martedì 8 giugno 2021

THE MAURITANIAN

titolo originale: THE MAURITANIAN (GB/USA, 2020)
regia: KEVIN MACDONALD
sceneggiatura: RORY HAINES, SOHRAB NOSHIRVANI, M.B. TRAVEN
cast: TAHAR RAHIM, JODIE FOSTER, BENEDICT CUMBERBATCH, SHAILENE WOODLEY, ZACHARY LEVY
durata: 130 minuti
giudizio: 


L'incredibile, vera storia di Mohamedou Slahi, giovane ingegnere mauritano arrestato dai servizi segreti degli Stati Uniti in seguito agli attentati dell' 11 settembre 2001 e trattenuto per oltre quindici anni nel carcere di Guantanamo senza che mai gli fosse stato mosso un capo d'imputazione a suo carico. Solo grazie all'intervento di Nancy Hollander, una coraggiosa avvocatessa specializzata in diritti umani, Slahi ha potuto riacquistare la libertà.




Trent'anni esatti dopo Il silenzio degli innocenti, Jodie Foster torna a varcare la soglia di un carcere di massima sicurezza. Lei non è più una giovane recluta dell' FBI ma una potente avvocatessa attiva nel campo dei diritti umani, mentre "lui", ovvero l'imputato (ma, come vedremo, questo termine è drammaticamente inesatto) non è affatto un mostro alla Hannibal Lecter bensì un uomo innocente che ha avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato. E' la storia, incredibile ma vera, di Mohamedou Ould Slahi, un giovane cittadino mauritano costretto a scontare quindici anni di reclusione (dal 2001 al 2016) rinchiuso in una cella di tre metri per tre nel famigerato carcere di Guantanamo, senza che mai gli fosse stato contestato un capo d'imputazione, senza nessuna prova a suo carico e senza alcun sospetto fondato...

Succede anche questo nell'America post 11 settembre, auto-proclamatasi paladina del mondo e baluardo di democrazia. Una storiaccia infame che il regista scozzese Kevin MacDonald ha deciso di rendere nota al mondo e che, guardacaso, non ha certo avuto vita facile negli Stati Uniti (dove il film è uscito in pochissime sale ed è stato ben presto confinato nello streaming, senza alcun disappunto da parte del "sistema"), nè prima nè dopo la presidenza Trump. Qui infatti la politica c'entra poco, perchè malgrado durante la detenzione di Slahi si siano avvicendati due presidenti di ben diversa inclinazione (non solo il bellicoso George W. Bush - colui che autorizzò l'arresto - ma anche il democraticissimo Obama) nessuno si è mai preoccupato di mettere in dubbio la legittimità della prigionia.

The Mauritanian non è certo il primo film ad occuparsi delle conseguenze geopolitiche successive agli attentati alle Torri Gemelle, che portarono a gravi limitazioni della libertà personale e dei diritti umani, non ultima la legittimazione de facto della tortura come strumento di lotta al terrorismo internazionale  (pensiamo a opere come Zero Dark Thirty, The Report o American Sniper), eppure a mia memoria non ricordo altre pellicole dove l'indignazione per quello che viene mostrato sullo schermo raggiunge livelli così elevati... non è infatti un caso che il cinema e la critica americana abbiano sempre, più o meno velatamente, se non "giustificato" quantomeno socchiuso gli occhi di fronte a certe pratiche atroci, facendolo magari anche in buona fede e maniera inconsapevole, e ci voleva perlappunto un regista europeo per denunciare questo modo di agire assolutamente non accettabile.

E' proprio questo l'aspetto più agghiacciante di The Mauritanian: mostrare senza ambiguità l'inefficacia e il fallimento di questa caccia alle streghe, nemmeno di fronte all'evidenza, solo per soddisfare l'opinione pubblica e la ragion di stato. Non bastasse infatti l'ingiusta detenzione, ciò che indigna di tutta questa assurda vicenda è il tentativo da parte dei servizi segreti (e quindi del governo americano) di estorcere a Slahi una falsa confessione ricorrendo a violenze inimmaginabili, reiterate e documentate, indegne di uno stato democratico, avendo gioco facile grazie all'abile strategia di demonizzazione verso l'Islam messa in atto dai media e dal potere...

The Mauritanian è un film forse più importante che bello: non è certo esente da difetti, anzi. Ne ha molti, primo su tutti uno stile enfatico, ridondante, quasi manicheo nella sua pur sacrosanta condanna dei fatti. Del resto lo sapevamo che Kevin MacDonald non è proprio un regista che usa il fioretto al posto della spada: il suo modo di approcciarsi alla materia è simile a quello di un elefante in una cristalleria (ce ne eravamo già accorti nel suo lungometraggio più famoso, L'ultimo re di Scozia) e qui, se possibile, ci va giù ancora più pesante spezzando di fatto la pellicola in due parti poco amalgamate tra loro: se infatti da un lato assistiamo a scene di struggente e sincera commozione (come quelle girate in carcere, dove Slahi stringe amicizia - senza mai vederlo - con  il suo vicino di cella, oppure il finale del film dove - non proprio a sorpresa, va detto - compare il vero Slahi in immagini di repertorio) dall'altro si resta oltremodo scossi dalle indicibili sequenze di violenza in cui ci vengono mostrate, senza filtri e con dovizia di particolari, tutte le terribili torture subìte dal prigioniero, che proprio non giovano al nostro stomaco. 

Di conseguenza, il valore aggiunto del film non potevano essere che le prove, splendide, degli attori protagonisti: Jodie Foster si conferma, tanto per cambiare, una perfetta macchina da recitazione nel ruolo della coraggiosa avvocatessa Nancy Hollander, glaciale e determinata paladina dei diritti civili decisa a salvare ad ogni costo il suo cliente, non tanto per lui quanto per il principio di diritto ("dobbiamo condannare i responsabili di tutto questo dolore, ma non chiunque..."). Ma a toccare profondamente le nostre corde sensibili è soprattutto lo straordinario Tahar Rahim (i cinefili lo avevano già ammirato ne Il Profeta di Jacques Audiard e ne Il Passato di Asghar Farhadi, per citare le sue interpretazioni più note). E' grazie a lui che The Mauritanian si eleva da "semplice" legal-thriller a necessario pamphlet contro i nemici della libertà e della democrazia. Perchè, aldilà della qualità artistica dell'opera, la brutta storia di Mohamedou Ould Slahi meritava davvero di essere raccontata.

 

4 commenti:

  1. A me ste storie mi fanno stare proprio male quindi non sempre sono nella predisposizione giusta per affrontare la visione di film che le raccontano. Poi se mi dice che è fin troppo enfatico e pomposo mi passa ancora di più la voglia :)

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    1. In effetti è davvero una "storiaccia". Che meritava di essere portata alla luce, ma che impegna davvero lo spettatore. Quindi ti capisco bene. Lo stile di MacDonald lo conosciamo: certo non le manda a dire... però io sono comunque contento di averlo visto, nel finale ho perfino pianto qualche lacrima. Non tanto per il film quanto per il VERO protagonista, che - spoiler! - compare nelle immagini di repertorio.

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  2. Io non guardo horror, e roba di torture. Vero che la storia meriterebbe risalto e indignazione, ma soffermarsi con dovizia di particolari quasi a soddisfare certo voyerismo tipico degli appassionati di genere, a scapito di altri lati emozionanti del film, come l'amicizia con una persona che non vedrai mai, ne fanno un film che non guarderò.

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    1. Più che voyuerismo direi "mano pesante"... MacDonald lo conosciamo (anche "L'ultimo Re di Scozia" non era una passeggiata per lo spettatore) e diciamo che il suo stile è quello. Le violenze mostrate in questo film non sono gratuite, documentano la realtà. Sarebbe stato impossibile non mostrarle, il film non avrebbe avuto senso. Questo, ci mancherebbe, non vuol dire che vada visto per forza.

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