puccini e Michele Riondino. Ma si sa, l'occhio vuole la sua parte, commercialmente parlando...

'Bellas mariposas' di Salvatore Mereu
Molto carino anche Bellas Mariposas, di Salvatore Mereu. Curiosamente, anche qui i ruoli principali sono affidati a due ragazze adolescenti (Sara Podda e Maya Mulas, le 'farfalle' del titolo, anche loro esordienti) che, sempre come in Acciaio, vivono non proprio nell'Empireo: la loro vita scorre infatti nei lugubri palazzoni popolari del rione Sant'Elia di Cagliari, in mezzo a piccoli e grandi problemi.  Mereu porta sullo schermo una storia tanto incredibile, assurda, sconcertante, quanto realmente accaduta al 100% : la storia di una ragazzina più grande della sua età che deve difendere il suo fidanzatino dall'ira del fratello geloso che vuole farlo fuori. Fisicamente, intendo. E si fa sul serio. Meno male però che il film la butta sul lato grottesco e comico della vicenda, facendoci fare molte risate, pur se a denti stretti...

giovedì 20 settembre 2012

OUTRAGE BEYOND

(id.)
di Takeshi Kitano (Giappone, 2012)
con Beat Takeshi (Takeshi Kitano), Ryo Kase, Toshiyuki Nishida, Shun Sugata, Tomokazu Miura
VOTO: **


Solo per appassionati.
Basterebbero queste tre parole per recensire Outrage Beyond, ed è già quindi una delusione enorme per chi ama Takeshi Kitano da semplice cinefilo e non da 'ultras' del prolifico regista giapponese. Questo perchè Kitano è uno dei pochissimi cineasti 'di culto' ormai rimasti sulla breccia, e i suoi numerosissimi estimatori lo apprezzano ancora incondizionatamente... a prescindere dai risultati! Basti pensare che a Venezia gli applausi sono partiti già dai titoli di testa! 

Si trattava però, ovviamente, di applausi di affetto e stima da parte di una platea di appassionati che, dal loro punto di vista, erano pienamente giustificati: nel senso che questo Outrage Beyond (sequel del precedente Outrage, che inizia esattamente dove finiva l'altro) è una pellicola esclusivamente di genere dove si ritrovano tutti (ma proprio tutti!) i clichè ai quali ci ha abituato il suo autore in tanti anni di carriera. In pratica, un film dove chi conosce Kitano vi ritrova esattamente quello che si aspetta, a partire dalle prime inquadrature. E perciò non può che restarne soddisfatto.

Il problema è che per il pubblico 'neutrale' un film del genere appare terribilmente scontato: tutto è già visto, perfino la struttura stessa della storia, fatta della consueta prima parte verbosa e anche un po' noiosetta, alla quale segue l'ultima mezz'ora fatta di sparatorie, sangue, violenza e un numero imprecisato di morti ammazzati che preludono, inevitabilmente, alla catarsi finale. Kitano si riserva, al solito, anche il ruolo di protagonista (ribattezzandosi come sempre 'Beat' Takeshi) e divertendosi a rubare la scena agli altri attori. Ma è del tutto inutile aspettarsi un guizzo di genialità e qualche virtuosismo cinefilo come nei suoi capolavori - quelli sì! - del passato: qui al massimo si fa qualche risata (il film è oggettivamente divertente) destinata però a perdersi subito nel dimenticatoio, non appena si riaccendono le luci in sala...

C'è da chiedersi semmai che cosa abbia spinto Alberto Barbera a scegliere questo film per il concorso veneziano, dal momento che un film del genere di sicuro appare più adatto a una platea da blockbuster piuttosto che una d'essai: il sospetto è che il neo-direttore della rassegna abbia selezionato, come si dice, 'a scatola chiusa' un certo numero di titoli di autori importanti senza neppure averli visti in anteprima ma basandosi solo sul palmarès passato dei loro autori: sfortuna ha voluto che quest'anno lo stesso Kitano, ma anche Malick, Anderson e De Palma (tanto per fare dei nomi) hanno portato tutte opere ben al di sotto del loro standard... e la qualità del Concorso ne ha chiaramente risentito. Morale della favola: nessun regista deve essere amato o odiato a prescindere, indipendentemente dalla sua 'gloria' passata. Regola generale, vale per tutti.

SUPERSTAR

(id.)
di Xavier Giannoli (Francia, 2012)
con Kad Merad, Cécile de France
VOTO: **



Un uomo qualunque una mattina si ritrova improvvisamente famoso, senza alcun motivo e all'insaputa di tutti (lui compreso). Il suo calvario inizia durante il viaggio in metropolitana per andare a lavoro: i passeggeri lo riconoscono, lo abbracciano, lo fotografano, vogliono l'autografo. Il tizio, ovviamente in preda al panico, fugge a gambe levate da quello che sembra a tutti gli effetti un incubo, ma ormai tutto il mondo lo insegue e nel giro di poche ore eccolo, ancora attonito, ospite d'onore nel talk-show più famoso della televisione...

Lo so cosa state pensando, d'altronde è impossibile non tenerne conto: questa storia l'abbiamo già sentita non più di qualche mese fa... e infatti, per un incredibile scherzo del destino, Superstar ha praticamente lo stesso identico antefatto dell'episodio che ha come protagonista Roberto Benigni in To Rome with love: si tratta ovviamente di una coincidenza, in quanto il regista Xavier Giannoli aveva iniziato a lavorare a questa pellicola addirittura nel 2009, quindi ben prima che Woody Allen girasse il suo film, ma certo la somiglianza tra i due lavori è impressionante. Anche se, è bene dirlo subito, nessuno dei due ci fa gran bella figura.

Se infatti ci erano cascate le braccia nel vedere un grande attore come Benigni sotto-utilizzato nel mediocre episodio alleniano, va detto che nemmeno Superstar può considerarsi un film riuscito, per un motivo molto semplice: in pratica, dopo l'incipit che vi ho appena raccontato (corrispondente più o meno a una ventina di minuti di pellicola) la sceneggiatura s'insabbia subito, non sapendo più dove andare a parare e trascinandosi stancamente per un'altra oretta senza più alcun guizzo: il messaggio del film infatti è scontato (nella società di oggi, ormai senza nè miti nè ideali, la 'normalità' è la caratteristica più sconvolgente dell'essere umano)  e purtroppo lo anche la trama, telefonatissima fino alla fine.

Peccato, perchè messa in mano ad una mente un po' più brillante questa storia poteva avere ben altri risvolti: stiamo pensando, ad esempio, a cosa avrebbe potuto farne uno come Matteo Garrone, che tra poco (guardacaso) sarà nelle nostre sale con il suo Reality, atroce e corrosiva presa in giro dello star-system mediatico, dalla quale ovviamente ci attendiamo tantissimo. Per Superstar, invece, credo che nessuno sprecherà molto inchiostro, andando ad arricchire l'infinito elenco delle occasioni perdute.

domenica 16 settembre 2012

BELLA ADDORMENTATA

(id.)
di Marco Bellocchio (Italia, 2012)
con Toni Servillo, Alba Rohrwacher, Michele Riondino, Fabrizio Falco, Roberto Herlitzka, Isabelle Huppert, Gianmarco Tognazzi, Piergiorgio Bellocchio, Maya Sansa
VOTO: *****/5

Furono tre giorni che sconvolsero l'Italia quelli che precedettero la morte di Eluana Englaro, avvenuta il 9 febbraio del 2009 in una clinica di Udine. In quei giorni, mentre Eluana moriva per l'interruzione dell'alimentazione concordata dal padre con i medici che la assistevano, il nostro paese si spaccò in due in maniera feroce tra coloro che giustificavano la mossa estrema del genitore e quelli che, invece, si battevano per il diritto alla vita a ogni costo. Il Governo di allora, presieduto da Silvio Berlusconi, tentò in ogni modo e con tutte le strade percorribili (compreso un disegno di legge da approvarsi in tempi strettissimi, con una maratona parlamentare mai vista prima) di impedire la morte della ragazza.

Bella addormentata, l'ultimo film di Marco Bellocchio, non è la biografia di Eluana Englaro ma descrive attraverso quattro storie collegate tra loro il clima  che si respirava in quei giorni: il dramma di Eluana resta sullo sfondo, anche se pur sempre in evidenza (i filmati di repertorio - telegiornali, trasmissioni televisive, dibattiti - sono rigorosamente autentici). A Bellocchio interessava non tanto fare un resoconto dettagliato del calvario della giovane donna, quanto descrivere l'accanimento (prima terapeutico, poi mediatico) con cui una nazione intera entrava a gamba tesa nella vicenda strettamente intima e personale di un padre e una figlia. Lo stesso regista, in un'intervista, ha dichiarato di essere rimasto colpito dal fatto che in certi giorni solo pochissime persone erano fisicamente sotto la clinica a pregare per Eluana, mentre sui media si scatenava l'inferno... a conferma che viviamo in un'epoca dove ogni questione è regolamentata dal 'giudizio' dell'Auditel.

In questo clima, il senatore Uliano Beffardi (Toni Servillo) è in viaggio per Roma dove dovrà votare l'adesione o meno al decreto contro la morte assistita. Lui è uno dei tanti ex-socialisti passati in buona fede sotto il Popolo della Libertà, ma non se la sente di votare a favore di una legge che contrasta fortemente contro i suoi princìpi morali, anche a costo di rimetterci la carriera politica. Nelle stesse ore, sua figlia Maria (Alba Rohrwacher), miltante del Movimento per la Vita, si reca a Udine per manifestare e rivendicare il Diritto di Vivere, a ogni costo. Molti chilometri più in là, in una lussuosa villa al riparo da ogni confusione, un'attrice famosa (Isabelle Huppert) rinuncia a tutto (denaro, fama, carriera) per assistere la figlia in coma irreversibile in seguito a un incidente (proprio come Eluana).

Proprio da quest'ultima vicenda traspare più forte il tema del film, che non è tanto il dibattito pro o contro l'eutanasia, quanto se sia giusto relegare in disparte, escludere tutti coloro che stanno intorno a una famiglia, in nome dell'amore assoluto verso una persona. Sì, perchè Bella addormentata è senza ombra di dubbio un film che parla di amore estremo: quello di un genitore (come Beppe Englaro) che mette da parte tutto, anche gli affetti familiari  (nel film la Huppert trascura il marito e il figlio più piccolo) per dedicarsi esclusivamente ad una persona che, probabilmente, nemmeno se ne accorge.

Il film di Bellocchio è grande perchè, pur lasciando trasparire in modo evidente l'opinione personale del regista, lascia allo spettatore assoluta libertà di giudizio. E così il film che secondo alcuni pseudo-critici e pseudo-politici sarebbe servito solo a rinfocolare vecchie polemiche mai sopite e nuove divisioni, è in realtà commovente per onestà, delicatezza e sobrietà dei toni. E' un film immenso, che non vi chiede nè di giudicare nè di prendere posizione, ma semplicemente di riflettere. E vi fa capire che su temi come questo è pressochè impossibile (anche per Bellocchio) avere opinioni nette e ideologiche. E nessun film e nessuna legge, questo vuole dirci il regista, sarà MAI in grado di rispondere esaurientemente alla Grande Domanda, vale a dire 'E' GIUSTO ?'

Ho detto in apertura che il film si compone di quattro storie, ma ve ne ho raccontate solo tre. Non a caso. Ho voluto lasciare per ultima la quarta storia, quella che apparentemente è la più scollegata dalle altre: racconta di una ragazza tossicodipendente (Maya Sansa) che tenta ripetutamente il suicidio, e per questo entra ed esce continuamente dall'ospedale dove un giovane medico (Piergiorgio Bellocchio) cerca di salvarla ad ogni costo.  Ecco, in questa storia c'è forse il simbolo più estremo  del pensiero bellocchiano, che riassume tutto quanto detto finora: che cosa rappresenta la testardaggine del dottore a voler salvare ad ogni costo una persona che non vuole saperne di vivere? Si tratta di deontologia professionale, compassione, accanimento terapeutico, o forse... semplicemente Amore?
La risposta, probabilmente, è nell'ultima (straordinaria) sequenza del film. Che non vi rivelerò nemmeno sotto tortura.

mercoledì 12 settembre 2012

FILL THE VOID

(Lemale et ha'halal)
di Rama Burshtein (Israele, 2012)
con Hila Feldman, Razia Israeli, Yiftach Klein, Renana Raz
VOTO ****



Quando a un festival importante come Venezia viene presentata in concorso un'opera prima bella come Fill the Void viene quasi da gridare al miracolo, specie in un'edizione dove le 'grandi firme' (Malick, Anderson, Kitano, DePalma) non hanno certo brillato. Eppure, davvero, non c'è niente di miracoloso in questo piccolo film israeliano che ci descrive una storia di ordinaria ingiustizia all'interno della comunità ortodossa di Tel Aviv: Sharin, ragazza diciottenne, fidanzata e promessa sposa ad un suo coetaneo, viene per così dire 'spinta' dalla propria famiglia a lasciare il compagno per sposarsi con il marito vedovo della sorella, morta di parto poco tempo prima, al solo scopo di crescere il neonato.

Bene, direte. Dove sta la novità? Ci sono decine di film che hanno raccontato in tutte le salse, sia in chiave comica che drammatica, storie di matrimoni combinati più o meno infelici. E allora che cos'ha di bello di Fill the Void? Semplice, è una pellicola che evita intelligentemente di dilungarsi troppo sul melodramma, per descrivere invece molto bene le dinamiche quasi 'tribali' e gli usi e costumi vessatori e quasi 'primitivi' della comunità di Sharin, inimmaginabili agli occhi del mondo in relazione ad un paese tutto sommato occidentale e moderno come Israele.

Fill the Void (che, per inciso, ha come voce narrante un membro effettivo della comunità) descrive in maniera perfetta i riti solenni e arcaici della comunità, non prendendo posizione ma esaltando efficacemente il contrasto tra una realtà molto viva e politicamente ben schierata, eppure così tremendamente ignorante in ambito culturale. La scommessa (vinta) dell'esordiente Rama Burshtein è stata quella di osservare e riferire allo spettatore quanto visto, seguendo uno stile rigoroso ed equidistante e lasciandolo libero di giudicare senza condizionamenti.

Girato tutto in interni, come un intenso melodramma da camera, questo film d'esordio della Burshtein ha il merito di fotografare concretamente la dimensione sociale ed umana della giovane protagonista e di tutta la struttura familiare (sia la propria che quella della nazione i  generale). Lo fa con un taglio deciso ma mai eccessivo, che vale come monito nei confronti del mondo intero.
Il film (questo sì che è un mircolo!) è stato acquistato dalla nostra benemerita Lucky Red e probabilmente in autunno sarà distribuito in sala. E vi consiglio di andarci, possibilmente sgombri da pregiudizi anti-americani e con la voglia di accostarVi a un prodotto tutto sommato ben diretto e socialmente utilissimo. Non ve ne pentirete.

martedì 11 settembre 2012

L'INTERVALLO

(id.)
di Leonardo di Costanzo (Italia, 2012)
con Alessio Gallo, Francesca Riso, Salvatore Ruocco, Carmine Paternoster
VOTO: ***

Un Romeo e Giulietta nei quartieri difficili di Napoli, visto con gli occhi di chi è abituato a convivere ogni giorno con la delinquenza e il degrado. Con toni poco romanzeschi e stringente realismo, Leonardo di Costanzo racconta una storia semplice e drammatica, di (quasi) amore e ingiustizia tra due adolescenti tanto diversi caratterialmente quanto accomunati da un destino difficile, di convivenza e ribellione verso un mondo che li fa crescere pericolosamente troppo in fretta.

Si può dire che L'intervallo è un un film di interni in quanto è girato tutto in un unico luogo, l'ex ospedale psichiatrico della città partenopea, dove un giovane scugnizzo che ha lasciato troppo presto la scuola (e che sbarca il lunario vendendo granite) viene incaricato dal boss mafioso locale di 'sorvegliare' una ragazzina coetanea che ha 'osato' contravvenire ai suoi ordini, fidanzandosi con un ragazzo della famiglia rivale. Per punizione la fanciulla è stata rinchiusa a tempo indeterminato nell'edificio in rovina, destinata a rimanerci fino a che non tornerà sulla sua decisione.

La ragazza, ribelle e per niente rassegnata ad accettare il futuro già scritto dalla camorra, dapprima si scontra col carattere mite e ingenuo del suo improvvisato 'carceriere', deridendolo e disprezzandolo per la sua goffaggine. L'altro dal canto suo non vuole saperne di metterla a suo agio, preoccupandosi solo di riavere il suo carretto, unico strumento di lavoro e di reddito, preso in ostaggio dai delinquenti. Ma la giornata è lunga, e piano piano la convivenza forzata tra queste due anime candide e dannate nello stesso momento, si rivelerà utile per accettarsi, capirsi e condividere la squallida esistenza a cui sono stati entrambe condannate. E forse, alla fine della reclusione (dove la ragazza accetterà di piegarsi alla volontà del boss, lasciando il fidanzato-rivale) ognuno farà forza all'altro, e insieme (forse) troveranno il coraggio di sfuggire al proprio destino.

L'intervallo è un piccolo film di grandi attori (straordinari i due giovani interpreti, Alessio Gallo e Francesca Riso, entrambi debuttanti) che ha il merito di mostrarci con toni  leggeri e delicati quanto sia difficile oggi, per chi abita in certe zone del nostro paese, solo poter 'pensare' di vivere un'esistenza normale. Lo fa con ironia, delicatezza, rispetto, non mancando tuttavia di farci percepire con mano cosa significhi vivere in posti impregnati di 'cultura' mafiosa fino al midollo, e del coraggio necessario per tirarsi fuori. Una pellicola che non avrebbe certo sfigurato in un Concorso ufficiale quest'anno abbastanza deludente, magari al posto della Comencini di turno... Anche se, diciamola tutta, per film come questo la vera vittoria non sono i premi dei festival quanto la possibilità di essere visti da qualcuno.
E allora.. correte a vederlo!

lunedì 10 settembre 2012

PIETA'

(Pieta)
di Kim Ki-Duk (Corea del Sud, 2012)
con Lee Jeong-Jin, Jo Min-Soo
VOTO: ****

Un giovane strozzino vaga per i bassifondi di Seul spezzando gambe e braccia a chi non è in grado di pagare i debiti, in modo da intascare i soldi dell'assicurazione. Un giorno una donna bussa alla porta del suo appartamento, affermando di essere sua madre. Lui prima la respinge brutalmente, ma la donna non demorde fino a quando non riesce a farsi accettare dal presunto figlio. Che, da quel momento, decide di abbandonare la sua crudele attività per cercare di condurre una vita normale. Ma un giorno la donna scompare (rapimento?) gettandolo di nuovo nello sconforto. Intanto, fuori, le vittime orribilmente mutilate cadono nella disperazione e nell'indigenza, desiderose solo di vendetta.

Il diciottesimo lungometraggio di Kim Ki-Duk è una discesa agli inferi, un feroce atto di accusa contro il capitalismo e i grandi imperi finanziari, che gettano nella disperazione milioni di poveracci disposti a tutto pur di cercare di proseguire le proprie attività, diventate improvvisamente non concorrenziali con l'arrivo delle enormi multinazionali che controllano ogni settore manifatturiero.
Il regista mette in scena la storia disperata di un uomo che ignora cosa siano il perdono, l'umanità, la felicità. L'unico benessere, quello fisico, lo trova solo con la masturbazione, dimenandosi nel proprio letto. Il resto della sua vita è fatto di orrende violenze, lacrime, sangue, macabri pasti e penosi silenzi.

L'ultima opera di Kim Ki-Duk si chiama Pieta: il titolo originale è proprio in italiano (senza l'accento), e si rifà espressamente all'opera di Michelangelo, vale a dire una madre che tiene in braccio un figlio che non è più suo, malgrado lo abbia partorito. E il protagonista del film è, analogamente, un'anima dannata privata da sempre dell'abbraccio materno e condannata all'infelicità. La macchina da presa segue da vicino la sua brutale quotidianità, non risparmiandoci nulla delle atroci sofferenze che infierisce alle malcapitate vittime, nè dei suoi miseri e goffi tentativi di recuperare una 'verginità' affettiva nei confronti della misteriosa donna che gli ha cambiato la vita. Anche se, naturalmente, la situazione è molto più dolorosa di quello che lui s'immagina.

Opera durissima, sgradevole, violenta, dolorosa per gli occhi e per il cuore. Una delle più estreme per il regista, tornato a dirigere film dopo un lungo periodo di malattia e depressione. La visione non è una passeggiata, e per questo NON lo consigliamo a tutti. Ma se qualcuno vuole ammirare momenti di grande cinema e sequenze di inaudita commozione, questo 69. Leone d'Oro veneziano è un ottimo modo per gustarsi un film d'autore. L'importante è sapere a cosa si va incontro.

domenica 9 settembre 2012

VENEZIA 69 : LEONE D'ORO A KIM-KI-DUK, VITTORIA ANNUNCIATA

Il cuore diceva Marco Bellocchio, ma la ragione ha premiato Kim-Ki-Duk. Il verdetto della 69. Mostra del Cinema è questo e dobbiamo accettarlo, anche perchè non è affatto scandaloso: certo, tutti speravamo nella vittoria di Bella Addormentata (per quanto ci riguarda, uno dei titoli italiani più belli degli ultimi anni) ma si era capito fin da subito che una giuria molto eterogenea e molto internazionale (con un unico italiano al suo interno, Matteo Garrone) difficilmente avrebbe premiato un film narrante una vicenda tutta italiana e difficilmente esportabile all'estero, dove temi come quello dell'eutanasia sono, per fortuna, ampiamente superati e accettati a differenza che nel nostro strano paese...

E allora ecco che il Leone d'Oro a Pieta (si scrive proprio così, senza accento) premia degnamente un film meritevole e che già dal primo momento aveva catturato le simpatie dei presenti al Lido: il diciottesimo lungometraggio del cineasta coreano è una pellicola durissima e violenta contro lo strapotere delle multinazionali e del capitalismo selvaggio che miete vittime tra i ceti più poveri, costretti a subire vili ricatti da chi ha il coltello (cioè i soldi) dalla parte del manico. Pieta è un film sgradevole ed efferato che però contiene momenti di grande cinema e una tensione che resta ai massimi livelli per tutta la sua durata. La visione non è una passeggiata, ma vale il prezzo del biglietto.

Sono invece molto più perplesso sui (ben) due premi assegnati a The Master: era il film più atteso al Lido e, va detto, oggettivamente ha un po' deluso, forse proprio per le esagerate aspettative che venivano riposte in questo nuovo lavoro di Paul Thomas Anderson. E se la Coppa Volpi ex-aequo ai due bravissimi protagonisti Philip Seymour Hoffmann e Joaquin Phoenix ci può anche stare, il premio alla miglior regia ci sembra un po' eccessivo per un prodotto certamente non brutto ma abbastanza convenzionale e al di sotto sotto degli stessi standard del suo regista. Decisamente inferiore, tanto per essere chiari, non solo a Magnolia ma anche a Il petroliere. Ma forse qui entrano in ballo mille ragioni (economiche, politiche, aziendali) che 'imponevano' il premio a un film americano, forse anche per respingere gli 'assalti' sempre più pressanti del minaccioso Festival di Toronto, in pieno svolgimento in questi giorni.

Hadas Yaron, miglior attrice
Detto poi del premio alla miglior attrice, andato alla carinissima e alquanto spaesata Hadas Yaron (interprete dell'israeliano Fill the Void), e di quello della giuria assegnato all'austriaco Paradies: Glaube di Ulrich Seidl, non resta che parlare dei delusi. Che sono tanti, a cominciare per l'appunto da Marco Bellocchio. Che, diciamolo subito e con chiarezza, per noi è il Leone d'Oro morale della rassegna. Il suo Bella Addormentata sfiora i cieli del capolavoro per delicatezza, rigore morale, rispetto verso il prossimo. Secondo i soliti (mal)pensanti avrebbe dovuto dividere e rinfocalare polemiche mai del tutto sopite in Italia, invece è una straordinaria riflessione sull'Amore e sulla vita stessa, valori spesso così 'assoluti' e totalizzanti che spingono a rifiutare tutto quanto sta 'fuori' e intorno a noi stessi.

Michael Mann
Altro grande deluso è il francese Olivier Assayas, autore di un bel film post-sessantottino, Après Mai, che era piaciuto molto alla platea della critica e veniva dato tra i favoriti. Si è dovuto accontentare dell'osella per la miglior sceneggiatura. Nessun riconoscimento nemmeno al graditissimo film filippino Thy Womb di Brillante Mendoza (altro autore molto premiato ai festival) nè al russo Izmena, che pure erano molto piaciuti. Ma, come ha ripetuto ieri sera il presidente di giuria Michael Mann (inflessibile e duro nel non far trapelare alcun 'rumors' sui premi, in linea col suo personaggio) "ci sarebbero voluti diciotto Leoni d'Oro per accontentare tutti". Si accontenta ben volentieri invece il nostro Daniele Ciprì, premiato per la miglior fotografia di E' stato il figlio. 

Mancano all'appello, come si vede, i grandi nomi. Che hanno deluso tutti, come una sciagurata ecatombe abbattutasi sul Lido: ha deluso Terrence Malick, con un film irritante per supponenza e autoreferenzialità. Ha deluso Takeshi Kitano, ormai (purtroppo) ridotto a caricatura di se stesso. Hanno deluso gli americani Brian De Palma e Harmony Korine, la vecchia e nuova dinastia del cinema americano. Questo per dire che, come spesso accade nel calcio, non sempre avere una 'bella squadra' garantisce al 100% un buon risultato.

Philip Seymour Hoffman, premiato per 'The Master'
Una Mostra, insomma, dal Concorso debole e che non ha saputo resistere alla dilagante crisi economica. Mai come quest'anno infatti si sono viste così poche persone al Lido: sale semivuote, nessuna fila alle biglietterie, 'red carpet' quasi dimenticato dalla gente (salvo che per le attrici in bikini di Spring Breakers). E allora, puntualmente, ecco che si torna a chiedere se la vittoria di film come Pieta faccia bene o male alla rassegna veneziana: il lavoro di Kim-Ki-Duk sarà probabilmente vietato ai minori di 14 anni e disertato in massa dal grande pubblico. E' giusto più premiare, dunque, film di registi 'di nicchia' ma difficilmente 'esportabili', piuttosto che 'commerciali' di qualità come Bella Addormentata? E' come il classico quesito se sia nato prima l'uovo o la gallina... e francamente non ci appassiona.
Arrivederci al prossimo anno!

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sabato 1 settembre 2012

SOLARIS SI SPOSTA AL LIDO...

Ebbene sì... malgrado i mille e passa motivi che avrei per NON andare (prezzi esosi, organizzazione approssimativa, strutture obsolete, notti insonni e sveglie di pessima ora...) anche per quest'anno Solaris sarà a Venezia! La passione è passione e, malgrado tutto quanto detto prima, il 'richiamo del Lido' è ancora forte.
Non starò a farvi alcun articolo di presentazione: i titoli dei film in concorso e non sono arcinoti e potete trovarli su qualsiasi giornale e qualunque sito di cinema.

Io vi prometto solo che recensirò ogni film visto e che, se avrete la pazienza e la costanza di seguirmi, troverete presto su queste pagine i resoconti (anche se non in 'tempo reale'... ci ho provato l'anno scorso, ma è davvero troppo faticoso, diventa veramente un lavoro!).

Se poi tra i miei affettuosi 'followers' c'è qualcuno che passerà anche lui da Venezia... beh, allora fatemi sapere! Scrivetemi qui sopra e magari ci incontreremo: non c'è niente di più bello che 'condividere' esperienze cinefile.
Vi aspetto!