martedì 10 settembre 2019

PAGELLE VENEZIANE : CONCORSO


Non è stata un'edizione "memorabile" come le due precedenti (forse irripetibili), e in un certo senso ce lo aspettavamo, era fisiologico... del resto, come dice lo stesso Alberto Barbera, ormai sono i film che scelgono i festival, e non viceversa. Tradotto: quest'anno non era possibile fare meglio con il materiale a disposizione, e comunque il concorso veneziano si è mantenuto su livelli più che dignitosi, con almeno 4-5 titoli di assoluto rilievo e alcune opere forse non del tutto riuscite, ma comunque coraggiose (Larraìn). Alla fine ha vinto Joker, film destinato inevitabilmente a far discutere, che a suo modo entra a pieno titolo nella Storia di Venezia (e non solo). Emblema di una Mostra vitale, al passo coi tempi e sempre aperta alle nuove tendenze. Non è affatto poco.  



COLPI DI FULMINE







MARTIN EDEN 
(di Pietro Marcello, Italia)
Finalmente un bel film italiano di quelli "universali", comprensibili a ogni latituidine, aperto al mondo: Pietro Marcello re-interpreta il celebre romanzo di Jack London trasportandolo in una Napoli senza tempo, in un'epoca indefinita, attraversando tutto il Novecento per dimostrare che certi concetti (giustizia sociale, lotta al classismo, parità di diritti) non hanno mai scadenza. Operazione coraggiosa, di gran classe, riuscitissima. Grande prova di Luca Marinelli in un ruolo cucito su misura per lui e che lo consacra tra i grandi del cinema italiano.



MARRIAGE STORY 
(di Noah Baumbach, USA)
Il film che mi ha riconciliato con Baumbach, dopo gli ultimi e (per me) inconsistenti Frances Ha e Mistress America. Uno struggente e doloroso racconto di un amore finito e le dinamiche familiari che ne conseguono, narrato con rara sensibilità ed emotivamente coinvolgente. Bravissimi Adam Driver e Scarlett Johansson, ingiustamente ignorati in sede di premi. Ma si rifaranno agli Oscar.



JOKER  
(di Todd Phillips, USA)
Scordatevi Black Panther o gli Avengers: il Joker di Todd Phillips non ha nulla da spartire con i comuni cinecomics, quasi tutti standardizzati o preconfezionati. E' piuttosto un grande film drammatico, nerissimo, cupo, estremamente politico, che fa il verso a Taxi Driver di Scorsese ma riesce anche ad essere incredibilmente umano, malinconico, doloroso. Straordinaria prova di Joaquim Phoenix, che contenderà a Jack Nicholson e Heath Ledger il ruolo del Joker più iconico di sempre.



J'ACCUSE (L'UFFICIALE E LA SPIA) 
(di Roman Polanski, Francia)
Un film importante, rigoroso, chirurgico nella minuziosa ricostruzione dei fatti di uno dei casi giudiziari più famosi della storia. Film dal doppio significato, che mostra la genesi delle dittature e i prodromi delle discriminazioni razziali (la civilissima Francia fu una delle prime nazioni a discriminare gli ebrei), ma anche una pellicola molto personale dove Polanski urla (a denti stretti) la sua rabbia verso la vicenda giudiziaria che lo perseguita da oltre quarant'anni. Uno dei migliori film del Concorso, con buona pace della femminista Lucrecia Martel che (forse) lo ha privato del Leone d'oro.




C'E' DEL BUONO...




THE LAUNDROMAT 
(di Steven Soderbergh, USA)
Il "solito" Soderbergh: caustico, graffiante, ironico, divertentissimo. Meryl Streep è una vedova inconsolabile decisa a recuperare a tutti i costi i soldi dell'assicurazione (farlocca) che avrebbe dovuto coprire l'incidente che le ha portato via il marito. Si scontrerà con una miriade di sociaetà off-shore che, come le scatole cinesi, speculano sulla pelle dei poveracci. Lo scandalo dei Panama Papers raccontato attraverso un film che non dice niente di nuovo ma lo dice molto bene, impreziosito dai tanti piccoli camei di tante star del cinema (impagabili Gary Oldman e Antonio Banderas).



LA MAFIA NON E' PIU' QUELLA DI UNA VOLTA 
(di Franco Maresco, Italia)
A cinque anni di distanza da Belluscone, Franco Maresco torna di nuovo al Lido (questa volta nel concorso principale) con un esilarante (e agghiacciante) documentario sulla mafia palermitana e le sue ramificazioni nel tessuto sociale, servendosi dell'aiuto di una celebre fotografa (Letizia Battaglia) e di quello, inconsapevole, di personaggi inquietanti e subdoli come Ciccio Mira e Cristian Miscel, esponenti dei gruppi neomelodici con intrecci malsani con la piovra.



IL SINDACO DEL RIONE SANITA' 
(di Mario Martone, Italia)
Non un semplice adattamento dell'omonima pièce teatrale, ma un film a tutti gli effetti dove Martone attualizza la vicenda ai tempi correnti e caratterizza bene i personaggi, descrivendo una Napoli che (finalmente) non spettacolarizza la malavita stile Gomorra e prova a suscitare riflessioni nel pubblico. Operazione discretamente riuscita, anche se un po' fine a se stessa e non priva di difetti (gli attori prima di tutto, che recitano esattamente come fossero a teatro).



GLORIA MUNDI 
(di Robert Guédiguian, Francia)
Guèdiguian torna a Venezia per la seconda volta consecutiva, ma stavolta il suo nuovo film non è all'altezza dei precedenti e della sua produzione. Gloria Mundi è l'ennesima storia di ordinaria precarietà in una Marsiglia, al solito, vista dalla parte dei più deboli e degli sfruttati. Operazione lodevole ma che rischia di scadere nel didascalismo, complice una sceneggiatura fin troppo rigida e schematica che poche volte indigna come dovrebbe lo spettatore.



EMA 
(di Pablo Larraìn, Cile)
E' il primo film di Larraìn che mi lascia molto perplesso, interdetto, tanto da non sapere ancora se mi sia piaciuto o meno. Il regista cileno rinuncia per la prima volta alla politica per raccontare la storia di una donna disagiata, bipolare, la cui vita ruota misticamente intorno al ballo, inteso come forma di espressione e liberazione. La danza funge da strumento di fuga dal conformismo (sessuale, sociale, culturale) oltre che dalla realtà quotidiana. Ci sono scene visivamente splendide alternate a sequenze che sfiorano il ridicolo, che preludono a un finale incandescente (in tutti i sensi), che non riesce però a fugare la sensazione di aver assistito a un patinato esercizio di stile, seppur di gran classe.



SATURDAY FICTION 
(di You Le, Cina)
Una spy-story con teatro la Cina del 1941, durante l'invasione giapponese: la splendida Gong Li è una spia al servizio degli alleati con il compito di estorcere al nemico informazioni preziose sull'imminente attacco a Pearl Harbour. Ma la sua missione sarà complicata da questioni sentimentali di non poco conto... un film a metà tra noir e melò, forse un po' troppo trattenuto per noi occidentali (che abbiamo sensibilità diverse) ma come al solito di grandissima eleganza formale, una vera gioia per gli occhi.



WAITING FOR THE BARBARIANS 
(di Ciro Guerra, USA/Italia)
Ai remoti avamposti di un impero, un feroce colonnello (Johnny Depp) cattura e tortura persone inermi per indurle a confessare quando si verificherà un fantomatico attacco da parte dei "barbari". Così facendo si scontrerà con il mite funzionario di frontiera (Mark Rylance) che invece ha sempre adottato la linea del dialogo per prevenire scontri sanguinosi tra le due etnìe. Potente metafora sul potere e l'assolutismo, oltre che sulla stupidità della guerra, girato però in maniera forse fin troppo schematica.



C'E' DA SOFFRIRE...




ABOUT ENDLESSNESS   
(di Roy Andersson, Svezia)
Lo svedese Roy Andersson continua in perfetta coerenza con il suo cinema, con le solite inquadrature fisse, i soliti colori pastello, la solita galleria di personaggi stravaganti e inumani... il problema, appunto, è che i suoi film ormai si assomigliano un po' tutti e non sorprendono più il cinefilo "allenato". Questo About Endlessness, poi, è davvero ai minimi termini: appena 75 minuti di gag stiracchiate e totale mancanza di ritmo. La sensazione è che si stia davvero raschiando il barile.



NO.7 CHERRY LANE 
(di Yonfan, Cina)
Un cartone animato per adulti, piuttosto surreale e stralunato, francamente poco comprensibile, dalla durata eccessiva. Meriterebbe (forse) una seconda visione, ma a Venezia ha lasciato un po' tutti interdetti. Tutti tranne la giuria, che gli ha attribuito un inopinato premio per la miglior sceneggiatura, decisione quantomeno azzardata.



BABYTEETH 
(di Shannon Murphy, Australia)
Alberto Barbera aveva dichiarato che "non sarebbe stato il solito film sulla malattia..." mah, insomma: diciamo che per essere un'opera prima il film si lascia vedere ed è pure ben costruito, il problema è che la giovane protagonista non è proprio credibile: dalla prima alla penultima scena, se non fosse per i capelli rasati per la chemio non sembrerebbe proprio una malata terminale, mentre invece nel finale il dramma arriva di punto in bianco. In tutta onestà non credo sia giusto raccontare il cancro in questo modo. Ma qui, me ne rendo conto, si entra più nel campo dell'etica che in quello del cinema.



WASP NETWORK 
(di Olivier Assayas, USA/francia)
Oliver Assayas racconta una storia di spionaggio e controspionaggio tra Cuba e Stati Uniti, tentando di svelare al pubblico i rapporti sempre difficili tra i due paesi e le difficoltà della gente comune, divisa tra sostenitori del regime e dissidenti castristi. Solo che lo fa in maniera piatta, quasi svogliata (che sia un film su commissione?) e soprattutto con un fastidioso filo americanismo di fondo che non ti aspetti da un autore di solito molto rigoroso.



GUEST OF HONOUR    
(di Atom Egoyan, Canada)
Ennesima riflessione sul senso di colpa e sugli oscuri legami familiari tra padri e figli portata sullo schermo da Atom Egoyan, sulla ormai ennesima falsariga del suo film più famoso, Il dolce domani, ma senza ripeterne le atmosfere torbide ed emotive che lo resero celebre. Non un brutto film, ma la sensazione è che la creatività di Egoyan sia ferma da parecchi lustri...



THE PAINTED BIRD 
(di Vaclav Marhoul, Rep. Ceca)
Filmone cèco di tre ore, in bianco e nero e con i dialoghi in esperanto (!). Sulla carta aveva tutte le carte in regola per essere il film-evento della Mostra: una pellicola sulla quale il regista Vaclav Marhoul ha lavorato per dieci anni e che avrebbe dovuto essere un pamplhet epico contro le atrocità della guerra. Beh, di atrocità ce ne sono fin troppe, al limite del sostenibile, ma tanta efferatezza non è proprorzionale al risultato che, estetica a parte, sfocia troppe volte nel cattivo gusto.


Da questa lista mancano le recensioni di The Perfect Candidate, La Veritè e Ad Astra, che non sono riuscito a vedere. Il giudizio è rimandato alla loro uscita in sala.

5 commenti:

  1. Per ora ho visto solo Martin Eden e devo dire che sottoscrivo il tuo giudizio. Sono uscito dalla sala appagato sotto tutti i punti di vista.

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    1. Sì, Martin Eden è un gran bel film. Spero di parlarne presto, e spero soprattutto che abbia la distribuzione che merita, in modo che tutti quelli che lo desiderano riescano a vederlo.

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    2. Dalle mie parti è stato distribuito bene.

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  2. Ottimo film Martin Eden. Non sembra nemmeno italiano, ed è un complimento

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    1. Vero. Del resto il limite del nostro cinema è proprio questo: il non riuscire a portare sullo schermo storie "universali", che possano funzionare a tutte le latitudini. "Martin Eden" invece lo è.

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