sabato 28 dicembre 2019

THE IRISHMAN


titolo originale: THE IRISHMAN (USA, 2019)
regia: MARTIN SCORSESE
sceneggiatura: STEVEN ZAILLAN
cast: ROBERT DE NIRO, AL PACINO, JOE PESCI, HARVEY KEITEL, ANNA PAQUIN
durata: 209 minuti
giudizio: 



Frank Sheeran, mafioso e veterano di guerra, ormai vecchio e confinato in un ospizio, ricorda gli eventi che lo portarono a diventare un sicario al seguito della famiglia Bufalino, nonchè la sua profonda amicizia con il discusso sindacalista Jimmy Hoffa, poi compromessa a causa dei reciproci loschi affari...  



Una produzione da 160 milioni di dollari (sborsati da Netflix), una lavorazione complicatissima (soprattutto per gli effetti speciali), un cast mai visto prima (Bob De Niro, Al Pacino, Joe Pesci), tutti insieme e ringiovaniti digitalmente per raccontare quasi quarant'anni di storia americana visti dal suo lato oscuro, ovvero la mafia: The Irishman, ventisettesima regìa di Martin Scorsese, è per forza di cose un film "definitivo", l'ultimo gigantesco afflato di un'epopea violenta che ha avuto nel maestro newyorchese il suo cantore d'eccezione. Logico dunque che le aspettative fossero altissime e giustificate, altrettanto logico che il giudizio critico al film non possa prescindere da questo...

Ovviamente, The Irishman non è un film qualunque. E' un film di Scorsese, uno dal quale mai ci si aspetta il "compitino", un film "normale". Figuriamoci  da un kolossal del genere, nel quale il vecchio Martin ha riversato tutte le sue energie rimaste, quelle di un (grande) regista 76enne desideroso di consegnare alla storia del cinema l'opera-omnia di tutta la sua carriera. Un'ambizione legittima e comprensibile che però a mio parere lo ha portato a strafare, a perdere di vista l'obiettivo principale per un regista del suo calibro. E non, chiariamolo subito, perchè The Irishman sia un film scadente (trattandosi di Scorsese, è pressochè impossibile) ma perchè, nonostante la sua magniloquenza, a questa pellicola manca totalmente l'epicità che sarebbe lecito aspettarsi. The Irishman è un lungo racconto che si snoda placidamente per tre ore e mezza, che coinvolge e incuriosisce lo spettatore ma non regala mai emozioni nè empatia. Una freddezza mai appartenuta al miglior Scorsese.

Non è assolutamente vero che The Irishman sia un film noioso e pesante, come il pubblico medio di Netflix lo ha subito bollato, anzi. I 209 minuti di lunghezza scorrono via veloci, aiutati dalla sceneggiatura solida (ma asettica) dell'esperto Steven Zaillan, nonchè dalle interpretazioni rilassate e gigionesche dei tre protagonisti, ormai così abituati a ricoprire certi ruoli fino a diventare quasi caricature di se stessi, come se recitassero con il pilota automatico: solo Joe Pesci, richiamato in servizio dopo dieci anni di onorata pensione, riesce ad imprimere una certa (dis)umanità al suo personaggio, mentre Robert De Niro e Al Pacino sembrano come "imprigionati" nei loro stereotipi, come dei vecchi arnesi che funzionano ancora bene ma avrebbero bisogno di un po' di lubrificante per tornare come nuovi: difficile però trovarlo nell'officina di un regista che è praticamente loro coetaneo...

L'intento di Scorsese non era certo quello di girare l'ennesimo, "solito" film di mafia, bensì  volare molto più alto e mostrare al pubblico quanto la storia dell'America sia sempre andata di pari passo con quella delle famiglie mafiose che via via si avvicendavano al potere.

Una storia fatta di violenza, infiltrazioni, malaffare, connivenze tra poteri forti. Un po' come già descritto in Gangs of New York, certamente con un taglio ben diverso dai vari Mean Streets, Quei bravi ragazzi o Casinò, pellicole dove la politica rimaneva sempre in disparte, in sottofondo, come una presenza discreta ma impalpabile: in questi film Scorsese rappresentava un mondo (il suo) dove la mafia era compagna di vita delle persone comuni, cresciute gomito a gomito con i boss e loro scagnozzi, stratificata socialmente. The Irishman vorrebbe invece mostrare le conseguenze di tale stratificazione, quella "piovra" i cui tentacoli hanno ormai raggiunto anche i vertici più alti dello stato.

Intento lodevole, parzialmente vanificato però da una regìa piuttosto stanca e poco ispirata, senza guizzi particolari (quelli che farebbero la differenza tra Scorsese e un regista "normale"). E dire che l'incipit del film è pure notevole: vediamo Frank Sheeran  (Robert De Niro), ormai anziano e malmesso, abbandonarsi ai ricordi da un letto d'ospedale, senza che si veda mai il suo interlocutore (in una scena che ricorda molto Amadeus di Milos Forman, dove uno stanco Salieri sfogava la sua frustrazione verso il giovane Mozart...). L'interlocutore ovviamente è il pubblico, siamo noi stessi, che ascoltiamo i deliri di uomo solo e temuto, rimasto vittima inconsapevole della propria sinistra reputazione.

Peccato però che tutto quello che viene dopo non sia altro che una mera riproposizione di situazioni già viste, di clichè di genere che non riescono più a sorprendere nessuno, dove, certo, ci si ferma a riflettere sul corso delle cose  (il ritmo è costante ma non adrenalinico) ma con un distacco che non ci aspettavamo, desiderosi invece di un approccio più epico e toccante. Invece la maestosità della messinscena non è corrisposta nè, come già detto, dalla sceneggiatura di Zaillan, nè dalla fotografia impersonale di Rodrigo Prieto, nè da un cast di vecchie glorie poco convinte.

Un cast dove dobbiamo rimarcare la pressochè assoluta assenza di figure femminili, se si eccettua quella dell' ex bambina prodigio Anna Paquin (vincitrice dell'Oscar a soli dodici anni con Lezioni di Piano di Jane Campion) che comunque non pronuncia più di dieci parole (contate) in tutto il film. La sensazione è che Scorsese abbia girato The Irishman con i suoi amici e solo per i suoi amici. Un'autoreferenzialità che, umanamente, va di passo con la senilità del suo autore.

6 commenti:

  1. La visione merita solo per l'iniziale piano sequenza che fa venire i lucciconi agli occhi. L'ho visto al cinema è mi è piaciuto. Ho notato anche io la mancanza di figure femminili forti (e Scorsese ne ha create parecchie nel corso della sua carriera). Però ripensandoci è un 'man's world'e in fondo ci sta. E lo sguardo di perenne disapprovazione di Anna Paquin vale più delle dieci parole dette in tutto il film.

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    1. Infatti, come ho scritto, l'incipit è davvero bellissimo... putroppo illude (per me) su quello che verrà dopo. Comunque ribadisco: non si tratta di un brutto film ma di un film che delude le attese, pur restando su livelli di assoluta qualità (normale, trattandosi di Scorsese). Ma nel mio caso non c'è stata proprio empatia.

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  2. A me invece è piaciuto tanto: è un film-testamento, la summa di tutto il suo cinema. E aver tenuto un tono per me VOLUTAMENTE dimesso l'ho trovato un segno di rispetto verso lo spettatore e un gesto di umiltà da parte di un grande regista, che gli immancabili haters lo hanno bollato come "bollito" per le note polemiche sugli Avengers. W Martin!

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    1. Direi che questa storia del film-testamento è anche un po' inflazionata: solo in quest'ultimo anno lo abbiamo scritto (io compreso, eh!) per Allen, Redford, Eastwood, ora per Scorsese... è chiaro che a 76 anni è normale che un regista faccia un bilancio della sua carriera, però lasciamoli fare... non vorrei portare jella! ;) scherzi a parte, capisco la tua riflessione e per certi versi la condivido, però come ripeto questo film non mi ha coinvolto per nulla. Quanto agli haters e alla polemica sui Marvel, si è già scritto fin troppo: sai come la penso.

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  3. Bolsissimo e tronfio, una noia mortale. Sei stato anche troppo buono!!

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    1. Amo la capacità di sintesi, ma in questo caso direi che sei un po' troppo "tranchant"... se vuoi (anche) argomentare sono qui.

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