mercoledì 27 febbraio 2013

L'OSCAR CHE NON TI ASPETTI...

Grant Heslov,  Ben Affleck (anche regista) e  George Clooney, produttori di Argo, miglior film dell'anno

Di questi tempi la battuta è fin troppo facile, ma certo è proprio vero che agli Oscar a volte si entra Papa e si esce cardinale... lo sa bene Steven Spielberg, dato per favoritissimo alla vigilia e poi ritrovatosi con un pugno di mosche in mano. Eppure il suo Lincoln, apparentemente, aveva tutte le carte in regola per trionfare: che cosa poteva fare più presa sull'Academy se non la biografia dell'unico vero Eroe Nazionale americano, ovvero il Presidente che riunificò il paese e abolì la schiavitù, pagando con la propria vita? Sappiamo bene che non esiste un paese più nazionalista degli Stati Uniti, e sappiamo altrettanto bene quanto l'America attuale abbia un disperato bisogno di figure di riferimento.

Ang Lee, miglior regista per Vita di Pi
E allora che cosa non ha funzionato stavolta per il regista di Cincinnati, che era già pronto ad alzarsi dalla sedia e arpionare la terza statuetta della sua carriera, la quale lo avrebbe avvicinato nientemeno che al grande John Ford? Beh, la prima risposta è anche la più ovvia: Lincoln non è assolutamente un bel film, aldilà del grande successo ottenuto in patria. E' una pellicola noiosissima, interminabile, senz'anima, che il pubblico ha premiato per puro spirito patriottico. Spielberg ha cercato di non cadere nel tranello della retorica e dell'agiografia del personaggio, ma ha esagerato nel volare basso: la pellicola non emoziona mai, non coinvolge, oltre a perdersi in estenuanti disquisizioni sulle logiche di potere della politica. L'Academy ha punito Spielberg esattamente come fece nel 1985 con Il colore viola (altro film sbagliato, verboso e prolisso), quasi come un avvertimento a lasciar perdere la storia e tornare a fare quello che sa(peva) fare...

Ma è chiaro che non può bastare solo questo a spiegare la clamorosa sconfitta di Lincoln. E' evidente che l'Academy ha voluto (finalmente!) inviare un messaggio forte alla 'nuova' Hollywood: il premio come miglior film a Argo suona quasi come riparatorio nei confronti del bravo e sottovalutato Ben Affleck, e può essere considerato come un'apertura di credito non indifferente alle nuove generazioni. E i quattro Oscar vinti da Vita di Pi, pellicola fresca e vitale, di forte presa sul pubblico giovane, nonchè la statuetta come miglior attrice alla ventiduenne Jennifer Lawrence (altra grande sorpresa) sembrano stare lì a dimostrarlo: Hollywood sta cambiando, cercando di rinnovarsi e sforzandosi anche di allargare lo sguardo a quello che c'è fuori (il premio ad Amour e il trionfo di The Artist dell'anno scorso lo confermano) e di questo non possiamo che esserne felici!

Jennifer Lawrence, miglior attrice
Vince Argo, dunque, stabilendo subito un record: non succedeva dal 1932 che un film neppure candidato per la miglior regia vincesse il premio più importante, e questo ci fa pensare a quanto debbano essere fischiate le orecchie ai settemila giurati dell'Academy dopo l'annuncio delle nominations... mentre, infatti, loro estromettevano senza pietà (e con imperdonabile leggerezza) il povero Ben Affleck dalla categoria dei migliori registi dell'anno, ecco che nello stesso momento Argo (e naturalmente anche Affleck) incominciavano a vincere un po' tutti i premi cinematografici in giro per il mondo e che fanno da apripista agli Oscar stessi: dai Golden Globes, ai BAFTA, fino alla stragrande maggioranza dei premi della critica... insomma, per usare un francesismo, si sono accorti di aver fatto una grandissima cazzata e hanno cercato precipitosamente di rimediare! Argo alla fine ha vinto tre Oscar, tutto sommato meritati: quelli per il miglior film, la miglior sceneggiatura e il miglior montaggio, ma soprattutto potrebbe aver aperto la strada a scelte (finalmente!) più coraggiose e meno prevedibili da parte dell'Academy. Staremo a vedere.

In questo senso, di conseguenza, vanno letti anche i premi a Quentin Tarantino e Christoph Waltz, rispettivamente per la miglior sceneggiatura non originale e il miglior attore non protagonista. Un parziale, doveroso e comunque insufficiente riconoscimento tardivo a un film straordinario come Django Unchained, snobbatissimo alla vigilia e poi repentinamente glorificato sull'onda dell'entusiasmo popolare. Per entrambi è il secondo Oscar, che legittima la professionalità, l'estro e la bravura di questi due personaggi così 'alieni' dalle logiche hollywoodiane eppure capaci di farsi apprezzare a tutte le latitudini e da legioni di cinefili entusiasti. Una forza di cui l'Academy si accorge solo adesso. Per Tarantino, poi, è anche il secondo Oscar come sceneggiatore (aveva già vinto nel 1994 per lo script di Pulp Fiction) a testimonianza di come, aldilà dei gusti personali, sia impossibile non riconoscergli l'assoluta genialità dei dialoghi e delle sue storie.

Daniel Day-Lewis, unico oscar per Lincoln
Chi nella storia invece c'è entrato a tutti gli effetti (in quella degli Oscar e, soprattutto, in quella del cinema) è stato Daniel Day-Lewis, primo attore-maschio a conquistare la terza statuetta come miglior protagonista (meglio di lui ha fatto solo Katherine Hepburn, ma nell'arco di quasi cinquant'anni!). Lasciateci dire però che l'Oscar vinto per Lincoln ha il sapore più di riconoscimento 'alla carriera' piuttosto che per effettivi meriti artistici: sepolto sotto chili di trucco, e costretto a recitare sempre enfaticamente sopra le righe (anche nell'intimità con la moglie), a nostro avviso la sua performance nel film di Spieberg è tutt'altro che da ricordare. Ma di premi di questo tipo la storia dell'Academy Award è piena, ci può stare. E comunque in passato è successo ben di peggio...

Un altro premio a sorpresa, che ha fatto storcere il naso a molti ma che invece, personalmente, ci ha riempito di soddisfazione, è indubbiamente l'Oscar per la regia ad Ang Lee (per lui addirittura il terzo, dopo quelli per I segreti di Brokeback Mountain e La Tigre e il Dragone). Siamo contenti perchè Vita di Pi è un bellissimo film, molto sottovalutato dalla critica ed erroneamente scambiato dal pubblico come una semplice storia avventurosa per ragazzi. Invece è una pellicola profonda, magica, che ci riporta per spettacolarità e temi a quel cinema bigger-than-life molto di moda negli anni '70 (da Un mercoledì da leoni in poi) e di cui si erano pressochè perse le tracce. Questo è il grande merito di Ang Lee, regista eclettico e disposto a mettersi sempre in gioco, capace di spaziare senza la minima difficoltà tra generi e produzioni assolutamente diversi e senza mai essere banale. Merita applausi.

Daniel Day-Lewis, Jennifer Lawrence, Anne Hathaway e Chris Waltz
Così come merita applausi, malgrado l'insuccesso, la bravissima Jessica Chastain. Lo diciamo senza problemi: l'Oscar a Jennifer Lawrence per Silver Linings Playbook, malgrado tutta la stima che nutriamo per quest'attrice, ci sembra un tantino esagerato, specie se paragonato con la mostruosa prestazione della sua rivale. La Chastain in Zero Dark Thirty dà vita a uno dei ruoli femminili più belli e toccanti che ci sia mai capitato di vedere in tempi recenti. Purtroppo per lei però il film (anch'esso stupendo) di Katherin Bigelow era troppo 'scomodo' e troppo politicamente scorretto per sperare nella vittoria. Respinto dal pubblico perchè poco patriottico, ripudiato dalla critica americana, non poteva avere molta fortuna in sede di Oscar. Tuttavia bisogna dire che la vittoria della giovanissima Jennifer fa cadere un altro degli 'storici' dogmi dell'Academy: quello dell'assoluta preponderanza dei ruoli drammatici rispetto a quelli brillanti. La Lawrence comunque non sfigura affatto in una commedia (forse) convenzionale, ma assolutamente ben girata e con tutti gli ingredienti al loro posto. Uno di quei film che magari non consideri un capolavoro, ma che ti metti rivedere ogni volta che passa in tv... da noi esce il 7 marzo prossimo. Ci direte.

Quentin Tarantino, secondo oscar in carriera
Che dire ancora? Due parole sugli unici premi che hanno rispettato i pronostici della vigilia, vale a dire quello a Anne Hathaway per Les Misérablés come migliore attrice non protagonista (solo diciotto minuti di presenza effettiva in un filmone di oltre due ore e mezza - è proprio vero che non esistono piccoli ruoli, ma solo piccoli attori) e quello come miglior film straniero ad Amour di Michael Haneke, anche lui finalmente premiato dopo vari tentativi andati a vuoto. Peccato invece per la sconfitta di Frankenweenie tra i cartoni (ma qui era difficile battere la corazzata Pixar con The Brave). Sempre emozionante, invece, la performance della brava Adele che ha stravinto con Skyfall il premio per la miglior canzone originale.
Appuntamento al prossimo anno!

mercoledì 20 febbraio 2013

ASPETTANDO L'OSCAR, FATE IL VOSTRO GIOCO...

Il 24 febbraio in Italia sarà tempo di elezioni, e di sicuro non saranno in molti coloro che butteranno l'occhio, a notte fonda, su un altro scrutinio che si svolge ormai ininterrottamente da 85 anni dalle parti di Hollywood...   sì, in America è tempo di Oscar e lì proprio non interessano a nessuno le nostre piccole beghe! Scherzi a parte, eccoci qua puntuali come ogni anno a cimentarci nel solito giochino dei pronostici, e saremmo lieti se anche qualcuno tra voi lettori volesse dire la sua in proposito, giusto per dare un po' di pepe all'attesa! Cominciamo dunque ad analizzare 'scentificamente', come di consueto, le categorie più importanti e a fare le dovute considerazioni. Poi tra pochissimi giorni vedremo chi sarà stato buon profeta... i giochi sono aperti!


MIGLIOR FILM
L'America è una nazione in crisi che ha un disperato bisogno di eroi. E chi potrebbe essere più eroe di Abramo Lincoln, il presidente che abolì la schiavitù, riunificò il paese e lo condusse verso il benessere? Per gli americani Lincoln è una figura quasi mitologica, intoccabile, venerata da almeno trecento milioni di persone. Per questo Lincoln è il favorito numero uno di quest'anno: l'Academy ha (finalmente) un eroe da celebrare, e il suo cerimoniere si chiama Steven Spielberg, non uno qualsiasi. Il film agli occhi di noi europei è noiosetto, prolisso e poco avvincente, ma vallo a dire a loro... L'unico rivale accreditato risponde al nome di Argo, già vincitore del Golden Globe e diretto da quel Ben Affleck che, se non fosse bello, giovane, prestante e palestrato, magari qualcuno a Hollywood potrebbe anche prendere sul serio. Affleck, a dispetto della nomea di sex-symbol che lo accompagna da anni, ha dimostrato di essere molto più bravo dietro la macchina da presa piuttosto che davanti. Peccato che per l'Academy sia ancora un oggetto misterioso... non a caso non ha ricevuto nemmeno la nomination per la regìa. 
In ogni caso, sia Lincoln che Argo sono due film che rimettono al centro la forza degli Studios e delle grandi major: il primo è la biografia del politico più amato degli Stati Uniti, raccontata con dovizia di particolari. Il secondo è la cronaca, tanto assurda quanto incredibilmente vera, dalla più inverosimile operazione di spionaggio e diplomazia mai operata dai servizi segreti americani. E' il trionfo della vecchia Hollywood, tronfia e contemplatrice, che dopo tre anni di digiuno e dopo aver pagato dazio al cinema indipendente (The Hurt Locker, Il discorso del Re e The Artist) è pronta prepotentemente a riprendersi il trono.
Pochissime possibilità (per non dire nessuna) per gli altri film in gara: e dispiace davvero per  Django Unchained di Tarantino e Zero Dark Thirty della Bigelow, i film indiscutibilmente più belli dell'anno ma, purtroppo per loro, lontani anni-luce dai canoni dell'Academy. Due film 'scomodi', che rievocano pagine nere della Storia americana (la schiavitù e le torture, l'annientamento della dignità dell'essere umano) e che, verosimilmente dovranno accontentarsi delle briciole. Così come Vita di Pi di Ang Lee, troppo 'moderno' e visionario, e come Re della Terra Selvaggia, messo lì solo per dare un 'contentino' al cinema 'indie'.
Discorso a parte invece per Silver Linings Playbook di David O. Russell (che uscirà da noi col titolo Il lato positivo): commedia sofisticata e piuttosto conformista che punterà molto sulle canditure ai propri interpreti, tutti in nomination (Jennifer Lawrence, Bradley Cooper, Jacki Weaver e Robert DeNiro), e per il kolossal Les Misérablés, cui le otto candidature sono forse fin troppo generose.
VINCERA': LINCOLN
IL NOSTRO PREFERITO: DJANGO UNCHAINED

MIGLIOR REGIA
Qui Steven Spielberg dovrebbe vincere a mani basse, e sarebbe il terzo Oscar per il regista di Cincinnati dopo quelli per Schindler's list e Salvate il soldato Ryan. Un risultato che lo proietterebbe nell'olimpo di Hollywood, a una sola lunghezza dal grande John Ford. Pronostico facile soprattutto per mancanza di avversari... l'Academy ha fatto fuori le candidature più scomode (Kathryn Bigelow, Quentin Tarantino e il sottovalutato Ben Affleck) ed è difficilmente pensabile che altri potranno inserirsi nella lotta. Solo a livello teorico, il più accreditato potrebbe essere il tetro Michael Haneke, ma crediamo che si dovrà 'accontentare' della statuetta per il miglior film straniero... Personalmente, della cinquina in gara la nostra preferenza va al bravo Ang Lee, regista eclettico capace di passare con disinvoltura dalla commedia, al dramma, all'azione, nonchè dalle produzioni indipendenti ai kolossal milionari. Con Vita di Pi ha realizzato un piccolo gioiello. Ma se ne resterà comodo in poltrona ad applaudire lo zio Steven...
VINCERA': STEVEN SPILEBERG (LINCOLN)
IL NOSTRO PREFERITO: ANG LEE (VITA DI PI)

MIGLIOR ATTORE 
I bookmakers ormai da tempo non accettano più scommesse su di lui: Daniel Day-Lewis si appresta a portare a casa il terzo Oscar (dopo quelli per Il mio piede sinistro e Il Petroliere) e non ce ne sarà davvero per nessuno: Joaquin Phoenix è bravissimo in The Master (per il quale ha già vinto la Coppa Volpi a Venezia) ma in America il film di Anderson è stato un flop e certi 'peccati' si pagano... Bradley Cooper (Il lato positivo) è invece alla prima candidatura, ma difficilmente l'Academy premia i ruoli brillanti. Denzel Washington in Flight è bravo ma ha fatto ben di meglio in passato, mentre la nomination a Hugh Jackman per Les Misérablés ci sembra davvero molto molto generosa... Insomma, non c'è storia. Eppure, opinione personalissima, a noi il Day-Lewis di Lincoln non convince: troppo 'impostato' come recitazione, troppo innaturale anche per colpa del trucco pesante e non necessario. Vittoria, insomma, più per il carisma che per effettivi meriti, ma l'Oscar è anche questo...
VINCERA': DANIEL DAY-LEWIS (LINCOLN)
IL NOSTRO PREFERITO: JOAQUIN PHOENIX (THE MASTER)

MIGLIOR ATTRICE
Quando si dice che il talento non ha età... l'ottantacinquenne Emmanuelle Riva (in gara per Amour) e la neanche decenne Quvenzhanè Wallis (splendida protagonista in Re della terra selvaggia) sono, rispettivamente, la più anziana e la più giovane candidata nella storia degli Oscar. Non è un colpo di teatro dell'Academy: entrambe sono protagoniste di due film importanti e distanti anni luce dagli standard hollywoodiani, quasi come se i giurati volessero testimoniare attraverso queste nominations la loro attenzione e vicinanza verso altri 'mondi' cinefili. Peccato che... beh, nessuna delle due abbia delle serie speranze di vittoria! In questa categoria infatti c'è una favorita d'obbligo: Jessica Chastain è semplicemente 'mostruosa' (di bravura!) in Zero Dark Thirty, il film di Kathryn Bigelow che racconta la 'caccia' a Osama Bin Laden. La Chastain è Maya, giovane recluta della Cia che sacrificherà tutto (salute, affetti, vita privata) in nome della causa, facendo della sua missione un'autentica ossessione. Per lei è il ruolo della vita, se perdesse sarebbe davvero un delitto... magari mitigato dalla vittoria di un'altra splendida fanciulla, quella Jennifer Lawrence bravissima protagonista de Il lato positivo, il film di David O. Russell che si appresta a diventare la commedia più fortunata dell'anno. Jennifer è giovane, talentuosa, bella e determinata: a soli 22 anni è già alla sua seconda candidatura in tre anni, e la statuetta prima o poi la vincerà... è solo questione di tempo! Solo 'riempitiva', infine, la nomination per la Naomi Watts di The Impossible.
VINCERA': JESSICA CHASTAIN (ZERO DARK THIRTY)
LA NOSTRA PREFERITA: JESSICA CHASTAIN (ZERO DARK THIRTY)

MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA
Basta leggere i nomi dei candidati per capire il livello di questa cinquina: che, come spesso accade, è di gran lunga superiore a quella degli attori protagonisti. Tra l'altro, non si capisce che cosa ci faccia in questa categoria uno come Philip Seymour Hoffman, che in The Master è protagonista almeno quanto Joaquim Phoenix... ma forse è il solito 'trucchetto' dell'Academy per dare un contentino ad un film (e a un attore) che, altrimenti, sarebbe chiuso nella categoria principale (dove Daniel Day-Lewis ha già prenotato il premio). Potrebbe accadere però che, in caso di trionfo di Lincoln, l'effetto-domino degli altri premi finisca per avvantaggiare Tommy Lee Jones, e non sarebbe comunque uno scandalo. Anche se, alla fine, il più bravo di tutti è ancora una volta l'istrionico Christoph Waltz, già oscarizzato in Bastardi senza gloria e per questo difficilmente 'rieleggibile'. Suscita simpatia invece la candidatura di una leggenda vivente come Robert DeNiro (che si prende simpaticamente in giro ne Il lato positivo), mentre sono quasi nulle le speranze per Alan Arkin, cinico e divertentissimo produttore cinematografico in pensione in Argo di Ben Affleck.
VINCERA': TOMMY LEE JONES (LINCOLN)
IL NOSTRO PREFERITO: PHILIP SEYMOUR HOFFMAN (THE MASTER)

MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA
Se Lincoln, come da previsioni, dovesse essere l'asso pigliatutto della serata, allora per Sally Field ci sarebbero buone possibilità di vittoria. Sarebbe però un peccato, perchè a nostro avviso Anne Hathaway è davvero incantevole nel suo ruolo di Fantine in Les Misérablés: un'interpretazione sentita, sofferta, appassionata, dove la giovane ma già affermata Anne si è superata. Noi tifiamo per lei, spudoratamente. Poche chanches per le altre tre candidate, Jacki Weaver, Helen Hunt e Amy Adams. 
VINCERA': ANNE HATHAWAY (LES MISERABLES)
LA NOSTRA PREFERITA: ANNE HATHAWAY (LES MISERABLES)

MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE
Questa è la categoria dove, notoriamente, si trovano le cose migliori dell'anno: e se a votare fossero i critici e tutti gli appassionati di cinema crediamo che Quentin Tarantino vincerebbe a mani basse. Non riusciamo infatti a immaginare chi potrebbe togliere il premio allo script di Django Unchained... Ma Tarantino, lo sappiamo, è visto dall'Academy come un 'alieno', un guastafeste che si diverte a scimmiottare e macinare generi e idee di altri. E allora ecco che salgono le quotazioni di Amour, trionfatore a Cannes e quasi sicuro vincitore tra i film stranieri. E come non considerare la nomination di Mark Boal per Zero Dark Thirty? Un filmone di due ore e mezza dove la tensione è dovuta quasi esclusivamente alla partitura 'perfetta' e senza sbavature del 'Signor Bigelow'. E vogliamo parlare anche del dolcissimo e delicato Moonrise Kingdom, scritto a quattro mani da Wes Anderson e Roman Coppola? Quattro film, quattro grandi sceneggiature. Che fanno quasi scomparire quella, comunque onestissima, di John Gatins per Flight. Insomma... comunque vada sarà un successo!
VINCERA': MICHAEL HANEKE (AMOUR)
IL NOSTRO PREFERITO: QUENTIN TARANTINO (DJANGO UNCHAINED)

MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE
Bella lotta anche qui, dove Tony Kushner (cui Spielberg ha affidato la scrittura di Lincoln) dovrà vedersela col piccolo-grande film indipendente Re della Terra Selvaggia: una lotta tra Davide e Golia dove potrebbe inserirsi, a sorpresa, David O.Russell (anche regista de Il lato positivo). Bella ma convenzionale invece la sceneggiatura di David Magee, che in Vita di Pi si è limitato a trasporre fedelmente il bel libro di Yann Martel. Alla fine però il miglior testo finisce per essere quello di Argo, dove il bravissimo Chris Terrio potrebbe davvero spuntarla. E sarebbe un premio meritatissimo. Vedremo.
VINCERA': CHRIS TERRIO (ARGO)
IL NOSTRO PREFERITO: CHRIS TERRIO (ARGO)

LE ALTRE CANDIDATURE
Poca Italia quest'anno agli Oscar: l'unico nostro candidato è il musicista Dario Marianelli, già vincitore qualche anno fa per Espiazione di Joe Wright e in gara stavolta per la colonna sonora di Anna Karenina, dello stesso regista: auguri. Tra i film stranieri, scontata la vittoria di Amour di Michael Haneke (vincitore di tutti i premi possibili e immaginabili da Cannes in poi), mentre tra i cartoni facciamo tutti il tifo per Frankenweenie di Tim Burton: ma battere la concorrenza delle grandi major (Ribelle e Ralph Spaccatutto) non sarà facile. Mentre Lo Hobbit, Les Misérablés e Anna Karenina si spartiranno verosimilmente le statuette delle categorie 'tecniche' (costumi, fotografia, trucco, effetti speciali). Vinca il migliore!

GLI ASSENTI
E siamo alle dolenti note... ogni anno, puntualmente, l'annuncio delle candidature agli Oscar fa storcere il naso a legioni di appassionati di cinema, delusi per non ritrovare nelle cinquine che contano alcuni dei loro beniamini. E giù a dire che gli Oscar sono una buffonata, che non sono rappresentativi del 'vero' cinema (quale sarà mai, poi?), che 'fanno vincere solo chi vogliono loro' (frase e mentalità, questa, a dire il vero tipicamente italica). Allora, sgombriamo innanzitutto il campo da alcune ipotesi fantasiose: agli Oscar non ci sono 'complotti'. Le decisioni dell'Academy potranno essere discutibili ma sono assolutamente limpide e 'democratiche', per il semplice fatto che non si possono davvero 'comprare' quasi settemila giurati... è virtualmente impossibile. Così come, davvero, fino al momento dell'apertura delle buste nessuno conosce chi sarà il nome del vincitore. Del resto, negli Usa tutto viene fatto in funzione dello spettacolo, e un vincitore annunciato non farebbe certo salire l'audience!
E, soprattutto, bisogna mettersi in testa una cosa: non bisogna prendere gli Oscar per quello che NON sono! Gli Oscar NON sono i premi della critica, ma sono i premi dell'industria cinematografica e come tale vanno considerati. Non si scappa. E' inutile perciò arrabbiarsi se viene dato poco spazio al cinema indipendente o internazionale, o se certe scelte appaiono convenzionali e poco coraggiose: non siamo nè a Cannes nè a Venezia, qui è Hollywood che premia se stessa e di sicuro ci pensa due volte prima di consegnare la statuetta a chi non produce film dentro gli Studios... è così e sarà sempre così'. Amen.
L'Academy è conservatrice di natura, e ama solo determinati generi. Così come ha una propria idea di cinema e elimina senza pietà tutto ciò che NON rientra nei suoi canoni: inutile quindi prendersela se non troviamo tra i migliori registi gente come Christopher Nolan, Quentin Tarantino, Kathryn Bigelow o Wes Anderson, per non parlare di Terrence Malick... Del resto anche l'Academy stessa è consapevole di non essere il Verbo: nessuno dei suoi settemila membri ha la pretesa di essere al di sopra delle parti ed è consapevole che c'è anche altro cinema oltre Hollywood. Solo che, semplicemente, a loro non interessa affatto. Gli Oscar sono questi, prendere o lasciare.    

lunedì 18 febbraio 2013

ZERO DARK THIRTY

(id.)
di Kathryn Bigelow (USA, 2013)
con Jessica Chastain, Jason Clarke, Jennifer Ehle, Joel Edgerton, James Gandolfini


Mezzanotte e mezza, nel gergo militare. Questo significa Zero Dark Thirty, ed è ovviamente l'ora dell'assalto al fortino di Osama Bin Laden. Ovvero il 'Pericolo Pubblico Numero Uno', l'uomo che per un decennio ha terrorizzato l'America e il mondo intero. Kathryn Bigelow impiega 157 minuti (tutti necessari) per raccontarci dieci anni di storia in cui i servizi segreti americani hanno usato ogni mezzo, più o meno lecito, per catturare il bandito più celebre della storia moderna.

Già, più o meno lecito. Perchè qui sta il nocciolo di questo importante e bellissimo film, che ha scatenato furiose polemiche in patria e allontanato il pubblico dalle sale: chi si aspettava infatti un'agiografia della macchina da guerra americana (come era stato nel precedente The Hurt Locker, grandioso film d'azione ma eticamente inaccettabile) e una tronfia retorica celebrativa dell'operazione militare in questione, è rimasto spiazzato da una pellicola che mostra senza indulgenza i metodi poco ortodossi utilizzati dalla CIA per il compimento dell'opera. In parole povere, Zero Dark Thirty è stato accusato in patria di aver giustificato l'uso (o l'abuso) delle torture per estorcere informazioni ai presunti terroristi, tacciando perfino il presidente Obama di aver mentito al mondo sull'osservanza di tali metodi...

Polemiche strumentali e fuorvianti, è bene dirlo subito. Perchè in realtà proprio questo è il più grande merito del film, ovvero l'obiettività di giudizio e lo sguardo neutro della regista nei confronti del pubblico, in segno di profondo rispetto: la Bigelow mette in scena un film che, almeno nella prima parte, sembra quasi un documentario di guerra per lo stringente realismo con cui è stato approntato: le torture vengono mostrate in tutta la loro crudezza, quasi fino alla nausea, proprio perchè sarebbe stato assurdo e falso non parlarne: ci sono state, ed è anche grazie ad esse se Bin Laden è stato catturato. Lo sappiamo tutti, e ognuno può trarre le proprie conclusioni in base al proprio senso etico. D'altronde, anche Steven Spielberg nel recente Lincoln ha messo in guardia il pubblico sui metodi non certo cristallini usati dal Potere per raggiungere l'obiettivo. E se il detto Il fine giustifica i mezzi valeva per lui, non si capisce per quale motivo invece non debba valere per Bin Laden.

Domanda ovviamente retorica, perchè in realtà lo sappiamo benissimo... l'America di oggi è una nazione impaurita che ha un disperato bisogno di eroi, e anche soltanto macchiare l'immagine del DEVGRU (il nucleo anti-terrorismo appositamente costituito dopo l' undici settembre) è sinonimo di lesa maestà. Per questo lo spettatore americano medio ha disertato in massa le sale in cui si proiettava Zero Dark Thirty: considera il film un 'tradimento', un tentativo di gettare fango su un'operazione militare che per l'opinione pubblica rasenta quasi i confini della sacralità.

Voi però andetelo a vedere, vi conviene. Perchè è una pellicola bella, importante e stilisticamente impeccabile. E ci regala (finalmente!) una delle più belle interpretazioni femminili degli ultimi anni. Maya (una straordinaria Jessica Chastain, Oscar prenotato) è una giovane recluta della CIA, determinata e incredibilmente testarda, che per dieci anni dedica tutta se stessa alla ricerca e alla cattura di Bin Laden. Lo fa da sola contro tutti, tra lo scetticismo dei colleghi maschi (e anche un po' maschilisti) e la ritrosia delle Istituzioni. Per dieci anni Maya rinuncia a tutto (affetti, salute, vita privata, relazioni sociali) per dedicarsi a quella che, a seconda della sensibilità di chi guarda, può sembrare una missione o un'ossessione. Sarebbe fin troppo facile sostenere che solo una donna (regista) poteva affidare ad un'altra donna (attrice) il ruolo della vita... Kathryn Bigelow lo fa mettendosi a disposizione della storia e snaturando perfino il suo modo di fare cinema, fatto di azione ed emozioni forti (solo l'ultima mezz'ora è da adrenalina pura) pur di improntare l'intera vicenda al più assoluto realismo, rifuggendo la spettacolarizzazione della guerra e volgendo lo sguardo agli intrighi e alle bassezze della politica (che invece in molti vorrebbero 'alta e nobile'). Operazione perfettamente riuscita.

domenica 17 febbraio 2013

VITA DI PI

(Life of Pi)
di Ang Lee (USA, 2012)
con Suraj Sharma, Irrfan Khan, Rafe Spall, Adil Hussain
VOTO: ****/5

Pi è un giovane indiano che vive in patria con i genitori e il fratello, guadagnandosi da vivere nel giardino zoologico di famiglia. Costretto ad abbandonare l'India a causa della crisi economica, si imbarca in un mercantile diretto in Canada, dove il padre spera di ricominciare una nuova vita vendendo gli animali e investendo il tesoretto ricavato. La nave però rimane coinvolta in una spaventosa tempesta nei pressi della Fossa delle Marianne, naufrangando e portandosi con sè tutto l'equipaggio e buona parte del bestiame. Solo Pi per puro caso riesce a salvarsi, ma a carissimo prezzo: si ritrova infatti da solo su una scialuppa in mezzo all'oceano, in compagnia di una zebra, un orango, una iena e una tigre... ben presto gli animali cominciano a scannarsi tra loro, e alla fine prevale ovviamente il maestoso Richard Parker (chiamato così in onore del suo cacciatore), una tigre del Bengala di due quintali che dovrà condividere con Pi le peripezie del naufragio.

Se non conoscevate questa storia, di più davvero non si può dire sulla trama del film. Salvo che state per assistere alla più incredibile e mirabolante delle avventure, alla strenua lotta per la sopravvivenza tra due creature oggettivamente ostili ma obbligate, loro malgrado, a trovare collaborazione e comprensione nel condividere lo spazio angusto in cui sono costrette. Se invece avete avuto la fortuna di leggere il bellissimo romanzo di Yann Martel da cui è tratto il film, vi diciamo allora che la pellicola firmata da Ang Lee è estremamente fedele al testo letterario, e ne mantiene intatta tutta la potenza espressiva e visionaria. Se infatti il film, giocoforza, semplifica e sorvola su certe parti del libro, va detto che il regista cinese (ma ormai americano a tutti gli effetti) riesce comunque ad incantare lo spettatore sfruttando tutte le tecniche di fascinazione e spettacolarità che solo il cinema è in grado di restituire, in special modo la stupefacente fotografia e l'uso sapiente del 3D, per una volta davvero necessario e funzionale alla narrazione...

E Vita di Pi è davvero una gran bella storia, che funziona a tutte le latitudini e per tutte le età, proprio in nome dell'universalità di ciò che racconta: il percorso di avvicinamento tra due creature apparentemente nemiche che provano a 'sopportarsi' a vicenda per cercare di sopravvivere, scoprendo a un certo punto di non poter fare a meno l'una dell'altra: una parabola chiara e senza possibilità di errore sull'importanza della tolleranza e dell'integrazione tra razze, culture e religioni diverse. Emblematica in questo caso la smodata passione religiosa di Pi, che riesce a essere induista, cristiano e musulmano nello stesso momento, prendendo da ogni culto gli aspetti a lui più affini senza tuttavia ripudiarne nessuno, in nome del bene e della tranquillità interiore.

Ang Lee è uno dei registi più eclettici e intelligenti della (pen)ultima generazione, capace di passare in scioltezza dal dramma, alla commedia, all'avventura, così come dal cinema indipendente alla produzione mainstream, senza però tradire il suo sguardo limpido verso il mondo, improntato sempre su ideali di ragionevolezza e solidarietà (basti pensare a I segreti di Brokeback Mountain). Vita di Pi è un film spirituale e complesso nella sua semplicità di narrazione, una favola moderna capace di affascinare grandi e piccini: le undici candidature all'Oscar non sono affatto esagerate ma, anzi, un'ulteriore conferma di qualità.

giovedì 14 febbraio 2013

RE DELLA TERRA SELVAGGIA

(Beasts of the Southern Wild)
di Behn Zetlin (USA, 2012)
con Quvenzhanè Wallis, Dwight Henry, Levy Easterly, Lowell Landes
VOTO: ****/5

Hushpuppy per mangiare deve spezzare i granchi a mani nude. Ha nove anni e un padre malato, alcolizzato, violento, capace di respingerla e scacciarla come un cane, ma anche di insegnarle a stare al mondo. Un mondo fatto di  miseria e depressione, in uno dei luoghi più ostili e inospitali che esistano: siamo in Louisiana, nelle paludi del sud, dove uragani e maremoti si abbattono in continuazione nella 'grande vasca', ovvero l'area più esposta alle alluvioni, che sradicano come fuscelli le precarie casupole di lamiera. Re della Terra Selvaggia è stato definito dai più come una fiaba moderna: in realtà è un film durissimo e feroce, girato con taglio documentaristico, che trasporta lo spettatore neutrale ed economicamente privilegiato in un contesto da Inferno dantesco, ben reso dalla traballante camera a mano e dalla fotografia sporca e 'caldissima'...

Hushpuppy è l'unica protagonista di un racconto fantastico e iperrealista allo stesso tempo. E' lei l'anima e il 'centro di gravità' del film: uno scricciolo insignificante ma pronto a lottare come un leone per la sopravvivenza, mostrando i muscoli come le ha insegnato papà: lei non perde mai la calma, nè cade nel panico, nemmeno quando manda involontariamente a fuoco la misera roulotte dove vive, piena di ricordi della madre fuggita chissà dove... La ragazzina vorrebbe raggiungerla, cercarla, ma prima c'è da accudire un padre morente che, a modo suo, la sta preparando al 'dopo', inculcandone nella mente il desiderio di non fuggire da quella terra selvaggia, dove sarà destinata a diventare Regina.

La piccola protagonista, Quvenzhanè Wallis, è la più giovane candidata all'Oscar della storia. In realtà, diciamolo chiaramente, non è che la sua parte ci faccia gridare al miracolo (anche perchè parla sempre in voce off) ma è chiaro che  lei è il simbolo di un'America che nessuno ha il coraggio di mostrare: un'eroina dei bassifondi, povera, piccola e scura di carnagione, quasi una Vergine Maria di una storia cruda e terribilmente laica, dove però il misticismo affiora comunque in un contesto socialmente e culturalmente depresso, fatto di rituali antichi e azioni dettate dall'ignoranza e dalla paura del 'diverso' (vedi l'allucinante fuga dall'ospedale).

Re della Terra Selvaggia è un film che noi occidentali faticheremo molto a capire, non c'è dubbio. Troppo distante dal nostro modo di vivere e di pensare. Però è una pellicola importante, anche se faticosa, perchè in questi 95 minuti si toccano temi importanti e universali quali il rispetto per l'ambiente, la dignità di ogni essere umano, la critica dura a un'economia che, esattamente come le alluvioni, spazza via gli strati più bassi della scala sociale. A meno che qualcuno, anche la persona apparentemente più debole e indifesa, non abbia il coraggio di andare incontro un gregge di bisonti inferociti...    

martedì 12 febbraio 2013

LES MISERABLES

(id.)
di Tom Hooper (GB, 2012)
con Hugh Jackman, Russell Crowe, Anne Hathaway, Amanda Seyfried, Sacha Baron Cohen, Helena Bonham-Carter, Eddie Redmayne
VOTO: ***/5

Vedendo Les Misérables non si corre il rischio di restare delusi: è un film spettacolare, dalla messinscena fastosa, di stampo innegabilmente classico. Un musical vecchio stile, proprio 'come quelli di una volta', che riporta agli anni d'oro del genere, quelli di West Side Story e Cantando sotto la pioggia... chi adora il musical ne resterà affascinato, chi non lo ama magari si farà qualche sbadiglio, ma è bene rendersi conto che un film del genere non poteva essere fatto diversamente da così: tratto dall'omonimo spettacolo teatrale campione d'incassi in tutto il mondo e basato sul capolavoro letterario di Victor Hugo, Les Misérables è un sontuoso adattamento cinematografico che, anche non raggiungendo le vette emozionali della versione per il teatro, riesce comunque a sprigionare tutta la sua potenza espressiva e stilistica: buona parte del merito, ovviamente,  va attribuito ad un romanzo straordinario che mantiene intatto ancora oggi (soprattutto oggi) il suo spirito rivoluzionario e reazionario. Come dire: quando c'è una grande storia a monte è proprio difficile fare un brutto film...

Russell Crowe e Hugh Jackman
Girato (e cantato) tutto in presa diretta, con gli attori che cantano con la propria voce, Les Misérables è un trattato sulla caduta e la redenzione, sulla speranza di una rinascita, sulla necessità dell'orgoglio e della dignità a qualsiasi strato sociale. Come in tutti i musical old-style ci sono scene (e canzoni) di grande trasporto emotivo alternati a momenti di comicità e anche di stanchezza: il risultato è un film per certi versi 'esagerato', un po' ingenuo, fisiologicamente noiosetto, eppure decisamente godibile nonostante le oltre due ore e mezza di durata. La macchina da presa (azionata da Tom Hooper, già 'oscarizzato' con Il discorso del re) segue da vicino i numerosi protagonisti tratteggiandone bene il carattere e il loro ruolo all'interno dell'ingranaggio filmico. Bravi (quasi) tutti gli interpreti: dal protagonista Hugh Jackman ad Anne Hathaway, dalla giovane Amanda Seyfried agli istrionici Sacha Baron Coen e Helena Bonham-Carter (ai quali sono affidati gli intermezzi leggeri della pellicola). Solo Russell Crowe dimostra qualche oggettivo disagio in un ruolo brillante che non è nelle sue corde, ma si produce comunque in un apprezzabile monologo finale che emoziona non poco lo spettatore.

Anne Hathaway
Un film, insomma, che mantiene le aspettative e sfrutta al meglio l'importante budget stanziato. Peccato solo per l'infelice versione italiana, che ha scelto inopinatamente di doppiare le rarissime parti dialogate e di mantenere la versione originale per quanto riguarda le canzoni: scelta miope e illogica, che conferisce alla pellicola sprazzi di involontaria comicità. Sarebbe stato molto meglio distribuirlo integralmente in versione originale sottotitolata, ma questa ormai è una diatriba vecchia quanto il cinema stesso...

lunedì 4 febbraio 2013

FLIGHT

(id.)
di Robert Zemeckis (USA, 2012)
con Denzel Washington, Kelly Reilly, John Goodman, Charlie Anderson, Don Cheadle, Melissa Leo
VOTO: ***/5

Bob Zemeckis è uno dei registi più sottovalutati del pianeta. Sarà per quell'aspetto pacioso da tipico americano medio, sarà per il faccione rubicondo e rassicurante che sfodera ad ogni apparizione, fattostà che nei salotti-bene di Hollywood quasi nessuno se lo fila.  Eppure, se andiamo a vedere la filmografia di questo corpulento signore di Chicago che va ormai per la sessantina, ci accorgiamo che quasi mai ha deluso le aspettative: Zemeckis non sarà un autore con la A maiuscola (e lui lo sa benissimo) ma pochi altri registi in carriera hanno saputo conciliare gli interessi del cinema commerciale con una produzione di indubbia qualità come ha fatto lui. Ha diretto film di enorme successo e puro godimento come la saga di Ritorno al Futuro, pellicole sottilmente inquietanti come La morte ti fa bella o Le verità nascoste, si è dedicato con successo al cinema per ragazzi e all'animazione (Polar Express, A Christmas Carol, ma anche quell'autentico gioiellino di genere che è Chi ha incastrato Roger Rabbit?), è stato ricoperto di Oscar (e di soldi) con Forrest Gump, ha trovato perfino il tempo di girare un capolavoro come Contact, film epocale, affascinante, di cui forse nemmeno lui stesso si è accorto della portata...

Denzel Washington, autentico 'mattatore' del film
Insomma, un film di Zemeckis merita sempre la visione. A prescindere. Anche quando decide di rimanere nell'ombra (come già in Contact) e mettersi a disposizione di un grande attore esaltandone le doti: Flight è un film cucito su misura per la performance di Denzel Washington (che non a caso si è assicurato una nomination all'Oscar) e sebbene non brilli certo per originalità, sorprende per la forma e la scorrevolezza dell'opera, assolutamente senza sbavature: infatti, nonostante i 139 minuti di durata, non ci si distrae mai un attimo nonostante non sia esattamente un film d'azione. E' quello che si dice un 'thriller dell'anima', basato sulla concezione tipicamente americana della caduta e della redenzione, ma senza cadere nemmeno per un istante nella retorica (eccezion fatta, forse, per le scene finali, piccolo tributo da pagare al mainstream).

Flight comincia dove potrebbe finire l'esistenza di molte persone: un aereo di linea compie un atterraggio miracoloso in seguito a un cedimento meccanico, e quasi cento persone si salvano grazie a una manovra tanto abile quanto audace del suo comandante. Il pilota diventa immediatamente un eroe nazionale, ma l'inchiesta interna aperta d'ufficio dalla compagnia aerea rivelerà che durante il volo era sotto l'effetto di alcool e droga, consumati tra l'altro con generosa frequenza anche nella vita privata...


Kelly Reilly
Il cinema americano è pieno di film sull'alcolismo e sulla dipendenza, e certamente Flight non aggiunge niente di nuovo a questo tema. Ha però il merito di non essere affatto moralista, mostrandoci il lato più negativo e drammatico di un uomo capace di prendersi cura più degli altri che di se stesso. E' un film sulla debolezza umana, sull'impossibilità di vivere un'esistenza normale quando si ha a che fare con una vita che è a suo modo eccezionale: Whit Whitaker è una persona debole che solo eccedendo nelle sue dipendenze riesce a non sentire il peso delle responsabilità.

Robert Zemeckis
Zemeckis ci mette del suo nella prima mezz'ora, regalandoci sequenze aeree da brivido e pelle d'oca durante l'atterraggio impossibile (dove, sebbene tutti sappiamo benissimo come andrà a finire, si rimane col fiato sospeso). Poi il film diventa un autentico one-man-show, con Denzel Washington che dà fondo a tutta la sua bravura per rendere credibile e non stucchevole la figura di un 'eroe per caso', costretto suo malgrado ad affrontare una traversata paradossalmente ben più difficile di quella appena conclusasi a lieto fine. E' curioso pensare che Flight inizia proprio dove finiva Cast Away (l'ultimo film 'vero' diretto da Zemeckis), ovvero da un disastro aereo e la miracolosa sopravvivenza, quasi a chiudere un cerchio cinefilo sulla difficoltà dello stare al mondo. Non sarà cinema 'impegnato', ma come sempre si lascia guardare. Più che volentieri.